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Regno di Napoli - Wikipedia

Regno di Napoli

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Regno di Napoli
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Regno di Napoli - Bandiera
Regno di Napoli - Stemma
(dettagli)
Motto: 

Descrizione generale
Nome completo:
Nome ufficiale: Regnum Siciliae, Regnum Siciliae citra Pharum, Regnum Utriusquae Siciliae, Regnum Neapolis, Regno di Sicilia citeriore.
Lingue: latino (napoletano, siciliano italiano, catalano, spagnolo, greco, francoprovenzale, arabo)
Capitale: Napoli
Forma politica
Forma di governo: monarchia
re: Re di Napoli e Sicilia
Nascita: 1263
Causa: Nomina a Rex Siciliae di Carlo I d'Angiò da parte di Urbano IV
Fine: 1816
Causa: unione sotto la corona dei borboni del Regno di Sicilia citeriore e del Regno di Sicilia ulteriore dopo il congresso di Vienna.
Territorio e popolazione
Bacino geografico: Lazio meridionale e reatino (Cittaducale, Leonessa, Amatrice), Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia
Territorio originale: Sicilia-Mezzogiorno
Province: Abruzzo, Terra di Lavoro, Contado di Molise, Capitanata, Principato Ultra, Principato Citra, Basilicata, Terra di Bari, Terra d'Otranto, Calabria Citra, Calabria Ultra.
Economia
Moneta: Tarì, Grano, Carlino, Ducato, Piastra o Pezza, Cavallo
Commerci con: Stato Pontificio, Mediterraneo.
Esportazioni: olio, vino, seta, lana, carta, merletti, ceramiche artistiche, zafferano.
Importazioni: metalli preziosi, spezie.
Religione e Società
Religioni preminenti: chiesa cattolica
Religione di stato: cattolicesimo
Religioni minoritarie: religione ebraica, chiesa cristiana ortodossa, Islam, chiesa valdese
Classi sociali: Baroni, funzionari statali, popolo, clero

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Evoluzione storica
Preceduto da:
Succeduto da:
Regno di Sicilia bordered Regno delle Due Sicilie

Il regno di Napoli è il nome con cui è conosciuto lo stato italiano preunitario, esistito, con alterne vicende, dal XIII al XIX secolo e comprendente le attuali regioni Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata e Calabria, nonché alcuni territori dell'odierno Lazio (circondario di Sora, circondario di Gaeta e circondario di Cittaducale dopo l'unità d'Italia).

« Quest'ampia, e possente parte d'Italia, che Regno di Napoli oggi s'appella, il qual circondato dall'uno, e dall'altro mare, superiore ed inferiore, non ha altro confine mediterraneo, che lo Stato della Chiesa di Roma, quando per le vittoriose armi del Popolo Romano fu avventurosamente aggiunta al suo Imperio, ebbe forma di governo non troppo diversa da quella, che sortì da poi ne' tempi degli stessi Romani Imperatori. Nuova politia sperimentò quando sotto la dominazione de' Re d'Italia pervenne. Altri cambiamenti vide sotto gli imperatori d'Oriente. E vie più strane alterazioni sofferse, quando per varj casi trapassata di Gente in Gente, finalmente sotto l'Augustissima Famiglia Austriaca pervenne. Non fu ne' tempi della libera Repubblica divisa in Provincie, come ebbe da poi; né comunemente altre leggi non conobbe se non le Romane »
(Pietro Giannone, Storia civile del Regno di Napoli, libro I)

Indice

[modifica] Dal Regno di Sicilia al Regno di Napoli

Per approfondire, vedi la voce Regno di Sicilia.

[modifica] Origini dell'unità territoriale

L'isola della Sicilia e l'intera Italia meridionale a sud del Tronto e del Liri erano i territori che formavano il Regno di Sicilia, costituito di fatto nel 1127-1128, quando Ruggero II d'Altavilla unificò sotto il suo dominio i diversi feudi normanni dell'Italia Meridionale. Il titolo di Regno di Sicilia fu istituito dall'Antipapa Anacleto II fin dal 1130 e successivamente legittimato, nel 1139, da Papa Innocenzo II. Con la morte di Federico II di Svevia il figlio Manfredi costruì il suo baluardo ghibellino tra Mezzogiorno e Sicilia, avendone ereditata la sovranità insieme al fratello in Germania, Corrado IV. In quegli anni lo Stato Pontificio aveva avviato, a partire da Innocenzo III, con la sconfitta di Federico Barbarossa, una politica di espansionismo del potere temporale; papa Innocenzo IV, in linea col suo predecessore, rivendicò i diritti feudali dello Stato della Chiesa sul Regno di Sicilia, poiché i titoli regali sullo stato erano stati assegnati ai normanni (Ruggero II) da papa Innocenzo II. Quando però Enrico VI, figlio del Barbarossa, sposò Costanza d'Altavilla, ultima erede del Regno di Sicilia, il territorio normanno passò sotto la corona sveva, diventando un centro strategico della politica imperialistica degli Hohenstaufen in Italia[1].

L'incoronazione di Manfredi
L'incoronazione di Manfredi

[modifica] Gli Hohenstaufen e Carlo d'Angiò

A Federico II succedette il figlio Corrado IV, subito nominato re di Germania, mentre il figlio naturale Manfredi assumeva la luogotenenza per l'Italia: il governo del Mezzogiorno e della Sicilia era un importante prerogativa degli imperatori, anche per legittimare le politiche ghibelline, perché ad esso era annessa la gestione dell'«Apostolica Legazia di Sicilia», corpo politico-giuridico in cui l'amministrazione delle diocesi e del patrimonio ecclesiastico era direttamente gestita dal sovrano, ereditaria, e senza la mediazione papale. In questi anni papa Innocenzo IV sostenne una serie di rivolte in Campania e Puglia, che portarono all'intervento diretto dell'imperatore Corrado IV, il quale infine riportò il napoletano sotto la giurisdizione imperiale. Succedette a Corrado IV il figlio Corradino di Svevia, e finché quest'ultimo fu ancora minorenne, il governo della Sicilia e della Apostolica Legazia fu presa da Manfredi: egli, più volte scomunicato per contrasti con il papato, arrivò a proclamarsi re di Sicilia[2]. Morto Innocenzo IV, il nuovo papa francese Clemente IV, rivendicando diritti feudali sull'isola (retaggio dei primi latifondi che la diocesi di Roma possedeva in Sicilia prima della dominazione araba[3]), chiamò in Italia Carlo d'Angiò, il quale nel 1266 fu nominato dal vescovo di Roma rex Siciliae. Il nuovo sovrano francese partì allora alla conquista del regno, sconfiggendo prima Manfredi nella battaglia di Benevento, e poi Corradino di Svevia a Tagliacozzo, il 23 agosto 1268.

Gli Hohenstaufen, di cui si era estinta la linea maschile con Corradino, furono provvisoriamente eliminati dalla scena politica italiana e gli angioini si assicurarono il dominio sul Regno di Sicilia. La calata di Corradino, tuttavia, fu la premessa di importanti sviluppi, perché le città siciliane, che avevano accolto benevolmente Carlo d'Angiò dopo la battaglia di Benevento, erano nuovamente passate a sostenere il sovrano svevo. La svolta antiangioina sull'isola, motivata dall'eccessiva pressione fiscale del nuovo governo francese, non ebbe conseguenze politiche immediate, ma fu il primo passo verso la successiva guerra del vespro.

La campagna di Carlo I in oriente e la nascita del regno d'Albania (Durazzo).
La campagna di Carlo I in oriente e la nascita del regno d'Albania (Durazzo).

La grande speculazione finanziaria che la guerra aveva comportato (gli angioini si erano indebitati con i banchieri guelfi di Firenze), portò a una serie di nuove tassazioni e gabelle in tutto il regno, che si sommarono a quelle che il re impose quando ebbe a finanziare una serie di incerte campagne militari in oriente, nella speranza di assoggettare al suo dominio i resti dell'antico impero bizantino.[4] Nel 1267 poi, Carlo scacciò il partito ghibellino da Firenze e, con il titolo di paciere di Toscana, assumendo la carica di podestà in molti comuni, nonché Senatore di Roma[5][6].

[modifica] La perdita di Palermo: Napoli diventa capitale

Per approfondire, vedi la voce Vespri siciliani.

Con la morte di Corradino i diritti svevi sul trono di Sicilia passarono a una figlia di Manfredi, Costanza di Hohenstaufen, che il 15 luglio 1262 aveva sposato il re d'Aragona Pietro III. Il partito ghibellino di Sicilia che precedentemente si era organizzato attorno agli svevi Hohenstaufen, fortemente scontento della sovranità francese sull'isola, cercò il sostegno di Costanza e degli aragonesi, per organizzare la rivolta contro gli angioini. La sollevazione popolare antifrancese iniziò a Palermo il 31 marzo 1282 e dilagò in tutta la Sicilia, finché nell'agosto del 1282 l'esercito di Carlo d'Angiò non fu sconfitto. Le popolazioni siciliane nominarono come propri sovrani Pietro III di Aragona e la moglie Costanza, figlia di Manfredi; di fatto da quel momento vi furono due sovrani con il titolo di re di Sicilia, l'aragonese per investitura dei baroni siciliani, che occupava l'isola, e il francese, per investitura papale, nella penisola.

Pietro III d'Aragona sbarca in Sicilia
Pietro III d'Aragona sbarca in Sicilia

Il 26 settembre 1282 Carlo d'Angiò fu definitivamente sconfitto dall'esercito aragonese in Sicilia e, qualche mese più tardi, il papa regnante Martino IV scomunicò Pietro III; ciononostante non fu più possibile per Carlo tornare nell'isola e la sede regia angioina fu itinerante tra Capua e la Puglia per diversi anni, finché con il successore di Carlo I, Carlo II d'Angiò, Napoli fu scelta come nuova sede della monarchia e delle istituzioni centrali nel continente[1].

[modifica] Carlo I d'Angiò e il regno di Sicilia

Per approfondire, vedi le voci Cistercensi e Benedettini.
La chiesa abbaziale di Santa Maria Arabona
La chiesa abbaziale di Santa Maria Arabona

Seppur le ambizioni angioine in Sicilia furono inibite dalle numerose sconfitte, Carlo I mirò a consolidare il proprio potere nella parte continentale del regno, innestando sulla precedente politica baronale guelfa, parte delle riforme che già il vecchio stato svevo stava attuando, per rafforzare l'unità territoriale del Mezzogiorno[7]. Dalle prime invasioni longobarde buona parte dell'economia del regno, nel principato di Capua, in Abruzzo, e nel Contado di Molise era gestita dai monasteri benedettini (Casauria, San Vincenzo al Volturno, Montevergine, Montecassino)[8], che in molti casi avevano accresciuto i loro privilegi fino a diventare vere e proprie signorie locali, a sovranità territoriale e in contrasto spesso con i feudatari laici vicini.[9][10] L'invasione normanna prima, le lotte fra l'antipapa Anacleto II, sostenuto, fra gli altri, dai benedettini, e il papa Innocenzo II, e infine la nascita del regno di Sicilia, minarono le basi della tradizione feudale benedettina[9]. Attorno al XIII secolo sconfitto Anacleto II, Innocenzo II e le dinastie normanne incentivarono nell'Italia meridionale il monachesimo cistercense; molti monasteri benedettini furono convertiti alla nuova regola che, limitando l'accumulazione di beni materiali alle risorse necessarie per la produzione artigianale e agricola, precludeva la possibilità per i nuovi cenobi di costituire patrimoni e signorie feudali[11]: il nuovo ordine investiva quindi le risorse in riforme agrarie (bonifiche, dissodamenti, grangìe), artigianato, meccanica e assistenza sociale, con valetudinaria (ospedali), farmacie e chiese rurali. Il monachesimo francese trovò allora il sostegno dei vecchi feudatari normanni che poterono così contrastare attivamente le ambizioni temporali del clero locale[12]: su questo compromesso si innestò la politica del nuovo sovrano Carlo I; egli fondò di sua mano le abbazie cistercensi di Realvalle (Vallis Recalis)[13] a Scafati e Santa Maria della Vittoria a Scurcola Marsicana[14], e favorì le filiazioni delle storiche abbazie di Sambucina (Calabria), Sagittario (Basilicata), Sterpeto (Terra di Bari), Ferraria (principato di Capua), Arabona (Abruzzo) e Casamari (Stato Pontificio), diffondendo al contempo il culto dell'Assunzione di Maria nel Mezzogiorno. Concesse inoltre nuove contee e ducati ai militari francesi che sostennero la sua conquista del napoletano[15].

La cattedrale di Acerenza (XIII sec.)
La cattedrale di Acerenza (XIII sec.)

[modifica] Il nuovo assetto territoriale

Per approfondire, vedi le voci Giustizierato e Regalia.

I principali centri monastici di produzione economica erano stati così svincolati dall'amministrazione di possedimenti feudali e, l'unità dello stato, debellata l'autorità politica benedettina, si fondava ora sulle antiche baronie normanne e sull'assetto militare risalente a Federico II. Carlo I infatti conservò gli antichi giustizierati federiciani, accrescendo il potere dei rispettivi presidenti: ogni provincia aveva un giustiziere che, oltre ad essere a capo di un importante tribunale, con due corti, era anche il vertice della gestione del locale patrimonio finanziario e dell'amministrazione del tesoro, ricavato dalle tassazioni delle universitates (comuni). L'Abruzzo fu diviso in Aprutium citra (flumen Piscariae) e Aprutium ultra (flumen Piscariae); molte delle città sveve come Sulmona, Manfredonia o Melfi persero il loro ruolo centrale nel regno in favore di città minori come Sansevero, Chieti o Aquila mentre, nei territori che erano stati bizantini (Calabria, Puglia), si consolidò l'assetto politico iniziato dalla conquista normanna: l'amministrazione periferica che i greci affidavano ad un capillare sistema di città e diocesi, tra il patrimonium publicum dei funzionari bizantini e il p. ecclesiae dei vescovi, da Cassanum a Gerace, da Barolum a Brundisium, fu sostituita definitivamente dall'ordine feudale della nobiltà fondiaria. Nel Mezzogiorno le sedi dei giustizieri o di importanti arcidiocesi (Benevento e Acheruntia), oltre che la nuova capitale, restarono gli unici centri abitati dotati di peso poltico o attività finanziarie, economiche e culturali (Salerno, Cosenza, Reggio, Taranto, Bari, Sansevero, Chieti, Aquila e Capua). Carlo perse però, per dei provvedimenti pontifici, le ultime regalie del napoletano, quali il diritto del sovrano di nominare degli amministratori regi nelle diocesi con sedi vacanti: tali privilegi fino ad allora nel Mezzogiorno erano sopravvissuti alla riforma gregoriana, per cui solo il pontefice doveva godere della facoltà di nominare e deporre vescovi (libertas Ecclesiae)[16].

Statua di Carlo I a Palazzo Reale
Statua di Carlo I a Palazzo Reale

[modifica] La nascita del Regno di Trinacria in Sicilia

Per approfondire, vedi la voce Trattato d'Anagni.

Il 7 gennaio 1285 morì Carlo I d'Angiò e gli successe Carlo II. In Sicilia invece, alla morte di Pietro III, re d'Aragona e Sicilia, il dominio sull'isola fu conteso dai suoi due figli Alfonso III e Giacomo I di Sicilia. Quest'ultimo firmò il Trattato di Anagni del 12 giugno 1295, cedendo i diritti feudali sulla Sicilia a papa Bonifacio VIII: il pontefice in cambio concesse a Giacomo I la Corsica e la Sardegna, conferendo quindi la sovranità della Sicilia a Carlo II di Napoli, erede del titolo di rex Siciliae da parte angioina. Il trattato d'Anagni però non portò a una pace duratura; quando Giacomo I lasciò la Sicilia per governare l'Aragona, il trono palermitano fu affidato al fratello Federico III che guidò l'ennesima ribellione per l'indipendenza dell'isola e fu poi incoronato da Bonifacio VIII re di Trinacria (rex Trinacriae). Federico III però perse l'appoggio di alcuni baroni siciliani; per conservare il titolo regale, per la prima volta riconosciuto dalla Santa Sede, firmò con Carlo di Valois, chiamato da Martino IV a ripristinare l'ordine in Sicilia, la pace di Caltabellotta nel 1302: furono allora formalmente distinti dall'antico Regno di Sicilia normanno-svevo, il Regno di Trinacria, sotto il controllo degli Aragonesi, con capitale Palermo, e il regno di Sicilia con capitale Napoli, sotto il controllo degli angioini. Carlo II a questo punto rinunziò alla riconquista di Palermo e iniziò una serie di interventi legislativi e territoriali per adattare Napoli al ruolo di nuova capitale dello stato: ampliò le mura cittadine, ridusse la pressione fiscale e vi insediò la Gran Corte della Vicaria[16].

