Web - Amazon

We provide Linux to the World

ON AMAZON:


We support WINRAR [What is this] - [Download .exe file(s) for Windows]

CLASSICISTRANIERI HOME PAGE - YOUTUBE CHANNEL
SITEMAP
Audiobooks by Valerio Di Stefano: Single Download - Complete Download [TAR] [WIM] [ZIP] [RAR] - Alphabetical Download  [TAR] [WIM] [ZIP] [RAR] - Download Instructions

Make a donation: IBAN: IT36M0708677020000000008016 - BIC/SWIFT:  ICRAITRRU60 - VALERIO DI STEFANO or
Privacy Policy Cookie Policy Terms and Conditions
Dialetto romanesco - Wikipedia

Dialetto romanesco

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Riconoscendo l'arbitrarietà delle definizioni, si è deciso a seguito di discussioni di usare nella nomenclatura delle pagine il termine lingua per quelle riconosciute come tali nella codifica ISO 639-1, ISO 639-2 oppure ISO 639-3, approvata nel 2005. Per gli altri idiomi viene usato il termine dialetto.

Dialetto Romanesco ()
Creato da: {{{creatore}}} nel {{{anno}}}
Contesto: {{{contesto}}}
Parlato in: Italia
Regioni:Parlato in: Lazio
Periodo: {{{periodo}}}
Persone: ~2.000.000
Classifica: Non nei primi 100
Scrittura: {{{scrittura}}}
Tipologia: {{{tipologia}}}
Filogenesi:

Indoeuropee
 Italiche
  Romanze
   Italo-orientali
    mediani
     Dialetto romanesco
      
       
        
         
          
           
            
             
              

Statuto ufficiale
Nazioni: -
Regolato da: nessuna regolazione ufficiale
Codici di classificazione
ISO 639-1 {{{iso1}}}
ISO 639-2 rmc
ISO 639-3 rmc  (EN)
SIL {{{sil}}}  (EN)
SIL {{{sil2}}}
Estratto in lingua
Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo - Art.1
Il Padre Nostro
Traslitterazione
{{{traslitterazione}}}
Lingua - Elenco delle lingue - Linguistica
Il logo di Wikipedia Visita la Wikipedia [[:{{{codice}}}:|in Dialetto romanesco]]!
Il logo di Wikipedia Visita la Wikipedia [[:{{{codice2}}}:|in {{{nome2}}}]]!
Il logo di Wikipedia Visita la Wikipedia [[:{{{codice3}}}:|in {{{nome3}}}]]!
{{{mappa}}}
Questa pagina potrebbe contenere caratteri Unicode.
Poesia di Trilussa
Poesia di Trilussa

Ciò che oggi intendiamo per dialetto romano (o romanesco) è qualcosa di molto simile all'italiano, tanto da essere considerato più una "parlata" che un dialetto vero e proprio. Esso appartiene al gruppo dei dialetti mediani ma con forti influenze toscane, portate in città dagli immigrati di questa zona all'indomani del 1527, quando Roma fu aggredita e spopolata dalle devastazioni dei Lanzichenecchi. La grammatica non si distacca di molto da quella italiana, ed un italofono può capire buona parte di un discorso in romanesco. È una lingua popolare in continuo sviluppo, ricca di espressioni e modi di dire. Attualmente il vecchio romanesco, quello del Belli, si evolve in nuove forme e modi di dire che rispecchiano la complessità della vita odierna rispetto a quella del passato.

Indice

[modifica] Cenni storici

Stando alle fonti scritte,[1] la lingua che si parlava a Roma nel Medioevo era assai più vicina al volgare napoletano che a quello fiorentino.

[modifica] Il romanesco e l'italiano: varianti e diffusione sul territorio

Il romanesco è un idioma che ha origini sensibilmente differenti dal resto degli idiomi laziali: non appartiene infatti al gruppo dei dialetti laziali veri e propri, nati perlopiù nel medioevo dall'evoluzione e dalla mescolanza delle parlate latine volgari, in cui era predominante nella pronuncia e nei fenomeni dialettali la componente dei substrati linguistici pre-romani. A differenza del sistema dei dialetti laziali (affini al gruppo umbro-marchigiano) il dialetto romanesco non affonda le proprie radici nel toscano, ma nelle particolarità mediane di questa lingua che solo nel Cinquecento verrà assai influenzata dal toscano anche a livello parlato importato a Roma a partire dal Quattrocento e progressivamente sovrappostosi all'originale parlata di tipo laziale. Per queste ragioni il romanesco è molto più affine all'italiano di tutti gli altri dialetti autoctoni del Lazio: in generale una frase in romanesco è sempre comprensibile ad un parlante italiano, diversamente da quanto accade per i dialetti laziali che richiedono una certa pratica e attenzione (se non addirittura, in certi casi, lo studio) per essere capiti dai non-parlanti.

Confinato all'area della città di Roma fino alla fine dello Stato pontificio (se si escludono ipotizzate comunità in importanti città limitrofe, come Civitavecchia), quando la città divenne capitale del nuovo stato nazionale, le successive ondate di immigrazione e l'incremento crescente della popolazione residente cominciarono ad alterare profondamente il canone linguistico che possiamo desumere dal Belli.

Nel novecento, con la crescita della città capitale e degli spostamenti da e verso di essa, alcuni usi propri del lessico e dell'accento romani cominciarono a diffondersi nelle aree contermini della provincia romana che comprendeva a quei tempi il territorio pontino, fino a raggiungere nel secondo dopoguerra (anni settanta) aree e città delle province limitrofe di Frosinone, Rieti e Viterbo, grazie anche a fenomeni crescenti di pendolarismo lavorativo.

Questa espansione in ampiezza delle caratteristiche più essenziali del linguaggio romano, corrispondente anche al modificarsi della struttura urbanistica della città, sempre più - inevitabilmente - proiettata fuori dalle mura, è stata accompagnata da un pari impoverimento delle risorse lessicali e idiomatiche che costituivano l'identità del dialetto.

La diffusione attraverso la televisione nazionale prima di film poi di programmi di intrattenimento, "parlati" in un linguaggio decisamente caratterizzato da un accento presunto romanesco, ha infine dato il colpo di grazia al dialetto ed al suo uso intesi in senso proprio, sicché si può tranquillamente affermare che le ultime cose scritte in dialetto romanesco siano quelle di Cesare Pascarella.

Nell'area della bassa campagna romana e dell'agro pontino (oggi zone di Latina ed Aprilia), negli anni trenta bonificate e colonizzate con l'immigrazione di consistenti gruppi di pionieri provenienti dall'italia settentrionale (comunità veneto-pontine), storicamente e culturalmente poco portate alla conoscenza ed all'uso della lingua italiana ma soprattutto sottoposte ad una particolare struttura sociale di "nuova" costituzione, il dialetto romanesco fu all'inizio percepito come idioma "superiore", in quanto era la lingua della (pur piccola) classe impiegatizia e dirigenziale, l'unica sostanzialemente alfabetizzata, quindi percepita lingua del comando oltre che decisamente più simile all'italiano rispetto sia alle parlate proprie (Veneto, Emiliano ed addirittura Friulano) sia alle parlate locali (dialetti Lepini ed Albani). A partire dagli anni cinquanta questo "neodialetto" prese quindi il sopravvento - in una forma abbastanza cristallizzata - sulle parlate originarie nei grandi centri urbani, per poi estendersi progressivamente a tutti i centri della pianura che gravitano su Latina, spesso affiancato all'uso della propria lingua d'