Il regno di Napoli (Regnum Siciliae citra Pharum)
Il regno di Napoli (Regnum Siciliae citra Pharum)

[modifica] Roberto d'Angiò

Nel 1309 il figlio di Carlo II, Roberto d'Angiò, venne incoronato da Clemente V re di Napoli, ancora però con il titolo di rex Siciliae, oltre che di rex Hierosolymae. Nel 1372, la nipote di Roberto, Giovanna I d'Angiò, e Federico IV di Sicilia, sottoscrissero un trattato di pace che sanciva il riconoscimento reciproco delle monarchie e dei rispettivi territori: Napoli (Regno di Sicilia) agli Angioini e la Sicilia (Regno di Trinacria) agli Aragonesi, estendendo il riconoscimento dei titoli regi anche alle rispettive linee di successione. Il re Roberto designò come suo erede prima Carlo di Calabria, e dopo la morte di quest'ultimo, Giovanna I di Napoli, figlia di Carlo.

In questi anni la città di Napoli rafforzò il suo peso poltico nella penisola, anche con lo sviluppo della propria vocazione umanistica. Roberto d'Angiò era molto stimato dagli intellettuali italiani suoi contemporanei come il Villani, il Petrarca e Boccaccio. Il sovrano raccolse a Napoli in una scuola, non preclusa alle influenze dell'averroismo, un importante gruppo di teologi scolastici. Egli affidò a Nicola Deoprepio di Reggio Calabria la traduzione delle opere di Aristotele e Galeno per la biblioteca di Napoli.[17] Dalla Calabria inoltre vennero nella nuova capitale Leonzio Pilato e il basiliano Barlaamo di Seminara, celebre teologo che affrontò in quegli anni in Italia le dispute dottrinali sorte attorno al filioque e al credo niceno[18]: il monaco fu anche a contatto con Petrarca, di cui fu maestro di greco, e Boccaccio che lo conobbe proprio a Napoli[19]. Barlaamo aderì alla chiesa cattolica dopo il 1341.

[modifica] Il Regno di Napoli nel periodo angioino

L'erede di Roberto, Giovanna I di Napoli, aveva sposato Andrea d'Ungheria, duca di Calabria, fratello del re d'Ungheria Luigi I, discendenti entrambi dagli angioini partenopei (Carlo II). A seguito di una misteriosa congiura Andrea fu ucciso. Per vendicarne la morte il 3 novembre 1347 il re d'Ungheria scese in Italia, con l'intenzione di spodestare Giovanna I di Napoli. Benché il sovrano ungherese più volte avesse preteso dalla Santa Sede la deposizione di Giovanna I, il governo pontificio, risiedente allora ad Avignone e politicamente legato alla dinastia francese, confermò sempre il titolo di Giovanna nonostante le spedizioni militari che il re d'Ungheria intraprese in Italia. La regina di Napoli, da parte sua, prima di una discendenza uterina, adottò come figlio ed erede al trono Carlo di Durazzo (nipote di Luigi I d'Ungheria), finché anche Napoli non fu direttamente coinvolta negli scontri politici e dinastici che seguirono lo Scisma d'Occidente: a corte e in città si contrapposero direttamente un partito filofrancese e un partito locale, il primo schierato a favore dell'antipapa Clemente VII e capeggiato dalla regina Giovanna I, il secondo a favore del papa napoletano Urbano VI che trovò il sostegno di Carlo di Durazzo.

L'Europa nel 1360
L'Europa nel 1360

Giovanna privò allora Carlo di Durazzo dei diritti di successione in favore di Luigi I d'Angiò, fratello del re di Francia, incoronato re di Napoli (rex Siciliae) da Clemente VII nel 1381. Egli, alla morte di Giovanna I, scese però inutilmente in Italia contro Carlo di Durazzo, e qui morì nel 1384. Carlo restò unico sovrano, e lasciò Napoli ai figli Ladislao e Giovanna per recarsi quindi in Ungheria, a rivendicare il trono: nel regno transalpino venne assassinato in una congiura[16].

[modifica] Re Ladislao Angiò-Durazzo

Per approfondire, vedi la voce Ladislao I di Napoli.

Prima che i due eredi Ladislao e Giovanna raggiungessero la maturità, la città campana cadde in mano al figlio di Luigi I d'Angiò, Luigi II, incoronato re da Clemente VII il 1° novembre 1389. La nobiltà locale osteggiò il nuovo sovrano e nel 1399 Ladislao I poté rivendicare militarmente i suoi diritti al trono sconfiggendo il re francese. Il nuovo re seppe restaurare l'egemonia napoletana nell'Italia meridionale intervenendo direttamente nei conflitti di tutta la penisola: nel 1408, chiamato da papa Innocenzo VII per sedare le rivolte ghibelline nella capitale pontificia, occupava buona parte del Lazio e dell'Umbria ottenendo l'amministrazione della provincia di Campagna e Marittima e occupando poi Roma e Perugia sotto il pontificato di Gregorio XII. Nel 1414, dopo aver sconfitto definitivamente Luigi II d'Angiò, ultimo sovrano a capo di una lega organizzata dall'antipapa Alessandro V e volta ad arginare l'espansionismo partenopeo, il re di Napoli giungeva alle porte di Firenze. Con la sua morte tuttavia non vi furono successori a continuare le sue imprese, e i confini del regno tornarono entro il perimetro storico; la sorella di Ladislao però, Giovanna II di Napoli, alla fine dello scisma d'Occidente, ottenne il riconoscimento definitivo dalla Santa Sede del titolo regale per la sua famiglia .[20][16][1]

[modifica] Giovanna II di Napoli

Per approfondire, vedi la voce Giovanna II di Napoli.

Succeduta a Ladislao nel 1414 la sorella Giovanna, il 10 agosto 1415 ella sposò Giacomo II di Borbone: dopo che il marito tentò di acquisire personalmente il titolo regale, una rivolta nel 1418 lo costrinse a tornare in Francia dove si ritirò in un monastero francescano. Giovanna nel 1419 era la sola regina, ma le mire espansionistiche nel napoletano degli angioini di Francia non cessarono. Papa Martino V chiamò in Italia Luigi III d'Angiò contro Giovanna che non voleva riconoscere i diritti fiscali dello Stato Pontificio sul regno di Napoli. La minaccia francese perciò avvicinò il regno di Napoli alla corte aragonese, tanto che la regina adottò Alfonso V d'Aragona come suo figlio ed erede finché Napoli fu sotto l'assedio dalle truppe di Luigi III. Allorché gli aragonesi liberarono la città nel 1423, occupando il regno e scongiurando la minaccia francese, i rapporti con la corte locale non furono facili, tanto che Giovanna, cacciato Alfonso V, alla sua morte lasciò in eredità al fratello di Luigi III Renato d'Angiò il regno.[15][20][1]

Domini aragonesi nel 1443
Domini aragonesi nel 1443

[modifica] Il Regno di Napoli nel periodo aragonese

Con la morte senza eredi di Giovanna II d'Angiò-Durazzo il territorio del regno di Napoli fu conteso da Renato d'Angiò, che ne rivendicava la sovranità in quanto fratello del figlio adottivo della regina di Napoli, Luigi d'Angiò, e Alfonso V re di Trinacria, Sardegna e Aragona, anch'egli figlio adottivo di Giovanna II. La guerra che ne scaturì coinvolse gli interessi degli altri stati della penisola, fra cui la signoria di Milano di Filippo Maria Visconti, che intervenne dapprima in favore degli angioini (battaglia di Ponza), poi definitivamente con gli Aragonesi. Nel 1441 Alfonso V conquistò Napoli, riunificando il territorio dell'antico stato svevo-normanno sotto la sua reggenza, con il titolo di rex Utriusque Siciliae, insediando la capitale nella città campana e imponendosi, non solo militarmente, nello scenario politico italiano.

Castel Nuovo con l'arco trionfale di Alfonso I
Castel Nuovo con l'arco trionfale di Alfonso I

Nel 1447 poi, Filippo Maria designò Alfonso erede al ducato di Milano, arricchendo formalmente il patrimonio della corona aragonese. La nobiltà della città lombarda però, temendo l'annessione al regno di Napoli, proclamò Milano libero comune, instaurando la repubblica ambrosiana; le conseguenti rivendicazioni aragonesi e napoletane furono contrastate dalla Francia, che nel 1450 diede il sostegno politico a Francesco Sforza per impadronirsi militarmente di Milano e del ducato. L'espansionismo ottomano, che minacciava i confini del regno di Napoli, impedì agli aragonesi l'intervento contro Milano, e papa Niccolò V dapprima riconobbe lo Sforza come duca di Milano, poi riuscì a coinvolgere Alfonso d'Aragona nella lega italica, un'alleanza volta consolidare il nuovo assetto territoriale della penisola.[15][20][1]

[modifica] La politica interna di Alfonso I: umanesimo e centralismo

La corte di Napoli in quest'epoca fu una delle più raffinate e aperte alle novità culturali del rinascimento: erano ospiti di Alfonso Lorenzo Valla che proprio durante il soggiorno partenopeo denunciò il falso storico della donazione di Costantino, l'umanista Antonio Beccadelli e il greco Emanuele Crisolora. Ad Alfonso si deve anche la ricostruzione di Castel Nuovo. L'assetto amministrativo del regno rimase grossomodo quello dell'età angioina: furono ridimensionati però i poteri degli antichi giustizierati (Abruzzo Ultra e Citra, Contado di Molise, Terra di Lavoro, Capitanata, Principato Ultra e Citra, Basilicata, Terra di Bari, Terra d'Otranto, Calabria Ultra e Citra), che conservarono funzioni prevalentemente politiche e militari. L'amministrazione della giustizia fu invece devoluta nel 1443 alle corti baronali, nel tentativo di ricondurre le antiche gerarchie feudali nell'apparato burocratico dello stato centrale[15]. È considerato un altro importante passo verso il raggiungimento dell'unità territoriale nel regno di Napoli la politica del re, volta ad incentivare pastorizia e transumanza: nel 1447 Alfonso I varò una serie di leggi, fra cui l'imposizione ai pastori abruzzesi e molisani di svernare entro i confini napoletani, nel Tavoliere, dove molti dei terreni coltivati furono trasformati anche forzatamente in pascoli. Istituì inoltre, con sede prima a Lucera e poi a Foggia, la Dogana della mena delle pecore in Puglia e l'importantissima rete dei tratturi che dall'Abruzzo conducevano alla Capitanata.

Questi provvedimenti risollevarono l'economia delle città interne fra L'Aquila e la Puglia: le risorse economiche legate alla pastorizia transumante dell'appennino abruzzese un tempo si disperdevano nello Stato Pontificio, dove fino ad allora avevano svernato le mandrie[21]; con i provvedimenti aragonesi le attività legate alla transumanza coinvolsero, prevalentemente entro i confini nazionali, le attività artigianali locali, i mercati e i fori boari tra Lanciano, Castel di Sangro, Campobasso, Isernia, Boiano, Agnone, Larino fino al Tavoliere, e l'apparato burocratico sorto attorno alla dogana, predisposto alla manutenzione dei tratturi e alla tutela giuridica dei pastori, divenne, sul modello del concejo de la Mesta iberico[22], la prima base popolare dello stato centrale moderno nel regno di Napoli[23]. In misura minore lo stesso fenomeno si verificò fra Basilicata e Terra d'Otranto e le città (Venosa, Ferrandina, Matera) legate alla transumanza verso il Metaponto. Alla sua morte (1458) Alfonso divise nuovamente le corone che aveva unito assegnando al figlio Ferrante il territorio italiano continentale (regno di Napoli o regno di Sicilia al di qua del faro) mentre Aragona e isole a Giovanni II.

[modifica] Don Ferrante

Re Alfonso lasciò quindi un regno perfettamente inserito nelle politiche italiane. La successione del figlio Ferdinando I di Napoli, detto Don Ferrante, fu sostenuta dallo stesso Francesco Sforza; i due nuovi sovrani insieme intervennero nella repubblica di Firenze e sconfissero le truppe del capitano di ventura Bartolomeo Colleoni che insidiavano i poteri locali; nel 1478 le truppe napoletane intervennero nuovamente in Toscana per arginare le conseguenze della congiura dei Pazzi, e poi in Val Padana nel 1484, alleate con Firenze e Milano, per imporre a Venezia la pace di Bagnolo.

Il potere di Ferrante però, durante la sua reggenza, rischiò seriamente di essere minacciato dalla nobiltà campana; nel 1485 tra la Basilicata e Salerno Francesco Coppola, conte di Sarno, e Antonello Sanseverino principe di Salerno con l'appoggio dello Stato Pontificio e della repubblica di Venezia furono a capo di una rivolta, con ambizioni guelfe e rivendicazioni feudali angioine, contro il governo aragonese che, accentrando il potere a Napoli, minacciava la nobiltà rurale. La rivolta è conosciuta come congiura dei baroni e fu debellata nel 1487 grazie all'intervento di Milano e Firenze. Per un breve periodo la città dell'Aquila passò allo Stato Pontificio.[24] Un'altra congiura filoangioina parallela, tra Abruzzo e Terra di Lavoro, fu guidata da Giovanni della Rovere nel ducato di Sora, terminata con l'intervento mediatore di papa Alessandro VI.

Nonostante gli sconvolgimenti politici, Ferrante continuò nella capitale Napoli il mecenatismo del padre Alfonso: nel 1458 sostenne la fondazione dell'Accademia Pontaniana, ampliò le mura cittadine e costruì Porta Capuana. Nel 1465 la città ospitò l'umanista greco Costantino Lascaris e il giurista Antonio D'Alessandro, nonché nel resto del regno Francesco Filelfo, Giovanni Bessarione[20][25].

Dante e Beatrice (Holiday)
Dante e Beatrice (Holiday)
Pastorale del Lorrain
Pastorale del Lorrain

Alla corte dei figli di Ferdinando gli interessi umanistici presero però un carattere molto più politico, decretando fra le altre cose l'adozione definitiva del toscano come lingua letteraria anche a Napoli: è della seconda metà del XV sec. l'antologia di rime nota come Raccolta aragonese, che Lorenzo de' Medici inviò al re di Napoli Federico I, in cui si proponeva alla corte partenopea il fiorentino come modello di volgare illustre, di pari dignità letteraria con il latino. Gli intellettuali napoletani accolsero il programma culturale mediceo, reinterpretando in modo originale gli stereotipi della tradizione toscana. Sull'esempio del Boccaccio Masuccio Salernitano già aveva steso, attorno alla metà del '400, una raccolta di novelle in cui le trovate satiriche furono portate ad esiti estremi, con invettive contro le donne e le gerarchie ecclesiastiche, tanto che la sua opera fu inserita nell'Indice dei libri proibiti dall'Inquisizione. Un vero e proprio canone letterario fu inaugurato invece dal Sannazzaro che, nel suo prosimetrum Arcadia, per la prima volta espose in volgare ed in prosa i topoi pastorali e mitici della poesia bucolica virgiliana e teocritea, anticipando di secoli la tendenza del romanzo moderno e contemporaneo ad adottare come riferimento poetico un sostrato mitologico-esoterico. L'ispirazione bucolica del Sannazaro si connotò anche come contrappeso agli stereotipi cortigiani dei petrarchisti, dei provenzali e siciliani, o dello stilnovismo, e nel ritorno ad una poetica pastorale si legge una chiara contrapposizione umanistica e filologica della mitologia classica alle icone femminili dei poeti toscani, fra cui Dante e Petrarca, che velatamente esprimevano le tendenze politiche e sociali dei comuni e delle signorie d'Italia. Sannazzaro poi fu anche modello e ispirazione per i poeti dell'Accademia dell'Arcadia, che proprio dal suo romanzo presero il nome della loro scuola letteraria.[26]

[modifica] Le province orientali: Terra di Bari, Terra d'Otranto e Calabrie

Per approfondire, vedi le voci Giorgio Castriota Scanderbeg, Arbëreshë e Giudecca di Reggio Calabria.

Già dalla prima grande epidemia di peste (XIV secolo) che coinvolse l'Europa, le città e l'economia del Mezzogiorno estremo furono pesantemente colpite, tanto da rendere quel territorio che dalla prima colonizzazione greca era rimasto per secoli uno dei più produttivi del Mediterraneo, una vasta campagna spopolata. I territori costieri pianeggianti (pianura del Metaponto, Sibari, Sant'Eufemia), ormai abbandonati, erano impaludati e infestati dalla malaria, ad eccezione della piana di Seminara, dove la produzione agricola accanto a quella della seta sosteneva una debole attività economica legata alla città di Reggio.

Nel 1444 Isabella di Chiaromonte sposò Don Ferrante e portò in dote alla corona napoletana il principato di Taranto, che alla morte della regina nel 1465 fu soppresso e unito definitivamente al regno. Nel 1458 arrivò nel Mezzogiorno il combattente albanese Giorgio Castriota Scanderbeg per sostenere il re Don Ferrante contro la rivolta dei baroni. Già precedentemente lo Scanderbeg venne a sostegno della corona aragonese a Napoli sotto il regno di Alfonso I.

la piana di Seminara
la piana di Seminara

Il guerriero schipetaro ottenne in Italia una serie di titoli nobiliari, e i possedimenti feudali annessi, che furono rifugio per le prime comunità di arbereschi: gli albanesi, esuli a seguito della sconfitta da parte di Maometto II del partito cristiano nei Balcani, si insediarono in zone del Molise e della Calabria, fino ad allora spopolate.

La sinagoga di Trani.
La sinagoga di Trani.

Una ripresa delle attività economiche in Puglia tornò con la concessione del ducato di Bari a Sforza Maria Sforza, figlio di Francesco Maria Sforza duca di Milano, offerta da Don Ferrante per confermare l'alleanza fra Napoli e la città lombarda.[27] Succeduto Ludovico il Moro a Sforza Maria, gli sforzeschi trascurarono i territori pugliesi in favore della Lombardia, finché il Moro cedette ad Isabella d'Aragona, erede legittima alla reggenza di Milano, Bari, in cambio del ducato lombardo. La nuova duchessa in Puglia iniziò una politica di miglioramento urbanistico della città, a cui seguì una leggera ripresa economica durata fino al governo della figlia Bona Sforza e alla successione al titolo regale di Napoli di Carlo V.

Nel 1542 il viceré Pedro di Toledo emise il decreto di espulsione per gli ebrei dal regno di Napoli. Le ultime comunità che già dalla grande diaspora del II sec. si erano insediate fra Brindisi e Roma sparirono dalle realtà urbane in cui avevano trovato accoglienza. Nei porti della costa pugliese e nelle principali città della Calabria, nonché con alcune deboli presenze in Terra di Lavoro, dopo la crisi dell'economia cenobitica del XVI sec., gli ebrei erano l'unica fonte efficiente delle attività finanziarie e commerciali: oltre al privilegio esclusivo, concesso dalle amministrazioni locali, di esercitare il prestito di denaro, le loro comunità gestivano importanti settori del commercio della seta, relitto di quel sistema economico del mediterraneo che nel Mezzogiorno sopravvisse alle invasioni barbariche e al feudalesimo[28][29].

[modifica] Luigi XII di Francia rex Neapolis e il primo vicereame spagnolo

Per approfondire, vedi la voce Carlo VIII.
La battaglia di Fornovo nelle gallerie vaticane
La battaglia di Fornovo nelle gallerie vaticane

A Don Ferrante successe il primogenito Alfonso II nel 1494. Nello stesso anno Carlo VIII di Francia scese in Italia a sconvolgere il delicato equilibrio politico che le città della penisola avevano raggiunto negli anni precedenti. L'occasione riguardò direttamente il regno di Napoli; Carlo VIII vantava una lontana parentela con gli angioini re di Napoli (la nonna paterna era figlia del Luigi II che tentò di sottrarre il trono partenopeo a Carlo di Durazzo e a Ladislao I), sufficiente per poter rivendicare il titolo regale. Con la Francia si schierò anche il ducato di Milano: Ludovico Sforza aveva spodestato gli eredi legittimi del ducato Gian Galeazzo Sforza e sua moglie Isabella d'Aragona, figlia di Alfonso II, sposi nel matrimonio con cui Milano aveva suggellato l'alleanza con la corona aragonese. Il nuovo duca di Milano non si oppose a Carlo VIII, il quale si diresse contro il regno aragonese; evitando la resistenza di Firenze, il re francese occupò in tredici giorni la Campania, e poco dopo entrò in Napoli: tutte le province si sottomisero al nuovo sovrano d'oltralpe, salvo che le città di Gaeta, Tropea, Amantea e Reggio.

Gli aragonesi rifugiarono in Sicilia e cercarono il sostegno di Ferdinando il Cattolico. L'espansionismo francese spinse però anche il papa Alessandro VI e Massimiliano d'Asburgo a costituire una Lega contro Carlo VIII, per combatterlo e infine sconfiggerlo nella battaglia di Fornovo: alla fine del conflitto la Spagna occupò la Calabria, mentre la repubblica di Venezia acquisiva i porti principali della costa pugliese (Trani, Mola, Monopoli, Brindisi, Otranto, Polignano e Gallipoli). Alfonso II morì durante le operazioni belliche, nel 1495, e Ferrandino ereditò il trono, ma gli sopravvisse un solo anno senza lasciare eredi; nel 1496 divenne re il figlio di Don Ferrante e fratello di Alfonso II, Federico I, il quale dovette nuovamente affrontare le ambizioni francesi su Napoli. Luigi XII duca d'Orléans aveva ereditato il regno di Francia dopo la morte di Carlo VIII; avendo il re d'Aragona Ferdinando il Cattolico ereditato il trono di Castiglia stipulò un accordo con i sovrani francesi pretendenti il trono di Napoli, per spartirsi l'Italia e spodestare gli ultimi aragonesi nella penisola.

La battaglia del Garigliano
La battaglia del Garigliano

Luigi XII occupò il ducato di Milano, dove catturò Ludovico Sforza, e, d'accordo con Ferdinando il Cattolico, si mosse contro Federico I di Napoli; un accordo fra francesi e spagnoli aveva previsto la spartizione del Regno di Napoli fra le due corone: Abruzzo e Terra di Lavoro, nonché il titolo di rex Hierosolymae e, per la prima volta, di rex Neapolis, al sovrano francese, mentre Puglia e Calabria, con i titoli ducali annessi, al sovrano spagnolo. Con tale trattato l'11 novembre del 1500 il titolo di rex Siciliae fu dichiarato decaduto dal papa Alessandro VI e unito alla corona d'Aragona[30]. Federico I di Napoli rifugiò ad Ischia e, infine, cedette la propria sovranità al re di Francia, in cambio di alcuni feudi nell'Angiò. Nonostante l'occupazione del regno fosse riuscita con successo ad entrambi, i due re non si trovarono concordi nell'attuazione del trattato di spartizione del regno: restarono indefinite le sorti della Capitanata e del Contado di Molise, sui cui territori sia francesi che spagnoli rivendicavano la sovranità. Ereditato il regno di Castiglia da Filippo il Bello, il nuovo re spagnolo cercò un secondo accordo, con Luigi XII, per cui i titoli di re di Napoli e duca di Puglia e Calabria sarebbero andati alla figlia di Luigi, Claudia, e a Carlo V, suo sposo promesso (1502).

Gaeta medievale vista dal mare
Gaeta medievale vista dal mare

Le truppe spagnole che occupavano Calabria e Puglia, capitanate da Gonzalo Fernández de Córdoba e fedeli a Ferdinando il Cattolico, non rispettarono però i nuovi accordi e cacciarono dal Mezzogiorno i francesi, a cui restò la sola Gaeta fino alla loro definitiva sconfitta nella battaglia del Garigliano. I trattati di pace che seguirono non furono mai definitivi, senonché si stabilì almeno che il titolo di re di Napoli spettasse a Carlo V e alla futura moglie Claudia. Ferdinando il Cattolico però continuò a possedere il regno considerandosi erede legittimo dello zio Alfonso I di Napoli e della antica corona aragonese di Sicilia (regnum Utriusque Siciliae).

[modifica] Ferdinando il Cattolico e l'istituzione del vicereame

Per approfondire, vedi la voce Elenco dei viceré spagnoli di Napoli.

La casa reale aragonese divenuta indigena in Italia si era però estinta con Federico I, e Napoli cadde sotto il controllo della corona di Spagna che vi istituì un vicereame. Il meridione d'Italia restò possedimento diretto dei sovrani iberici fino alla fine della Guerra di successione spagnola (1713). La nuova struttura amministrativa, benché fortemente centralizzata, si sosteneva sull'antico sistema feudale: i baroni ebbero modo così di rafforzare la propria autorità e i privilegi fondiari, mentre il clero vide accrescere il proprio potere politico e morale. Gli organi amministrativi più importanti avevano sede a Napoli ed erano il Consiglio Collaterale, simile al Consiglio d'Aragona, l'organo supremo nell'esercizio delle funzioni giuridiche (composto dal viceré e da tre giureconsulti), la Camera della Sommaria, il Tribunale della Vicaria e il Tribunale del Sacro Regio Consiglio[15].

Statua del de Cordoba
Statua del de Cordoba

Fu Ferdinando il Cattolico che, detentore dei titoli di Re di Napoli e di Sicilia, nominò colui che era stato fino ad allora Gran Capitano dell'esercito napoletano, Gonzalo Fernández de Córdoba, viceré, affidandogli in sua vece gli stessi poteri di un re [20]. Allo stesso tempo decadeva il titolo di Gran Capitano, e il comando delle truppe reali di Napoli fu affidato al conte di Tagliacozzo Fabrizio I Colonna con la nomina di Gran Conestabile e l'incarico di condurre una spedizione in Puglia, contro Venezia che occupava alcuni porti adriatici. L'operazione militare terminò con successo e i porti pugliesi tornavano nel 1509 al regno di Napoli. Re Ferdinando inoltre ristabilì il finanziamento all'università di Napoli disponendo un contributo mensile dal suo tesoro personale di 2000 ducati l'anno[20], privilegio confermato poi dal suo successore Carlo V.

Succedettero al de Córdoba prima Juan de Aragón, che promulgò una serie di leggi contro la corruzione, combatté il clientelismo, vietò il gioco d'azzardo e l'usura, e poi Raimondo de Cardona, che nel 1510 introdusse l'inquisizione a Napoli e i primi provvedimenti restrittivi nei confronti degli ebrei.

[modifica] Carlo V a Napoli

Per approfondire, vedi la voce Carlo V.

Carlo V, figlio di Filippo il Bello e Giovanna la pazza, per un complicato sistema d'eredità e parentele, si trovò a governare presto un vastissimo impero: dal padre ottenne la Borgogna e le Fiandre, dalla madre nel 1516 la Spagna, Cuba, il regno di Napoli (per la prima volta col titolo di rex Neapolis), la Sicilia e la Sardegna, nonché due anni dopo i domini austriaci dal nonno Massimiliano d'Asburgo.[1]

Domini degli Asburgo nel 1547
Domini degli Asburgo nel 1547

[modifica] Le minacce francesi e la spartizione dell'impero

Il porto di Ponza
Il porto di Ponza

Il regno di Francia, ancora una volta, venne a minacciare Napoli e il dominio di Carlo V sul Mezzogiorno: i francesi dopo aver conquistato il ducato di Milano al figlio di Ludovico il Moro, Massimiliano, furono sconfitti e cacciati dalla Lombardia da Carlo V (1515). Il re di Francia Francesco I nel 1526 entrò allora in una lega, sugellata da Clemente VII, detta lega santa, con Venezia e Firenze, per cacciare gli spagnoli da Napoli.

San Gennaro, invocato come protettore della città negli anni della pestilenza
San Gennaro, invocato come protettore della città negli anni della pestilenza

Dopo una prima sconfitta della lega a Roma, i francesi risposero con l'intervento in Italia di Odet de Foix, che si spinse fino a Napoli assediando la città, mentre la Serenissima occupava Otranto e Manfredonia. Quando però la flotta genovese, alleata dei francesi, si mise al soldo di Carlo V, l'assedio di Napoli si tramutò nell'ennesima sconfitta dei nemici della Spagna, che portò poi al riconoscimento da parte di Clemente VII del titolo imperiale di re Carlo. Venezia perse definitivamente i suoi possedimenti in Puglia (1528). Le ostilità della Francia contro i domini spagnoli in Italia però non cessarono: Enrico II, figlio di Francesco I di Francia, sollecitato da Ferrante Sanseverino, principe di Salerno, si alleò con i turchi ottomani; nell'estate del 1552 la flotta turca al comando di Sinan Pascià sorprese la flotta imperiale, al comando di Andrea Doria e don Giovanni de Mendoza, al largo di Ponza, sconfiggendola.

La flotta francese però non riuscì a ricongiungersi con quella turca e l'obiettivo dell'invasione del napoletano fallì. Nel 1555, a seguito di una serie di sconfitte in Europa, Carlo abdicò e divise i suoi domini fra Filippo II, a cui lasciò la Spagna, le colonie d'America, i Paesi Bassi spagnoli, il regno di Napoli, la Sicilia e la Sardegna, e Ferdinando I d'Asburgo a cui andò l'Austria, la Boemia, l'Ungheria e il titolo di imperatore.[15][20][1]

[modifica] I vicereami del duca d'Alba, di Hurtado de Mendoza e la pestilenza

I vicereami che si successero sotto il regno di Filippo II furono per lo più contrassegnati da operazioni belliche che non apportarono benessere alla popolazione di Napoli. A peggiorare la situazione incorse la pestilenza che si diffuse in tutta Italia attorno al 1575, anno della nomina a viceré di Íñigo López de Hurtado de Mendoza. Napoli, in quanto città portuale, fu estremamente esposta alla diffusione del morbo e le sue attività economiche principali furono minate alla base. Negli stessi anni sbarcarono prima a Trebisacce, in Calabria, poi in Puglia, le navi del sultano ottomano Murad III, che saccheggiarono i porti principali dello Jonio e dell'Adriatico. Fu necessario incrementare la militarizzazione delle coste, perciò il de Mendoza fece costruire un nuovo arsenale nel porto di Santa Lucia su progetto di Vincenzo Casali. Inoltre vietò ai funzionari pubblici di intrecciare legami sacramentali e parentele religiose.[15][20]

[modifica] Dalla pace di Cateau-Cambresis alla fine del dominio spagnolo

Per approfondire, vedi le voci Controriforma e Compagnia del Gesù.
La facciata della basilica di San Paolo Maggiore, la principale chiesa dei teatini a Napoli
La facciata della basilica di San Paolo Maggiore, la principale chiesa dei teatini a Napoli

Con la pace di Cateau-Cambresis la storiografia tradizionale designa la fine delle ambizioni francesi nella penisola italiana. Il clima di riforme religiose che coinvolgeva all'epoca sia l'opposizione luterana al papato di Roma, sia la stessa chiesa cattolica, nei territori del vicereame di Napoli si contestualizzò nella crescita dell'autorità civile del clero e delle gerarchie ecclesiastiche. Nel 1524, a Chieti, Gian Pietro Carafa aveva fondato la congregazione dei teatini che si diffuse presto in tutto il regno, affiancata poi dai collegi dei gesuiti, che furono per secoli l'unico riferimento culturale per le province dell'Italia meridionale. Il concilio di Trento imponendo nuove regole alle diocesi, quali l'obbligo della residenza nella propria sede a vescovi, parroci e abati, l'istituzione di seminari diocesani, dei tribunali d'inquisizione e, più tardi, dei monti frumentari[31], trasformò le diocesi del vicereame di Napoli in veri e propri organi di potere, fortemente radicati nel territorio e nelle province, poiché erano l'unico sostegno sociale, giuridico e culturale al controllo dell'ordine civile, in uno stato che, persa l'autonomia politica, rischiava spesso di cadere nell'anarchia feudale del brigantaggio e delle faide della nobiltà fondiaria[32]. Fra gli altri ordini monastici che ebbero molto successo a Napoli in questi anni si ricordano i Carmelitani Scalzi, le suore Teresiane, i Fratelli della Carità, i Camaldolesi e la Congregazione dell'Oratorio di San Filippo Neri.

[modifica] De Castro, Téllez-Girón I, Juan de Zúñiga y Avellaneda e la rivolta in Calabria

Il 16 luglio 1599 giunse a Napoli il nuovo viceré Fernando Ruiz de Castro. Il suo operato si limitò principalmente ad operazioni militari contro le incusioni turche in Calabria di Amurat Rais e Sinan Pascià.

Nello stesso anno della sua nomina a viceré, il domenicano Tommaso Campanella, che ne La città del Sole delineava uno stato comunitario, basato su una presunta religione naturale, organizzò una congiura contro Fernando Ruiz de Castro nella speranza di instaurare una repubblica con capitale a Stilo (Mons Pinguis)[33]. Il filosofo e astrologo calabrese già era stato prigioniero del Sant'Uffizio e confinato in Calabria: qui col sostegno dottrinale e filosofico della tradizione escatologica gioachimita[34] mosse i primi passi per persuadere monaci e religiosi ad aderire alle sue ambizioni rivoluzionarie, fomentando una congiura che si estese fino a coinvolgere non solo l'intero ordine domenicano delle Calabrie, ma anche i locali ordini minori come agostiniani e francescani, e le principali diocesi da Cassano a Reggio Calabria. Fu la prima rivolta in Europa a schierarsi contro l'ordine dei gesuiti e la loro crescente autorità spirituale e secolare. La congiura fu sedata e Campanella, che si spacciò per pazzo, scampò al rogo e all'ergastolo[35]. Qualche anno prima (1576) a Napoli veniva processato per eresia anche un altro domenicano, il filosofo Giordano Bruno, le cui speculazioni e tesi furono ammirate successivamente da diversi studiosi dell'Europa luterana.

Palazzo Reale: facciata laterale verso il teatro San Carlo
Palazzo Reale: facciata laterale verso il teatro San Carlo

Il de Castro inaugurò inoltre una politica incentrata sul finanziamento statale per la costruzione di diverse opere pubbliche: sotto la direzione dell'architetto Domenico Fontana a Napoli dispose la costruzione del nuovo palazzo reale nell'attuale piazza del Plebiscito.

Per approfondire, vedi la voce Palazzo Reale di Napoli.

Caratterizzato prevalentemente da opere urbanistiche fu il mandato di Pedro Téllez-Girón y de la Cueva: costui sistemò la viabilità della capitale e delle province pugliesi. Gli succedette Juan de Zúñiga y Avellaneda, il cui governo fu orientato al recupero dell'ordine nelle province: arginò il brigantaggio negli Abruzzi con il supporto dello Stato Pontificio e in Capitanata; ammodernò la viabilità fra Napoli e la Terra di Bari. Nel 1593 furono fermati dal suo esercito gli Ottomani che tentarono di invadere la Sicilia.

[modifica] Filippo III di Spagna e i vicereami del de Guzmán, Pimentel e di Pedro Fernandez de Castro

Quando a Filippo II succedette al trono di Spagna il figlio, Filippo III, l'amministrazione del vicereame di Napoli era affidata a Enrique de Guzmán, conte di Olivares. Il regno di Spagna era al suo massimo splendore, unendo la corona d'Aragona, i domini italiani, a quella di Castiglia e del Portogallo. A Napoli il governo spagnolo fu debolmente attivo nella sistemazione urbanistica della capitale: risalgono ad de Guzman la costruzione della fontana del Nettuno, un monumento a Carlo I d'Angiò e la sistemazione della viabilità.

L'altro governo che operò attivamente con una discreta attività politica ed economica nel regno di Napoli fu quello del viceré Juan Alonso Pimentel de Herrera. Il nuovo sovrano dovette difendere ancora i territori del Mezzogiorno dalle incursioni navali turche e sedare le prime rivolte contro il fiscalismo, che nella capitale cominciavano a minacciare il palazzo. Per prevenire le aggressioni ottomane condusse una guerra contro Durazzo, distruggendo il la città e il porto, in cui trovavano asilo i pirati turchi e albanesi che spesso aggredivano le coste del regno. A Napoli tentò di combattere la malavita organizzata, in quegli anni sempre più in crescita, anche contro le disposizioni pontifice, opponendosi al diritto d'asilo che garantivano gli edifici di culto cattolici: per ciò alcuni suoi funzionari furono scomunicati.

La politica fortemente nazionale del Pimentel però interessò anche diverse opere urbanistiche e architettoniche: costruì viali e ampliò strade, da Poggioreale a via Chiaja; a Porto Longone, nello Stato dei Presidi, dispose la costruzione dell'imponente fortezza[36].

Al Pimentel seguì nel 1610 Pedro Fernández de Castro, i cui interventi furono prevalentemente concentrati nella città di Napoli. Ordinò la ricostruzione dell'università, le cui lezioni dall'inizio del dominio spagnolo erano state ricoverate nei vari chiostri cittadini, finanziando un nuovo edificio e rimodernando il sistema dell'insegnamento e delle cattedre. Fiorì sotto la sua reggenza l'Accademia degli Oziosi, a cui aderì fra gli altri il Marino e il Della Porta. Costruì il collegio dei gesuiti intitolato a San Francesco Saverio e un complesso di fabbriche presso porta Nolana.[20] In Terra di Lavoro iniziò le prime opere di bonifica della pianura del Volturno, affidando a Domenico Fontana il progetto dei Regi Lagni, l'opera di canalizzazione e messa a regime delle acque del fiume Clanio tra Castel Volturno e Villa Literno, laddove fino ad allora paludi e laghi costieri (come il Lago Patria) avevano reso buona parte della Campania Felix dei romani un territorio malsano e spopolato.

[modifica] La morte di Filippo III e i governi sotto Filippo IV e Carlo II

Fu caratterizzato prevalentemente da operazioni militari il governo di Pedro Téllez-Girón y Velasco Guzmán y Tovar, che, nella guerra fra Spagna e Savoia per il Monferrato, condusse una spedizione contro la repubblica di Venezia, in quegli anni alleata della monarchia sabauda. La flotta napoletana assediò e saccheggiò Traù, Pola e l'Istria.

Il castello di Baia
Il castello di Baia

Gli succedette il cardinale Antonio Zapata, tra carestie e rivolte, e, dopo la morte di Filippo III, Antonio Álvarez de Toledo y Beaumont de Navarra e Fernando Afán de Ribera y Enríquezche che dovettero affrontare i problemi di un brigantaggio nelle province sempre più diffuso e radicato. Li seguì Manuel de Acevedo y Zúñiga, che finanziò la fortificazione dei porti di Barletta, Baia e Gaeta, con un governo fortemente impegnato nel sostegno economico dell'esercito e della flotta. Il forte impoverimento del tesoro statale comportò, sotto l'amministrazione di Ramiro Núñez de Guzmán, una devoluzione dell'amministrazione dei domini regi alle corti dei baroni, e la conseguente crescita dei poteri feudali. Sotto il regno di Carlo II si ricordano i vicereami di Fernando Fajardo y Álvarez de Toledo e Francisco de Benavides, con politiche impegnate a contenere problemi ormai endemici come il brigantaggio, clientelismo, inflazione e scarsità di risorse alimentari.[20]

[modifica] Napoli fra irrazionalismo e rivolte politiche

Per approfondire, vedi le voci Barocco napoletano e pittura napoletana.

La tradizione umanistica e cristiana fu l'unico riferimento per le prime ambizioni rivoluzionarie a carattere nazionale che cominciarono ad emergere, per la prima volta in Europa, tra Roma e Napoli, nell'irrazionalismo del barocco, nell'urbanistica popolare (quartieri spagnoli), nel misticismo religioso e nella speculazione politica e filosofica[37]. Se nella campagna un forte ritorno all'assetto feudale ricondusse ai seminari e alle diocesi il controllo dell'arte e della cultura, Napoli fu la prima città in Italia in cui nacquero, seppur disorganizzate e ignorate dai governi, le prime forme letterarie di intolleranza al clima culturale che seguì la controriforma. Accetto, Marino e Basile per primi nella letteratura italiana trasgredirono i paradigmi poetici che prendevano come modello le opere tassiane, e con una forte spinta eversiva nei riguardi dei canoni artistici dei loro contemporanei d'Italia, rifiutarono lo studio dei classici come esempio d'armonia e stile e le teorie estetiche e linguistiche dei puristi, che nascevano con la riproposizione dottrinale del latino scolastico e liturgico (Chiabrera, Accademia della Crusca, Accademia del Cimento)[38]. Sono gli anni in cui nella commedia dell'arte napoletana si impose Pulcinella, la più celebre maschera dell'inventiva popolare meridionale. Il cosentino Tommaso Cornelio, formatosi secondo la tradizione telesiana e cosentiniana (allievo di Marco Aurelio Severino), professore di matematica e medicina, portò a Napoli nella seconda metà del XVII sec. la filosofia e la matematica di Cartesio e del Galilei, nonché la fisica e l'etica atomistica di Gassendi, costituendo in contrasto con la locale tradizione tomistica e galenica la base delle future scuole del pensiero moderno partenopeo.[39]

L'altalena dei Pulcinella del Tiepolo (particolare).
L'altalena dei Pulcinella del Tiepolo (particolare).

Simile per ambizioni al Campanella, ma spinto da ragioni molto più prosaiche, sotto il vicereame del duca d'Arcos Rodríguez Ponce de León, Masaniello nel 1647 fu a capo di una rivolta contro la pesante pressione fiscale spagnola. Egli riuscì ad ottenere dal viceré la costituzione di un governo popolare e, per sé, il titolo di Capitano generale del fedelissimo popolo, finché poi non fu ucciso dagli stessi rivoltosi. Prese il suo posto Gennaro Annese che con il sostegno di Enrico II di Guisa proclamò la Real Repubblica Napoletana. Il nuovo governo fu di breve durata, benché le rivolte si fossero estese alla campagna, nel 1649 le truppe spagnole guidate da Don Giovanni d'Austria ripristinarono il precedente regime. La situazione di forte repressione e di disorganizzazione della cultura napoletana, le precedenti esperienze umanistiche e filosofiche gettarono le basi per lo sviluppo degli studi giuridici ed economici che avverrà nel secolo successivo.

Per approfondire, vedi la voce Repubblica Napoletana (1647).

[modifica] Le province orientali: Terra di Bari, Terra d'Otranto e Calabrie

Per approfondire, vedi la voce Minoranza linguistica greca d'Italia.

Dal XVI sec. la stabilizzazione dei confini adriatici, dopo la battaglia di Lepanto (1571), e la fine delle minacce turche sulle coste italiane, portarono, salvo rare eccezioni[40] a un periodo di relativa tranquillità nell'Italia meridionale, durante il quale baroni e feudatari poterono sfruttare gli antichi diritti fondiari per consolidare privilegi economici e produttivi.

Fra il XVI e il XVII secolo sorse in Puglia e in Calabria quell'economia chiusa e provinciale che caratterizzerà le regioni fino all'Unità d'Italia: l'agricoltura per la prima volta divenne di sussistenza; gli unici prodotti destinati all'esportazione erano olio e seta, i cui tempi di produzione stabili, ciclici e ripetitivi non potevano sfuggire al controllo dell'aristocrazia fondiaria. Così tra Terra di Bari e Terra d'Otranto la produzione olearia incrementò un relativo benessere, testimoniato dal capillare sistema di masserie rurali e, in città, dal rifiorire delle opere urbanistiche e architettoniche (barocco leccese). Dopo la perdita dei domini della Serenissima nel Mediterraneo i porti di Brindisi e Otranto rimasero un prezioso mercato di Venezia per l'approvvigionamento dei prodotti agroalimentari, persi fra gli altri anche i mercati di Ortona e Lanciano dopo la conversione dei territori abruzzesi all'economia pastorale. Molto simile la condizione delle Calabrie, le cui province, prive di sbocchi commerciali e di porti competitivi, videro uno sviluppo parziale nella sola zona di Cosenza[41].

Attorno alle classi più abbienti fiorì un particolare tipo di umanesimo, fortemente conservatore, caratterizzato dal culto della tradizione classica latina, della retorica e del diritto. Già prima della nascita dei seminari, sacerdoti e aristocratici laici sovvenzionavano centri di cultura che costituirono, in Puglia e Calabria, l'unica forma di modernizzazione civile che le innovazioni amministrative e burocratiche del regno aragonese richiedevano, mentre l'economia e il territorio rimanevano esclusi dai cambiamenti in atto nel resto d'Europa.

Chiesa di San Marco a Rossano, fondata dal basiliano san Nilo
Chiesa di San Marco a Rossano, fondata dal basiliano san Nilo

Dal XV secolo scomparvero le ultime tracce della tradizione culturale e sociale greca: nel 1467 la diocesi di Hieracium abbandonava l'uso del rito greco nella liturgia in favore del latino, nel 1571 la diocesi di Rossano, nel 1580 l'arcidiocesi di Reggio, nel 1586 l'arcidiocesi di Siponto e poco dopo quella di Otranto[42]. La latinizzazione del territorio iniziata con i normanni, continuata con gli angioini, trovò il suo completamento nel XVII secolo, parallelamente al forte accentramento del potere in mano all'aristocrazia fondiaria, tra Reggio e Cosenza. In questi anni il Campanella coinvolse tali diocesi, con il sostegno di speculazioni astrologiche e filosofiche orientali, nella rivolta contro il dominio spagnolo e l'ordine dei gesuiti;[43][44][45] furono anche gli anni del grande sviluppo delle certose di Padula[46] e di Santo Stefano, e della nascita dell'Accademia Cosentina, che vedrà, fra i suoi allievi e maestri, Bernardino Telesio e Sebezio Amilio.

[modifica] La successione di Carlo II e la fine del dominio spagnolo

Per approfondire, vedi la voce Anticurialismo.

Già dal 1693 a Napoli come nel resto dei domini spagnoli degli Asburgo, si iniziò a discutere delle sorti del regno di Carlo II il quale lasciava gli stati della sua corona senza eredi diretti. Fu in quest'occasione che nel Mezzogiorno d'Italia cominciò ad emergere una coscienza civile politicamente organizzata, trasversalmente composta sia dagli aristocratici che dai piccoli mercanti e artigiani cittadini, schierata contro i privilegi e le immunità fiscali del clero[47] (la relativa corrente giuridica è nota agli storici come anticurialismo napoletano), e ambiziosa di fronteggiare il banditismo[48]. Questa sorta di partito nel 1700, alla morte di Carlo II, si oppose al testamento del sovrano spagnolo che designava erede delle corone spagnola e napoletana Filippo V di Borbone, duca d'Angiò, sostenendo invece le pretese di Leopoldo I del Sacro Romano Impero, il quale riteneva legittimo erede il futuro imperatore d'Austria l'arciduca Carlo d'Asburgo (Carlo VI del Sacro Romano Impero). Tale dissidio politico portò il partito filo-austriaco napoletano ad una esplicita presa di posizione antispagnola, seguita dalla rivolta nota come congiura di Macchia, poi fallita. Dopo la crisi politica il governo spagnolo tentò con la repressione di riportare l'ordine nel regno, mentre la crisi finanziaria era sempre più disastrosa. Nel 1702 fallì il Banco dell'Annunziata; in questi anni Filippo V, in viaggio a Napoli, nel 1701 condonò i debiti delle università[49].

L'europa nel 1700.
L'europa nel 1700.

Gli ultimi viceré per conto della Spagna furono Luis Francisco de la Cerda y Aragón, impegnato ad arginare banditismo e contrabbando, e Juan Manuel Fernández Pacheco Cabrera, il cui mandato di governo fu impedito dalla guerra e quindi dall'occupazione austriaca del 1706.[50]

[modifica] Il vicereame degli Asburgo

Per approfondire, vedi la voce Guerra di successione spagnola.

Il trattato di Utrecht nel 1713 poneva fine alla guerra di successione spagnola: in base agli accordi sanciti dai firmatari il regno di Napoli finiva sotto il controllo di Carlo VI del Sacro Romano Impero con la Sardegna; la Sicilia invece andava ai Savoia, ristabilendo l'identità territoriale della corona del rex Siciliae, con la condizione che, una volta estinta la discendenza maschile dei Savoia, l'isola e il titolo regale annesso sarebbero tornati alla corona spagnola. Con la pace di Rastadt un'anno dopo anche Luigi XIV di Francia riconosce i domini asburgici in Italia. Nel 1718 Filippo V di Spagna tentò di ristabilire il proprio dominio a Napoli e in Sicilia con il sostegno del suo primo ministro Giulio Alberoni: contro la Spagna intervennero però direttamente Inghilterra, Francia, Austria e Olanda che sconfissero l'esercito di Filippo V a Capo Passero. La pace dell'Aja che ne seguì (1720) decretò il riavvicinamento della Sicilia al regno di Napoli: pur mantenendosi come entità statale separata, passò insieme a Napoli sotto la corona austriaca mentre il Regno di Sardegna diventava possesso sabaudo. Carlo III di Borbone veniva designato erede al trono nel ducato di Parma.

Copertina di Principi di scienza nuova (Vico)
Copertina di Principi di scienza nuova (Vico)

L'inizio del dominio austriaco, seppur costretta ad affrontare una situazione finanziaria disastrosa, segnò una profonda riforma nelle gerarchie politiche dello stato napoletano, a cui seguì un discreto sviluppo dei principi illuministici e riformatori. Furono da allora reperibili a Napoli, oltre che i testi cartesiani, le opere di Spinoza, Giansenio, Pascal e le espressioni della cultura tornano in diretto contrasto con il clero cittadino[51], sulla strada dell'anticurialismo napoletano già aperta da giuristi famosi come Francesco d'Andrea, Giuseppe Valletta e Costantino Grimaldi. Durante il vicereame austriaco, nel 1721, Pietro Giannone pubblica il suo testo più celebre, la Storia civile del Regno di Napoli, un importantissimo riferimento culturale per lo stato napoletano, che diviene celebre in tutta Europa (ammirato da Montesquieu) per come ripropone in termini moderni il machiavellismo e subordina al diritto civile il diritto canonico[52]. Scomunicato dall'arcivescovo di Napoli, trovò rifugio a Vienna, senza poter più tornare nell'Italia meridionale. In quest'ambiente, tra Napoli e il Cilento, visse anche Giovan Battista Vico che, nel 1723, pubblicò i suoi Principi di una scienza nuova, e Giovanni Vincenzo Gravina, studioso a Napoli di diritto canonico, il quale fondò a Roma, con Cristina di Svezia, l'accademia dell'Arcadia, riproponendo la lettura laica dei classici. Il suo allievo Metastasio proprio a Napoli formò sul Tasso e sul Marino le innovazioni poetiche che diedero al melodramma italiano fama internazionale[53].

[modifica] I viceré austriaci

Per approfondire, vedi la voce Elenco dei viceré austriaci di Napoli.

I primi viceré austriaci furono Georg Adam e Virico Daun, seguiti dall'amministrazione del cardinale Vincenzo Grimaldi che, favorevole ai circoli anticuriali napoletani, attuò la prima politica di risanamento finanziario, tentando di ridurre le spese di governo e al sequestro delle rendite dei feudatari meridionali che a seguito dell'occupazione austriaca erano contumaci[54] I viceré che gli succedettero (Carlo Borromeo Arese e il Daun al secondo mandato) trovarono un lieve bilancio positivo nelle entrate del regno, grazie anche al saldo delle spese che le operazioni militari avevano richiesto.[55] Nel 1728 il viceré Michele Federico Althann istituì il pubblico Banco di San Carlo, per finanziare l'imprenditoria privata di stampo mercantilistico, ricomprare le quote di debito pubblico e liquidare la manomorta ecclesiastica[56] Lo stesso viceré si guadagnò l'inimicizia dei gesuiti per aver tollerato la pubblicazione delle opere degli anticurialisti Giannone e del Grimaldi.

Un nuovo tentativo di invasione però operato da Filippo V di Spagna, sebbene si concluse con la sconfitta di quest'ultimo, riportò il bilancio del regno nuovamente in deficit: il problema persistette per tutta la successiva età della dominazione austriaca; nel 1731 Aloys Thomas Raimund promosse l'istituzione di una Giunta delle Università per controllare i bilanci dei piccoli centri delle provincie, assieme alla Giunta della Numerazione per il riordino delle amministrazioni finanziarie, istituita nel 1732[57]. I nuovi catasti furono però ostacolati dai proprietari terrieri e dal clero, che voleva scongiurare i propositi del governo di tassare i beni ecclesiastici. L'ultimo dei viceré austriaci, Giulio Visconti, vide l'invasione borbonica e la conseguente guerra, lasciando però ai nuovi sovrani una situazione finanziaria molto migliore rispetto a quella lasciata dai viceré spagnoli.[58]

[modifica] I Borbone

[modifica] Carlo di Borbone

Per approfondire, vedi le voci Guerra di successione polacca e battaglia di Bitonto.
Statua di Carlo di Borbone nel palazzo reale di Napoli
Statua di Carlo di Borbone nel palazzo reale di Napoli

La politica di riforme iniziata tiepidamente sotto il vicereame di Carlo VI d'Asburgo fu ripresa dalla corona dei Borbone la quale, attenta agli interessi napoletani, intraprese una serie di innovazioni amministrative e politiche, estendendole a tutto il territorio del regno. Carlo di Borbone, già duca di Parma e Piacenza, figlio di Filippo V re di Spagna e di Elisabetta Farnese, a seguito della battaglia di Bitonto conquistò il regno di Napoli, e fece il suo ingresso in città il 10 maggio 1734, assumendo il titolo di Neapolis rex, secondo la consuetudine asburgica (titolo di Carlo V); nel luglio dell'anno dopo fu incoronato anche re di Sicilia. La conquista dei due regni da parte dell'Infante fu resa possibile dalle manovre della regina di Spagna, la quale, approfittando della guerra di successione polacca nella quale Francia e Spagna combattevano il Sacro Romano Impero, rivendicò a suo figlio le province dell' Italia meridionale, ottenute nel 1734 in seguito alla battaglia di Bitonto. L'8 giugno 1735 sostituì al Consiglio Collaterale la Real Camera di Santa Chiara. Affidò la fomazione del governo al conte di Santostefano e nominò Bernardo Tanucci ministro di giustizia.

Il regno non ebbe una effettiva autonomia dalla Spagna fino alla pace di Vienna, nel 1738, con la quale si concluse la guerra di successione polacca. Nell' agosto 1744 l'esercito di Carlo, forte ancora della presenza di truppe spagnole, sconfisse nella Battaglia di Velletri gli austriaci che tentavano di riconquistare il regno. Alla situazione precaria in cui versava la corona borbonica sul regno di Napoli corrispose una politica ambigua di Carlo III: egli all'inizio del suo governo cercò di assecondare le posizioni politiche delle gerarchie ecclesiastiche, favorendo l'istituzione a Palermo di un tribunale d'Inquisizione e non contrastando la scomunica di Pietro Giannone. Quando però la fine delle ostilità in Europa scongiurarono le minacce al suo titolo regale, nominò primo ministro Bernardo Tanucci, la cui politica fu da subito rivolta ad arginare i privilegi ecclesiastici: nel 1741, con un concordato furono drasticamente ridotti il diritto d'asilo nelle chiese ed altre immunità al clero; i beni ecclesiastici furono sottoposti a tassazione. Successi analoghi non si ebbero tuttavia nella lotta alla feudalità. In questi anni fu istituita la Giunta di Commercio per favorire la liberalizzazione del commercio, che si dimostrò un organo fallimentare perché fortemente cotnrastato da chi non voleva fossero rimossi i privilegi feudali: a ciò si aggiunse le elevate spese che seguirono la costruzione delle regie e dell'Albergo dei Poveri.

Le riforme però, pur restaurando i vecchi sistemi catastali, riuscirono ad imporre una tassazione ai beni ecclesiastici pari alla metà della tassazione ordinaria dei laici mentre i beni feudali restarono vincolati al sistema fiscale della adoa. Erario giovò dei nuovi provvedimenti e contemporaneamente vi fu un discreto sviluppo dell'economia, l'aumento della produzione agricola e degli scambi commerciali connessi.[59] Nel 1755 fu istituita presso l'Università di Napoli la prima cattedra di economia in Europa, denominata cattedra di commercio e di meccanica. I corsi (in italiano e non in latino), furono tenuti da Antonio Genovesi, che, persa la cattedra di teologia a seguito di accuse nei suoi riguardi di ateismo, continuò i suoi studi nell'economia e nell'etica. I successi ottenuti inauguarono un progetto d'intervento più radicale da compiersi nella Terra di Lavoro. Il primo passo interessò la costruzione della reggia di Caserta, e la modernizzazione urbanistica dell'omonima città, che fu riedificata sui disegni razionalistici di Luigi Vanvitelli. Negli stessi anni nel cuore della capitale del regno invece Giuseppe Sammartino realizzava uno fra i più celebri complessi scultorei d'Italia, nella Cappella dei Sansevero: la cura estremamente formale e la modernizzazione stilistica di cui erano dotate le sue opere generarono polemiche negli ambienti cattolici napoletani, abituati agli esiti artistici del manierismo e del barocco.

Presso il palazzo reale di Portici, che sarebbe dovuto essere la residenza di Carlo III prima della costruzione della Reggia di Caserta, il re istituì un grande museo archeologico in cui furono raccolti i reperti dei recenti scavi di Ercolano e Pompeii. Per la prima volta in Italia, dall'istituzione del ghetto di Roma, a Napoli fu promulgata in questi anni una legge per garantire agli ebrei gli stessi diritti di cittadinanza (ad esclusione della possibilità di possedere titoli feudali) riservati fino ad allora ai cattolici.[15][60]

Gli scavi del tempio di Iside a Pompeii nel XVIII secolo
Gli scavi del tempio di Iside a Pompeii nel XVIII secolo

[modifica] Re Ferdinando IV e Bernardo Tanucci

Nel 1759, alla partenza di Carlo, divenuto re di Spagna, salì al trono Ferdinando, all'età di soli 8 anni. Principali esponenti del Consiglio di Reggenza furono Domenico Cattaneo, principe di San Nicandro ed il marchese Bernardo Tanucci. Durante il periodo della reggenza ed in quello successivo, fu principalmente il Tanucci ad avere in mano le redini del Regno ed a continuare le riforme iniziate in età carolina. In campo giuridico, molti progressi furono resi possibili dall'appoggio dato al ministro Tanucci da Gaetano Filangieri, il quale, con la sua opera "Scienza della legislazione" (iniziata nel 1777), può essere considerato tra i precursori del diritto moderno. Nel 1767 il re emise l'atto di espulsione nel confronti dei gesuiti dai territorio del regno che ne comportò l'alienazione dei beni, conventi e centri di cultura, sei anni prima che papa Clemente XIV decretasse la soppressione dell'ordine. Nel 1768 Ferdinando sposò Maria Carolina, figlia dell'imperatrice Maria Teresa e sorella della regina di Francia Maria Antonietta. La nuova regina partecipò attivamente, a differenza del marito, al governo del regno. Nel 1776 Tanucci fu promotore dell'abolizione di un simbolico atto di vassallaggio, l'omaggio della chinèa, che rendeva formalmente il regno di Napoli uno stato tributario del pontefice di Roma[61]

La consolare Sora-Napoli presso Arce sul tracciato dell'attuale Strada Statale 6 Via Casilina
La consolare Sora-Napoli presso Arce sul tracciato dell'attuale Strada Statale 6 Via Casilina

Ferdinando IV di Napoli si impegnò inoltre personalmente nella poltica di riforma territoriale inaugurata dal Carlo III: in Terra di Lavoro dispose la costruzione della colonia industriale di San Leucio (1789), interessante esperimento di legislazione sociale e di sviluppo manifatturiero. Il 14 luglio 1796 dichiarava soppresso il ducato di Sora, insieme allo Stato dei Presidi, le ultime tracce delle signorie rinascimentali in Italia, e disponeva il compenso da versare al duca Antonio II Boncompagni; contemporanemanete il re emanava un decreto per la costruzione della via consolare Sora-Napoli e di un nucleo industriale presso Isola di Sora per la produzione di armi.[62]

Nei primi anni di regno la moglie Maria Carolina si mostrò sensibile alle istanze di rinnovamento e moderatamente favorevole alla promozione delle libertà individuali. Tale tendenza subì tuttavia una brusca inversione di rotta all'approssimarsi della Rivoluzione Francese, sfociando nella repressione alla notizia della decapitazione dei regnanti francesi e al sostegno napoletano della presenza militare britannica nel Mediterraneo. Le misure repressive portarono ad un'insanabile frattura tra la monarchia e la classe intellettuale; le pene colpirono non solo i democratici, ma anche riformisti di sicura fede monarchica, che così non esitarono ad abbracciare la causa repubblicana nel 1799.

[modifica] Patriotti e repressione borbonica

Per approfondire, vedi le voci Massoneria e giansenismo.
Eleonora de Fonseca Pimentel, icona femminile della rivoluzione napoletana
Eleonora de Fonseca Pimentel, icona femminile della rivoluzione napoletana

Durante il governo dei due sovrani borbonici, a Napoli ebbe modo di svilupparsi un forte senso di associazionismo laico, che raccoglieva in parte le dottrine della tradizione anticurialista napoletana, e in parte i nuovi ideali delle unioni massoniche sorte in città, fortemente impegnate nel sostegno del potere regio, contro le ingerenze dello Stato della Chiesa. Questi nuovi movimenti politici, fortemente contrastati dai vescovi e dalle diocesi provinciali, non poterono non manifestare da sempre il proprio sostegno all'espansionismo politico e militare della Francia rivoluzionaria. Già nel 1792, alla caduta della monarchia di Luigi XVI, delle navi francesi sbarcarono nel golfo di Napoli per imporre a Ferdinando IV la politica commerciale antibritannica della Francia, trovando ad accoglierli molti massoni e i membri della Società Patriottica Napoletana, un'associazione che raccoglieva i principali esponenti del giurisdizionalismo laico in città. Due anni dopo la prima comparsa dei francesi a Napoli, la Società Patriottica si sciolse e i vecchi membri fondarono due nuove società filorepubblicane, la Lomo (Libertà o morte) e Romo (repubblica o morte), che assorbirono molti degli affiliati delle logge massoniche partenopee. I due nuovi gruppi politici furono però da subito condannati e soppressi, nel 1794, quando a seguito di alcune apostasie, il re indisse con il sostegno del clero, un processo conosciuto come Causa dei Rei di Stato, i cosiddetti giacobini napoletani, i membri dei due clubs filofrancesi accusati di ateismo e di congiura.[63]

La bandiera della Repubblica partenopea
La bandiera della Repubblica partenopea

[modifica] La repubblica partenopea e la riconquista borbonica

Per approfondire, vedi le voci Repubblica partenopea e sanfedismo.

L'avanzata delle truppe francesi in Italia cominciò con Napoleone Bonaparte, nel 1796. Nel 1798 le navi francesi presero Malta; poco dopo fu occupata anche Roma e l'intervento militare delle truppe napoletane nello Stato Pontificio, capitanate dal generale austiraco Carlo de Mack, al comando di circa 116.000 uomini contro i francesi, si risolse in un insuccesso, e il Mezzogiorno fu aperto così alle mire espansionistiche napoleoniche. Il 22 dicembre 1798 il re Ferdinando IV fuggì a Palermo, lasciando il governo al marchese di Laino Francesco Pignatelli, col titolo di Vicario Generale e a Napoli la sola debole resistenza popolare dei lazzari contro i militari d'oltralpe. Dalle rivolte popolari, che intanto si erano estese fino all'Abruzzo, il Pignatelli però non raccolse una resistenza organizzata, e il 12 gennaio 1799 firmò l'armistizio di Sparanise, dopo che i francesi ebbero occupato Capua. Tredici giorni dopo, il 22 gennaio 1799 a Napoli, i cosiddetti patriotti napoletani proclamarono la nascita di un nuovo stato, la Repubblica Napoletana, anticipando il progetto francese d'istituire nel Mezzogiorno napoletano un governo d'occupazione[64]. Il comandante francese Jean Étienne Championnet entrato nella capitale approvò le istituzioni dei patriotti e riconobbe Carlo Lauberg capo della repubblica. Il Lauberg quindi, forte del sostegno francese, in questi anni fondò insieme a Eleonora Pimentel Fonseca il Monitore Napoletano, celebre giornale di propaganda rivoluzionaria e repubblicana[65].

« Siam liberi in fine, ed è giunto anche per noi il giorno, in cui possiam pronunciare i sacri nomi di libertà, e di uguaglianza, ed annunciare alla Repubblica Madre, come suoi degni figliuoli; a' popoli liberi d'Italia, e d'Europa, come loro degni confratelli. »
(Monitore Napoletano, I, 2 Febbraio 1799)
Il cardinale Fabrizio Ruffo.
Il cardinale Fabrizio Ruffo.

Il nuovo governo inoltre partecipava direttamente all'esperienza rivoluzionaria francese inviando al direttorio di Parigi la propria rappresentanza, detta deputazione napoletana[66], e tentò da subito delle innovazioni (eversione della feudalità, la riforma dell'ordinamento giudiziario e progetto giansenista di creare una chiesa nazionale indipendente dal vescovo di Roma[67]): già il 23 gennaio 1799 furono emanate le Istruzioni generali del Governo provvisorio della Repubblica Napoletana ai Patriotti, una sorta di primo programma di governo. I progetti politici però non riuscirono a trovare pratica attuazione nei soli cinque mesi di vita della Repubblica; il 13 giugno 1799 infatti l'armata popolare sanfedista organizzata attorno al cardinale Fabrizio Ruffo riconquistò il Mezzogiorno, restituendo i territori del regno alla monarchia borbonica esule a Palermo. Dopo la riconquista borbonica, la sede della corte ufficialmente restò in Sicilia, ma già nell'estate del 1799 a Napoli furono istituiti degli organi amministrativi quali la Giunta di Governo, la Giunta di Stato e la Giunta Ecclesiastica; la Segreteria degli Affari Esteri era affidata all'Acton che ne gestiva le cariche ancora da Palermo. Nei mesi seguenti una giunta nominata da Ferdinando cominciò i processi contro i repubblicani.[68]

[modifica] La reazione regia e la prima restaurazione

La regina Maria Carolina con la famiglia in un dipinto di Angelica Kauffmann.
La regina Maria Carolina con la famiglia in un dipinto di Angelica Kauffmann.

Sul finire dell'estate del 1799 gli ex giacobini catturati ed imprigionati erano 1396. Il governo di Napoli era stato affidato intanto da Ferdinando IV al cardinale Fabrizio Ruffo, eletto con l'occasione luogotenente e capitano generale del Regno di Sicilia citeriore, con un titolo che anticipò ufficiosamente la futura denominazione di Regno delle Due Sicilie che prima Murat e, dopo il congresso di Vienna, Ferdinando IV, utilizzarono per designare il regno. La monarchia restaurata, in cerca del sostegno incondizionato del clero, vistasi minacciata dalle innovazioni giuridiche e amministrative che in parte gli stessi Borboni avevano portato a Napoli già dal XVIII secolo, fu caratterizzata da una svolta oscurantista: da subito mise in pratica i propri disegni politici anche con l'eliminazione fisica dei principali esponenti repubblicani e con l'ostracismo verso chi aveva guadagnato celebrità durante la repubblica. Allo stesso tempo, per ricondurre entro la nuova politica conservatrice anche i sacerdoti e i monaci che, su posizioni più o meno gianseniste, avevano precedentemente aderito alla rivoluzione, il nuovo governo incaricò, con dispacci e lettere ufficiali, direttamente i vescovi di controllare tutti gli istituti religiosi delle rispettive diocesi affinché ovunque fosse rispettata l'ortodossia tridentina[69]. Il 27 settembre 1799 l'esercito napoletano conquistò Roma mettendo fine all'esperienza repubblicana rivoluzionaria anche nello Stato Pontificio, reinsediandovi quindi il principato del Papa. Nel 1801 gli interventi militari napoletani, nel tentativo di raggiungere la Repubblica cisalpina, si spinsero fino a Siena, dove si scontrarono senza successo con le truppe d'occupazione francesi di Gioacchino Murat. Alla sconfitta delle truppe borboniche seguì l'armistizio di Foligno, il 18 febbraio 1801, e in seguito la pace di Firenze tra i sovrani di Napoli e Napoleone; in questi anni furno varati anche una serie di indulti che permisero a molti giacobini napoletani di uscire dalle carceri. Con la pace di Amiens invece, stipulata dalle potenze europee nel 1802, il Mezzogiorno e la Sicilia furono provvisoriamente liberate dalle truppe francesi, inglesi e russe, e la corte borbonica tornò ad insediarsi ufficialmente a Napoli. Due anni più tardi furono riaperte le porte del regno ai gesuiti, mentre già dal 1805 i francesi tornarono ad occupare il regno, stanziando in Puglia un presidio militare.[70]

La bandiera del Regno di Napoli sotto Giuseppe Bonaparte.
La bandiera del Regno di Napoli sotto Giuseppe Bonaparte.
Per approfondire, vedi le voci pace di Firenze e pace di Amiens.

[modifica] Il periodo napoleonico

[modifica] Giuseppe Bonaparte re di Napoli

Stemma del Regno di Napoli al tempo di Giuseppe Bonaparte
Stemma del Regno di Napoli al tempo di Giuseppe Bonaparte

Il successivo quinquennio vide il Regno seguire una politica altalenante nei confronti della Francia napoleonica che, per quanto ormai egemone sul continente, rimase sostanzialmente sulla difensiva sui mari: questa situazione non consentì al Regno napoletano, strategicamente posizionato nel Mediterraneo, di mantenere una stretta neutralità nel conflitto a tutto campo fra francesi e inglesi, i quali a loro volta minacciavano di invadere e conquistare la Sicilia.

Dopo la vittoria di Austerlitz del 2 dicembre 1805, Napoleone Bonaparte regolò definitivamente i conti con Napoli: promosse l'occupazione del napoletano, condotta con successo dal Gouvion-Saint Cyr e dal Reynier, e dichiarò quindi decaduta la dinastia borbonica, che l'11 aprile dello stesso anno era entrata nella terza coalizione antifrancese, palesemente ostile a Napoleone. L'imperatore dei francesi nominò quindi il fratello Giuseppe Re di Napoli. Nelle province del Mezzogiorno intanto tornò ad organizzarsi la resistenza antinapoleonica: fra i vari capitani degli insorti filoborbonici si distinse, in Calabria e Terra di Lavoro, il brigante di Itri Michele Pezza, detto Fra Diavolo; solo con la sconfitta, e la condanna a morte di quest'ultimo, nel regno fu scongiurata la minaccia di una rivolta popolare diffusa, e fu possibile stabilire il nuovo ordine napoleonico. Sotto un'amministrazione prevalentemente straniera, composta dal còrso Cristoforo Saliceti, Andrea Miot e Pier Luigi Roederer, furono tentate, ancora una volta, e finalmente per buona parte attuate, riforme radicali quali l'eversione della feudalità e la soppressione degli ordini regolari; in più furono istituiti l'imposta fondiaria e un nuovo catasto onciario.

« La feudalità con tutte le sue attribuzioni resta abolita. Tutte le giurisdizioni sinora baronali, ed i proventi qualunque che vi siano stati annessi, sono reintegrati alla sovranità, dalla quale saranno inseparabili »
(legge di eversione della feudalità del 2 agosto 1806)

La lotta alla feudalità fu efficace anche grazie al contributo di giuristi come Giuseppe Zurlo e Davide Winspeare (già al servizio dei Borboni in veste di mediatore fra la corte di Palermo e le truppe francesi nel Mezzogiorno), e alla fine riuscì a portare ad un taglio netto col passato e dunque alla nascita della proprietà borghese anche nel Regno di Napoli, sostenuta poi dallo stesso Gioacchino Murat. A fianco di una serie di riforme che coivolsero anche il sistema tributario e giuridico, il nuovo governo istituì il primo sistema di province, distretti e circondari del regno, ad organizzazione civile, con a capo rispettivamente un intendente, un sottintendente e un governatore, poi giudice di pace. Le nuove province erano Teramo, L'Aquila, Chieti, Molise (con capoluogo Campobasso), Terra di Lavoro (con capoluogo Capua), Capitanata (con capoluogo Foggia), Benevento, Napoli, Salerno, Potenza, Bari, Lecce, Cosenza, Catanzaro e Reggio Calabria. Infine l'alienazione dei beni dei monasteri e dei feudatarti attirò a Napoli un cospicuo numero di investitori francesi, gli unici in grado, insieme ai vecchi nobili locali, di disporre dei capitali necessari per acquistare terreni e beni immobili. Sull'esempio della Legion d'onore in Francia, Giuseppe Bonaparte istituì a Napoli l'Ordine Reale delle Due Sicilie per conferire riconoscimenti ai meriti delle nuove personalità che si distinguevano nello stato riformato[71].

Statua di Murat  all'ingresso del Palazzo Reale di Napoli
Statua di Murat all'ingresso del Palazzo Reale di Napoli

[modifica] Gioacchino Murat re delle Due Sicilie

« Ottantamila Italiani degli Stati di Napoli, marciano comandati dal loro Re, e giurano di non dimandare riposo, se non dopo la liberazione d'Italia »
(Gioacchino Murat, Proclama di Rimini, 30 marzo 1815)
Per approfondire, vedi la voce guerra austro-napoletana.

A Giuseppe Bonaparte, nel 1808 destinato a regnare sulla Spagna, succedette Gioacchino Murat, che fu incoronato da Napoleone il 1° agosto dello stesso anno, col nome di Gioacchino Napoleone, re delle Due Sicilie,[72] par la grace de Dieu et par la Constitution de l'Etat, in ottemperanza allo Statuto di Baiona che fu concesso al regno di Napoli da Giuseppe Bonaparte. Il nuovo sovrano catturò da subito la benevolenza dei cittadini liberando Capri dall'occupazione inglese, risalente al 1805. Aggregò poi il distretto di Larino alla provincia del Molise. Fondò, con decreto del 18 novembre 1808, il Corpo degli ingegneri di Ponti e Strade e avviò opere pubbliche di rilievo non solo a Napoli (il ponte della Sanità, via Posillipo, nuovi scavi ad Ercolano, il Campo di Marte), ma anche nel resto del Regno: dispose l'illuminazione pubblica a Reggio di Calabria, il progetto del Borgo Nuovo di Bari e l'ammodernamento della viabilità nelle montagne d'Abruzzo. Fu promotore del Codice Napoleone, entrato in vigore nel regno il 1° gennaio 1809, un nuovo sistema legislativo civile che, fra le altre cose, consentiva per la prima volta in Italia il divorzio e il matrimonio civile: il codice suscitò da subito polemiche nel clero più conservatore, che vedeva sottratto alle parrocchie il privilegio della gestione delle politiche familiari, risalente al 1560[73][74]. Nel 1812, grazie alle politiche del Murat, fu impiantata la prima cartiera del regno a sistema di produzione moderno presso Isola del Liri, nell'edificio del soppresso convento dei carmelitani, ad opera dell'industriale francese Carlo Antonio Beranger[75].

L'impero napoleonico nel 1811
L'impero napoleonico nel 1811

Nell'estate del 1810 Murat tentò uno sbarco in Sicilia per riunire politicamente l'isola al continente; giunse a Scilla il 3 giugno dello stesso anno e vi restò sino al 5 luglio, quando fu completato un grande accampamento presso Piale, frazione di Villa San Giovanni, dove il re si stabilì con la corte, i ministri e le più alte cariche civili e militari. Il 26 settembre poi, constatando impresa difficile la conquista della Sicilia, Murat dismise l'accampamento di Piale e ripartì per la capitale.

Grazie allo statuto di Baiona, la costituzione con cui Murat era stato proclamato da Napoleone re delle due Sicilie, il nuovo sovrano si considerava svincolato dal vassallaggio nei confronti dell'antica gerarchia francese, rappresentata a Napoli da molti funzionari nominati da Giuseppe Bonaparte, e forte di questa linea politica, trovò maggior sostegno nei cittadini napoletani, che videro pure di buon occhio la partecipazione del Murat a diverse cerimonie religiose e la concessione regia di alcuni titoli dell'Ordine Reale delle Due Sicilie a vescovi e sacerdoti cattolici[76]. Re Gioacchino prese parte fino al 1813 alle campagne napoleoniche, ma la crisi politica del Bonaparte non fu un ostacolo alla sua politica internazionale. Cercò fino al congresso di Vienna il sostegno delle potenze europee, schierando le proprie truppe anche contro la Francia ed il Regno napoleonico d'Italia, sostenendo invece l'esercito austriaco che scendeva a sud per la conquista della Val Padana: con l'occasione occupò le Marche, l'Umbria e l'Emilia Romagna fino a Modena e Reggio Emilia, bene accolto dalle popolazione locale[77].

La campagna militare del Murat nell'Italia settentrionale.
La campagna militare del Murat nell'Italia settentrionale.

Conservò più a lungo la corona, ma non si liberò dell'ostilità britannica e della nuova Francia di Luigi XVIII, inimicizie che impedirono l'invito di una delegazione napoletana al Congresso, e così ogni sanzione alla occupazione napoletana di Umbria, Marche e Legazioni, risalenti alla campagna del 1814. Tale incertezza politica spinse il re ad una mossa azzardata: prese contatto con Napoleone all'isola d'Elba e si accordò con l'imperatore in esilio, in vista del tentativo dei Cento giorni. Murat diede inizio alla guerra austro-napoletana, attaccando gli stati alleati dell'[[Impero austriaco; a seguito di questa seconda svolta militare, Murat lanciò il famoso Proclama di Rimini,[78] un appello all'unione dei popoli italiani, convenzionalmente considerato l'inizio del Risorgimento. La campagna unitaria però naufragò il 4 maggio 1815, quando gli austriaci lo sconfissero nella battaglia di Tolentino: col trattato di Casalanza infine, firmato presso Capua il 20 maggio 1815 dai generali austriaci e murattiani, il regno di Napoli tornava alla corona borbonica.[79] L'epopea murattiana terminò con l'ultima spedizione navale che il generale tentò dalla Corsica verso Napoli, dirottata poi verso la Calabria dove, a Pizzo Calabro, Murat fu catturato e fucilato sul posto.[71][80]

[modifica] La Restaurazione

Il faro di Capo d'Otranto, la punta più orientale del Regno di Napoli
Il faro di Capo d'Otranto, la punta più orientale del Regno di Napoli

Dopo la Restaurazione, nel 1816, con il ritorno dei Borbone, i due regni di Napoli e Sicilia furono nuovamente formalmente uniti nel Regno delle Due Sicilie, che poi sarebbe finito nel 1860, con la spedizione dei mille e l'unità d'Italia. Il nuovo regno conservò il sistema amministrativo napoleonico, secondo una linea di governo adottata da tutti gli stati restaurati, in cui si iscrisse, a Napoli, il programma politico borbonico, fortemente conservatore. Il ministero di Polizia fu affidato ad Antonio Canosa[81], mentre quello delle Finanze a Luigi de' Medici,appartenente al ramo mediceo dei Principi di Ottajano, e quello di Giustizia e degli Affari Ecclesiastici a Donato Tommasi, principali sostenitori della restaurazione cattolica napoletana[82]. Per la prima volta inotre Ferdinando I delle Due Sicilie si mostrò disponibile ad accordi politici con la Santa Sede, fino a promuovere il concordato di Terracina, del 16 febbraio 1818, per cui venivano definitivamente aboliti i privilegi fiscali e giuridici del clero nel napoletano, rafforzandone però i diritti patrimoniali, e incrementandone i beni[83]. Lo stato fu caratterizzato da una politica fortemente confessionale, sostenendo le missioni popolari dei passionisti, gesuiti, e i collegi dei barnabiti, di formazione anti-regalista[84] e per la prima volta adottando la religione nazionale come pretesto per sedare le rivolte popolari (moti del '21).[85]

Per approfondire, vedi la voce Regno delle Due Sicilie.

[modifica] Compendio

[modifica] Geografia

Dalla sua formazione fino all'unità d'Italia il territorio occupato dal regno di Napoli rimase compreso pressappoco sempre entro gli stessi confini e l'unità territoriale fu solo debolmente minacciata dal feudalesimo (Principato di Taranto, Ducato di Sora, Ducato di Bari) e dalle incursioni dei pirati barbareschi. Occupava grossomodo tutta la parte della penisola italiana che oggi è conosciuta come Mezzogiorno, dai fiumi Tronto e Liri, dai monti Simbruini a nord, fino al capo d'Otranto e al capo Spartivento. La lunga catena appenninica che vi si sviluppa era tradizionalmente divisa in Appennino abruzzese ai confini con lo Stato Pontificio, Appennino napoletano dal Molise al Pollino e Appennino calabrese dalla Sila all'Aspromonte. Fra i fiumi maggiori, il Garigliano e il Volturno: gli unici navigabili. Appartenevano al regno le isole dell'arcipelago campano, le isole ponziane e Tremiti, nonché a seconda del periodo storico, la Sicilia, le Egadi, le Lipari, Pantelleria, Ustica, e lo Stato dei Presidi. Lo stato era diviso in giustizierati o province, con a capo un giustiziere, attorno a cui ruotava un sistema di funzionari che lo aiutavano nell'amministrazione della giustizia e nelle riscossioni delle entrate tributarie. Ogni città capoluogo dei giustizierati ospitava un tribunale, un presidio militare e una zecca (non sempre attiva)[1].

Le dodici province napoletane
Giustizierato Capoluogo Istituzione Note
Abruzzo Ultra L'Aquila Carlo I d'Angiò Nel XVII sec. vi fu scorporato l'Abruzzo Ultra II con capoluogo Teramo
Abruzzo Citra Chieti Carlo I d'Angiò
Terra di Lavoro Capua Federico II
Contado di Molise Campobasso Federico II l'amministrazione era affidata al giustiziere di Capitanata
Capitanata San Severo, Lucera, Foggia Federico II furono capoluoghi San Severo fino al 1579, Lucera fino al 1806, quindi Foggia.
Principato Ultra Montefusco Carlo I d'Angiò
Principato Citra Salerno Federico II in età federiciana comprendeva anche il Principato Ultra
Terra di Bari Bari Federico II Sotto i sovrani francesi la Basilica di San Nicola di Bari fu chiesa regia esente dall'ordinariato episcopale.
Terra d'Otranto Lecce Federico II dal periodo aragonese Lecce strappò il primato di centro culturale provinciale alle città bilingui greche di Otranto e Gallipoli.
Basilicata Lagonegro, Potenza, Matera Federico II la sede dei giustizieri fu generalmente itinerante, osteggiata dai baroni locali.
Calabria Citra Cosenza Federico II nel Regno di Sicilia era chiamata Terra Giordana o Val di Crati.
Calabria Ultra Reggio Calabria, Catanzaro Federico II per lungo tempo fu regione bilingue greco-neolatina

[1]


[modifica] Bandiere

Per approfondire, vedi la voce bandiere del regno di Napoli.

[modifica] Monetazione

Il regno di Napoli ereditò in parte la monetazione dell'antico regno di Sicilia svevo-normanno. Il tarì fu quindi la moneta più antica che nel regno perdurò fino all'età moderna. Nel 1287 il Carlo I d'Angiò decretò la nascità di una nuova moneta, il carlino, coniata in oro puro e argento. Carlo II d'Angiò riformò nuovamente il carlino d'argento aumentandone il peso: la nuova moneta fu volgarmente nota come gigliato, dal giglio araldico della casa angioina che vi era raffigurato. Fino ad Alfonso d'Aragnona (a cui si devono i ducati in oro detti Alfonsini) non furono più emessi conî aurei, salvo che per alcune serie di fiorini e bolognini sotto il regno di Giovanna di Napoli. Durante la dominazione spagnola furono coniati i primi scudi, nonché ancora tarì, carlini e ducati. Nel 1684 Carlo II dispose la coniazione delle prime piastre. Tutto il complesso sistema monetario fu conservato poi dai Borbone e durante il periodo napoleonico, quando furono introdotti anche il franco e la lira.[86]


[modifica] Economia

Il regno di Napoli nacque in un periodo molto critico per l'economia del Mediterraneo. Se i territori che occupava furono in età classica fra i più ricchi e fiorenti della storia antica, già con lo Scisma d'Oriente che interruppe l'unità territoriale dell'ex impero romano, il Mezzogiorno cominciò un lento declino. Le crociate contro il mondo arabo prima, che tra Calabria, Basilicata e Sicilia aveva restaurato un clima di relativo benessere economico, e la divisione del regno federiciano in Sicilia citeriore e Sicilia ulteriore consolidarono nelle province napoletane l'assetto amministrativo normanno, imponendo definitivamente il feudo e il latifondo come il principale sistema economico e produttivo in grado di conciliarsi con l'unità dello stato centrale. Nonostate le difficili premesse e la crescente crisi commerciale che continuava ad impoverire i porti del Tirreno meridionale e della Sicilia, il regno fu esposto a diverse dominazioni e a importanti relazioni mercantili con la penisola iberica e con l'Adriatico. Gaeta, Napoli, Reggio Calabria e i porti della Puglia furono i più importanti sbocchi commerciali del regno, che mettevano in comunicazione le province interne con l'Aragona, la Francia, e, tramite Bari, Trani, Brindisi e Taranto, con l'oriente, la Terra Santa e i territori di Venezia. Fu così inoltre che la Puglia divenne un importante centro di approvvigionamento per i mercati europei di prodotti tipicamente mediterranei come olio e vino, mentre in Calabria, a Reggio, poteva sopravvivere il mercato e la coltura della seta, introdotta dagli arabi. Dall'età aragonese la pastorizia divenne un'altra delle risorse fondamentali del regno: tra Abruzzo e Capitanata la produzione della lana grezza destinata ai mercati fiorentini, del merletto e, in Molise, l'artigianato legato alla lavorazione del ferro (coltelli, campane), divennero fin oltre il principio dell'età moderna le uniche industrie inserite nelle esigenze dei mercati internazionali.

Con lo sviluppo dell'industrializzazione il regno di Napoli fu coinvolto solo marginalmente nei processi di modernizzazione dei sistemi di produzione e scambio commerciale: si ricorda lo sviluppo dell'industria della carta a Sora e Venafro (Terra di Lavoro) e della seta a Caserta e Reggio Calabria.

Nonostante le difficili condizioni storiche che spesso causarono l'esclusione del regno di Napoli dalle principali direttrici dello sviluppo economico, il porto della capitale fu per secoli uno dei più vivi e attivi centri economici di tutto il Mediterraneo, tanto da attirare mercanti e banchieri da tutte le principali città europee, nonostante le ostilità dei turchi che con le loro incursioni erano un pesante inibitore dell'economia navale e del commercio marittimo[87][88][89].

[modifica] Religione

Francobollo commemorativo di Sant'Alfonso Maria de' Liguori, fondatore dei redentoristi.
Francobollo commemorativo di Sant'Alfonso Maria de' Liguori, fondatore dei redentoristi.

La centralità del Mezzogiorno nel Mediterraneo fu storicamente causa nei territori del regno di Napoli di una discreta convivenza di costumi, religioni, fedi e dottrine diverse che altrove erano in guerra. Tuttavia, dal dominio angioino si impose il cattolicesimo come religione dei sovrani e la chiesa cattolica trovò il consenso della maggiorparte della popolazione. Le guerre che videro la nascita del regno comportarono la sconfitta e la conseguente interdizione delle altre confessioni religiose a cui aderivano minoranze e coloni stranieri: Islam e chiesa ortodossa. In Calabria e in Puglia fino al concilio di Trento e alla controriforma sopravvisse l'uso del rito greco e del Credo Niceno (senza il filioque). La riconversione alla tradizione latina fu affidata storicamente ai benedettini e ai cistercensi, nonché ad una serie di disposizioni che seguirono il concilio di Trento.[43][90]

Un'altra importante minoranza religiosa era costituita dalle comunità ebraiche. Diffuse nei principali porti della Calabria e della Puglia, nonché in alcune città della Terra di Lavoro e della costa campana, furono espulse dal regno nel 1542 e riammesse poi, con tutti i diritti di cittadinanza, solo sotto il governo di Carlo III di Spagna.

La forte presenza del controllo dottrinale cattolico nelle gerarchie nobiliari e nella giurisprudenza determinò lo sviluppo di filosofie e etiche laiche, eversive nei riguardi della Chiesa di Roma: queste dottrine nacquero su basi atomistiche e gassendiane del XVII sec. (filosofie portate a Napoli da Tommaso Cornelio)[91] e confluirono poi in una forma fortemente locale di giansenismo nel XVIII sec.[92]

Particolarmente diffuso e fortemente sentito in tutto il regno era il culto dei santi e dei martiri, invocati spesso come protettori, taumaturghi e guaritori, nonché della Vergine Maria (Concezione, Annunciazione, Assunzione). D'altra parte nei territori del regno sono sorti centri di vocazione, di ecumenismo, e ordini monastici nuovi quali i teatini, i redentoristi e i celestini[93][94].

[modifica] Lingue e cultura

Per approfondire, vedi le voci Lingua siciliana, Lingua greca, Lingua catalana e Lingua napoletana.

Nel regno di Napoli rimase ben poco della fioritura culturale che Federico II incentivò a Palermo, dando, con l'esperienza della lingua siciliana, dignità letteraria ai dialetti siciliani e calabresi. Con il regno angioino tutte le minoranze linguistiche furono inibite e l'uso del latino si sostituì ovunque all'arabo e al greco (quest'ultimo sopravvisse nelle liturgie delle principali diocesi calabre fino al XVI secolo). La familiarità però con la tradizione bizantina e le ambizioni degli aristocratici di dare fondamento culturale alla propria condizione sociale favorirono lo sviluppo in tutto il regno degli studi umanistici, sia nel diritto e nella retorica latina, sia nei classici greci, riproposti a Napoli dai rifugiati orientali, dopo la dissoluzione dell'impero bizantino. Già nel XV secolo, benché con Alfonso I fossero venuti in città molti catalani[95], fu adottato da artisti e letterati (a partire dal Sannazaro) il fiorentino come lingua colta neolatina, rimanendo di fatto da allora la lingua di grandi personalità quali il Marino, il Vico e il Giannone. Con il vicereame spagnolo il castigliano fu anche lingua di corte e dei funzionari statali, lingua che rimase nel volgare di Napoli con un cospicuo numero di neologismi. La popolazione nella capitale e nel regno restò però sempre ancorata ai dialetti meridionali, che raggiunsero dignità letteraria prima con Lo cunto de li cunti del Basile, e quindi con l'uso della lingua napoletana nella poesia (Cortese), nella musica e nella lirica locale. Diversi istituti di cultura erano diffusi in tutto il regno, e consistevano prevalentemente in scuole di grammatica, retorica, teologia scolastica, aristotelismo o medicina galenica, mentre l'università e le scuole musicali della capitale erano in grado di competere in prestigio e avanguardia con quelle delle principali capitali europee[96][20]

[modifica] Note

  1. ^ a b c d e f g h i AA.VV., Atlante Storico Mondiale DeAgostini a cura di Cesare Salmaggi, Istituto Geografico De Agostini, Novara 1995
  2. ^ Catalano G., Studi sulla Legazia Apostolica di Sicilia, Reggio Calabria 1973, La legazia di Sicilia, p. 40 e ss.
  3. ^ Delogu P., Gillou A., Ortalli G., Storia d'Italia a cura di Galasso G, vol I, pp 301-316
  4. ^ Non coprirono le spese economiche delle campagne di Carlo I d'Angiò neppure le rendite delle chiese della Provenza, regione dei primi feudi del nuovo re di Sicilia, che il papa Urbano IV concesse agli angioini per sostenere la causa guelfa (Di Salvo A., Gasparri S., Simoni F., Fonti per la storia medievale. Dal XI al XV secolo, Sansoni ed., Firenze 1992)
  5. ^ «...Urbano IV decise di appelarsi ad un personaggio potente che avesse pietà della chiesa in rovina e fosse disposto a combattere per la causa del Signore, opponendosi a tutti questi mali. E poiché quell'inclita stirpe dei Franchi era sempre stata il precipuo riparo della chiesa in ogni angustia, come dimostra la storia passata, egli scelse come devoto difensore di Cristo e della Chiesa romana, in quanto cavaliere nobilissimo, valoroso in battaglia e di intemerata fede, Carlo, figlio di Luigi, duca di Provenza, conte di Forcalquier e di Angiò. Ma perché fosse in grado di assolvere liberamente ai suoi compiti, lo nominò re di Sicilia e lo fece senatore dell'alma Roma, e diede ordine che in Francia venisse bandita la crociata in suo favore e che per cinque anni gli venissero assegnate le decime di tutte le chiese del regno.» (Tommaso Tosco, Gesta imperatorum et pontificum)
  6. ^ Di Salvo A., Gasparri S., Simoni F., Fonti per la storia medievale. Dal XI al XV secolo, Sansoni ed., Firenze 1992
  7. ^ Floridi V., La formazione della regione abruzzese e il suo assetto territoriale fra il tardo periodo imperiale e il XII secolo, Rivista dell'istituto di Studi Abruzzesi, XIV 1976
  8. ^ Tosti L., Storia della Badia di Montecassino I-IV Roma 1888-1890
  9. ^ a b Dell'Omo M., Montecassino un abbazia nella storia, Arti grafiche Amilcare Pizzi, Cinisello Balsamo (MI) 1999.
  10. ^ Wickham C., Il problema dell'incastellamento nell'Italia centrale. L'esempio di San Vincenzo al Volturno. Studi sulla società degli Appennini dell'alto medioevo, II, Firenze 1985.
  11. ^ Exordium parvum ordinis cistercensis, cap XVI
  12. ^ Mahn J.B., L'ordre Cistercien et son gouvernement des origines au milieu du XIII siecle, Parigi 1951
  13. ^ Qualche nota su Realvalle dal sito dei cistercensi
  14. ^ Qualche nota su Santa Maria della Vittoria dal sito dei cistercensi
  15. ^ a b c d e f g h Galasso G., Storia d'Italia, vol 15, tomo I, Torino 1992.
  16. ^ a b c d Galasso G., Storia d'Italia Vol XV, Utet, Torino 1995
  17. ^ Summonte G. A., Historia della Città e del Regno di Napoli
  18. ^ Barlaamo di Calabria, Contra latinos
  19. ^ Boccaccio G., Genealogia deorum gentilium
  20. ^ a b c d e f g h i j k Giannone P., Storia civile del Regno di Napoli
  21. ^ Marino J.A., L'economia pastorale nel Regno di Napoli, Napoli 1992
  22. ^ Concejo de la Mesta dalla wikipedia in spagnolo
  23. ^ Franciosa L., La transumanza nell'Appennino Meridionale, Napoli 1992
  24. ^ Porzio C., La congiura dei Baroni del regno di Napoli contra il re Ferdinando I, Osanna Ed., Venosa (PZ 1989
  25. ^ Giannetti A., La riorganizzazione spaziale del Regno di Napoli, in Storia d'Italia, Einaudi ed., Torino-Milano 2006, vol XXVI
  26. ^ Corti M., Rivoluzione e reazione stilistica nel Sannazaro, in Metodi e fantasmi, Feltrinelli ed., Milano 1969.
  27. ^ AA. VV., Enciclopedia Zanichelli 2000
  28. ^ Gianolio E., Gli ebrei a Trani e in Puglia nel medioevo
  29. ^ La Giudecca di Fondi in Terra di Lavoro
  30. ^ Guicciardini F., Storia d'Italia, V
  31. ^ Monteregali, J. Bianco, Canones et decreta concilii tridentini 1869
  32. ^ Gaeta F., Il Rinascimento e la Riforma, in Nuova storia universale dei popoli e delle civiltà, vol. IX, tomo I, Utet, Torino 1976.
  33. ^ Salmi, 68,16 (Monte Sublime). Mons Pinguis dovrebbe essere il nome con cui Campanella rinominò Stilo, che sarebbe dovuta diventare la capitale della nuova repubblica. Molte delle informazioni sono però il risultato di atti processuali, spesso estorte e non necessariamente corrispondenti alle intenzioni reali dei rivoltosi. Pare anche che i congiurati non esitarono a cercare l'appoggio militare degli Ottomani. La rivolta potrebbe essere inoltre legata anche ad un primo tentativo di cacciata dei gesuiti dalla Calabria e ad una reazione delle ultime istituzioni di cultura greca ed orientale sopravvissute nel Mezzogiorno (P. Giannone, Storia civile del Regno di Napoli, 1723)
  34. ^ Oltre a Gioacchino da Fiore pare che il Campanella si servisse nelle proprie prediche e nella propaganda politica anche dei discorsi di Savonarola e dell'Apocalisse di Giovanni (P. Giannone, Storia civile del Regno di Napoli, 1723)
  35. ^ fuggito in Francia, il Campanella morirà a Parigi nel 1639
  36. ^ Immagini di Forte Longone a Porto Azzurro, Isola d'Elba
  37. ^ Spinosa N., Spazio infinito e decorazione barocca, in Storia dell'arte italiana, vol VI, Einaudi ed., Torino 1981
  38. ^ Atti del convegno di studi, di Bianchi F. e Russo P., La scelta della misura. Gabriello Chiabrera: l'altro fuoco del barocco italiano, Costa & Nolan ed., Genova 1993.
  39. ^ Garms Cornides E., Il regno di Napoli e la monarchia austriaca, in Settecento napoletano. Sulle ali dell'aquila imperiale 1707-1734, pp. 17-34, Catalogo della Mostra, Electa ed., Napoli 1994
  40. ^ cfr. il tentativo di Mehmet III di invadere la Sicilia
  41. ^ Simoncini G. (a cura di), Il regno di Napoli, vol. II, Sopra i porti di mare, Pisa 1993
  42. ^ Catholic Encyclopedia
  43. ^ a b Musolino G., Santi eremiti italogreci. Grotte e chiese rupestri in Calabria, Rubettino Ed., Soveria Mannelli (CZ) 2002
  44. ^ Papa Pio IV nella bolla Romanus Pontifex del 16 febbraio 1564 abrogò i privilegi delle chiese calabresi, sottomettendo definitivamente le comunità orientali alla giurisdizione dei vescovi latini
  45. ^ Cfr anche l'attuale situazione canonica delle chiese cattoliche orientali dal sito del vaticano
  46. ^ La certosa di Padula
  47. ^ Anche i vertici delle locali gerarchie ecclesiastiche precendentemente avevano contribuito a mettere in cattiva luce il clero provinciale e i privilegi fiscali e feudali degli ordini monastici: l'arcivescovo di Napoli Ascanio Filomarino (in carica dal 1641 al 1666) tentò di restaurare la disciplina tridentina, denunciando aspetti troppo licenziosi degli ambienti ecclesiastici partenopei, la cattiva gestione del foro ecclesiastico e l'ignoranza delle nuove dottrine giuridiche e filosofiche diffusa fra il basso clero.
  48. ^ Galasso G., Napoli spagnola dopo Masaniello, pp. 51-59, Sansoni ed., Firenze 1982
  49. ^ Galasso G., Napoli spagnola dopo Masaniello, pp. 615 sgg., pp. 642 sgg, Sansoni ed., Firenze 1982.
  50. ^ Granito A., Storia della congiura del Principe di Macchia e dell'occupazione fatta dalle armi austriache del regno di Napoli nel 1707, Stamperia dell'Iride, Napoli 1861
  51. ^ G. De Giovanni, Il Giansenismo a Napoli nel sec. XVIII, Asprenas I, 1954
  52. ^ Recuperati G., L'esperienza religiosa e civile di P. Giannone, Ricciardi ed. Napoli 1970
  53. ^ Binni W., L'Arcadia e il Metastasio, La Nuova Italia, Firenze 1963
  54. ^ Di Vittorio G., Gli austriaci e il Regno di Napoli 1707 - 1734, I pp 9-17, Giannini ed., Napoli 1969. Secondo i dati del Di Vittorio le somme incassate da tali feudi ammontano a circa 200.000 ducati.
  55. ^ Di Vittorio G., Gli austriaci e il Regno di Napoli 1707 - 1734, I pp 56, Giannini ed., Napoli 1969
  56. ^ Il progetto fu boicottato per l'interesse economico di numerosi funzionari di stato e dei feudatari che ruotava attorno al mantenimento del debito pubblico. Zilli I., Carlo di Borbone e la rinascita del regno di Napoli. Le finanze pubbliche, 1734-1742 (pp. 231-243), ESI ed., Napoli 1990.
  57. ^ Stenitzer P., Il conte Harrach viceré a Napoli (1728-1733), pp. 43-55, in Settecento napoletano. Sulle ali dell'aquila imperiale 1707-1734, Catalogo della Mostra, Electa ed., Napoli 1994.
  58. ^ Garms Cornides E., Il regno di Napoli e la monarchia austriaca, in Settecento napoletano. Sulle ali dell'aquila imperiale 1707-1734, p. 26, Catalogo della Mostra, Electa ed., Napoli 1994
  59. ^ Schipa M., Il regno di Napoli al tempo di Carlo di Borbone, vol II, pp. 103-114, Società editrice Dante Alighieri, Milano-Roma-Napoli 1923
  60. ^ Croce B., Storia del Regno di Napoli, Adelphi ed., Milano 1992
  61. ^ Lioy G., L'abolizione dell'omaggio della chinea, Archivio Storico per le Province Napoletane, VII, 1822
  62. ^ Di Biasio A., Territorio e viabilità nel Lazio meridionale. La rete stradale degli antichi distretti di Sora e Gaeta dal tardo settecoento all'Unità, Rassegna Storica Pontina I, 1993
  63. ^ *Croce B., La rivoluzione napoletana del 1799. Biografie, racconti e ricerche, pagg. 199-220, Bari, Laterza, Bari 1961.
  64. ^ Simoni A., L'esercito napoletano dalla minorità di Ferdinando alla Repubblica del 1799, in Archivio storico per le Province Napoletane, XLVI, 1921, pp 170-195
  65. ^ Croce B., La rivoluzione napoletana del 1799, pagg 361-439, Laterza ed., Bari 1961
  66. ^ Croce B., La rivoluzione napoletanan del 1799, pagg 301-315, Laterza ed., Bari 1961
  67. ^ Ai vescovi delle diocesi dell'ex regno di Napoli che aderirono alla repubblica fu dato come riferimento dottrinale per un nuovo orientamento teologico il passo della lettera di San Paolo ai Romani in cui l'apostolo esorta i cristiani ad obbedire innanzi tutto all'autorità costituita (Romani, XIII 1-7), cfr. Pieri P., Il clero meridioanle nella rivoluzione francese del 1799, in Rassegna Storica del Risorgimento, XVII, 1930, pagg 180-186
  68. ^ Rao A. M., Napoli 1799-1815. Dalla Repubblica alla monarchia amministrativa, Napoli, del Sole ed. 1995. Rao A. M., La Repubblica napoletana del 1799, Newton & Compton ed., Roma 1997., in particolare pagg. 470-475
  69. ^ Blanch L., Scritti storici. Il Regno di Napoli dal 1801 al 1806 e la campagna del Murat nel 1815, a cura di Benedetto Croce, vol. I, pp 36-41
  70. ^ Rao A. M., La prima restaurazione borbonica in «Storia del Mezzogiorno», in particolare pagg. 543-560, vol. IV, tomo II, Il Regno dagli Angoini ai Borboni, Roma 1986.
  71. ^ a b Villani P., Il Decennio francese in «Storia del Mezzogiorno», vol. IV, tomo II, Il Regno dagli Angoini ai Borboni, Roma 1986.
  72. ^ Documento ufficiale con il titolo di Gioacchino Murat
  73. ^ «Codice Napoleone», articoli 220-301.
  74. ^ Tallarico M. A., Il vescovo Bernardo della Torre e i rapporti Stato-Chiesa nel Decennio francese (1806-1815), in Annuario dell'Istituto Storico Italiano per l'Età Moderna e Contemporanea, XXVII-XXVIII, 1975-1976, pag. 316
  75. ^ Pinelli V., L'occupazione francese, in Quaderni di ricerche su Isola del Liri, XI, pagg 44-45, Isola del Liri 1988
  76. ^ Spinosa A., Murat. Da stalliere a Re di Napoli, Mondadori ed., Milano 1984.
  77. ^ Un documento del governo di Murat a Forlì
  78. ^ Il testo e l'immagine del proclama di Rimini
  79. ^ Tra le clausole del trattato, in cui Pietro Colletta rappresentò la parte napoletana, c'era la possibilità per Murat, che sembrava avesse manifestato l'intenzione di abdicare, di far ritorno in Francia, suo paese natale.
  80. ^ Valente A., Gioacchino Murat e l'Italia meridionale, Einaudi, Torino 1976
  81. ^ Postigliola A., Dizionario Biografico Italiano, 18, pp. 452-459
  82. ^ Feola R., Donato Tommasi tra Illuminismo e Restaurazione: aspetti e problemi della riforma della legislazione nelle Due Sicilie, in «Archivio Storico per le Province Napoletane», III serie, vol. X, 1971, pp. 9-110
  83. ^ Blanch L., Luigi de' Medici come uomo di stato e amministratore, in «Archivio Storico per le Province Napoletane», XI, 1925, pp. 105-115, 181-185
  84. ^ Rienzo M. G., Il processo di cristianizzazione e le missioni popolari nel Mezzogiorno. Aspetti istituzionali e socio-religiosi, in Galasso G. & Russo C., Per la storia sociale e religiosa del Mezzogiorno d'Italia, I, Napoli 1980, pp 195-226
  85. ^ Antonio Canosa propose anche di armare la setta Caroliniana, una società segreta sorta contro il dilagare della carboneria nel Mezzogiorno, contro i moti del 1821 scoppiati a Napoli., cfr Postigliola A., cit.
  86. ^ Banca d'Italia - Museo della Moneta
  87. ^ AA.VV., Atlante Storico Mondiale DeAgostini a cura di Cesare Salmaggi, Istituto Geografico De Agostini, Novara 1995 (vedi anche bibliografia e note)
  88. ^ Simoncini G. (a cura di), Il regno di Napoli, vol. II, Sopra i porti di mare, Pisa 1993
  89. ^ Valente A., Gioacchino Murat e l'Italia meridionale, Einaudi, Torino 1976
  90. ^ bolla Romanus Pontifex di Papa Pio IV (16 febbraio 1564)
  91. ^ Garms Cornides E., Il regno di Napoli e la monarchia austriaca, in Settecento napoletano. Sulle ali dell'aquila imperiale 1707-1734, pp. 17-34, Catalogo della Mostra, Electa ed., Napoli 1994
  92. ^ G. De Giovanni, Il Giansenismo a Napoli nel sec. XVIII, Asprenas I, 1954
  93. ^ Montorio S., Lo Zodiaco di Maria, Zodiaco di Maria, ovvero Le dodici province del Regno di Napoli, come tanti segni, illustrate da questo sole per mezzo delle sue prodigiosissime immagini, che in esse quasi tante stelle risplendono, Napoli 1715
  94. ^ AA.VV., Riformatori napoletani, a cura di F. Venturini. Classici Ricciardi, tomo III, 1962.
  95. ^ fra cui il poeta Benedetto Garreth che in Italia compose il suo canzoniere in lingua catalana.
  96. ^ Croce B., Saggi sulla letteratura italiana del Seicento. Laterza ed., Bari 1911.

[modifica] Bibliografia

  • AA.VV., Atlante Storico Mondiale DeAgostini a cura di Cesare Salmaggi, Istituto Geografico De Agostini, Novara 1995.
  • AA.VV., Riformatori napoletani, a cura di F. Venturini. Classici Ricciardi, tomo III, 1962.
  • Boccia A., A sud del Risorgimento,Ed.Tandem, Lauria 1996.
  • Croce B., Storia dell'età barocca in Italia. Pensiero. Poesia e letteratura. Vita morale. Laterza ed., Bari 1929.
  • Croce B., Saggi sulla letteratura italiana del Seicento. Laterza ed., Bari 1911.
  • Croce B., Storia del Regno di Napoli, Adelphi ed., Milano 1992
  • Croce B., La rivoluzione napoletana del 1799. Biografie, racconti e ricerche, Bari, Laterza, Bari 1961.
  • De Giovanni G., Il Giansenismo a Napoli nel sec. XVIII, Asprenas I, 1954.
  • Farina F. & Vona I., L'organizzazione dei Cistercensi nell'epoca feudale , Casamari ed, 1988 Casamari di Veroli (FR).
  • Galasso G., Storia d'Italia, vol 15, tomo I (in particolare pp. 311-557 e 847-861), Torino 1992.
  • Granito A., Storia della congiura del Principe di Macchia e dell'occupazione fatta dalle armi austriache del regno di Napoli nel 1707, Stamperia dell'Iride, Napoli 1861.
  • Giannone P., Storia civile del Regno di Napoli, 1723.
  • Houbenn H., Vetere B., I Cistercensi nel Mezzogiorno medievale, Lecce 1994.
  • Pepe G., Il Mezzogiorno d'Italia sotto gli Spagnoli, Sansoni ed., Firenze 1952.
  • Rao A. M., Napoli 1799-1815. Dalla Repubblica alla monarchia amministrativa, Napoli, del Sole ed. 1995.
  • Rao A. M., La Repubblica napoletana del 1799, Newton & Compton ed., Roma 1997.
  • Rao A. M., La prima restaurazione borbonica in «Storia del Mezzogiorno», vol. IV, tomo II, Il Regno dagli Angoini ai Borboni, Roma 1986.
  • Villani P., Il Decennio francese in «Storia del Mezzogiorno», vol. IV, tomo II, Il Regno dagli Angoini ai Borboni, Roma 1986.
  • Valente A., Gioacchino Murat e l'Italia meridionale, Einaudi, Torino 1976

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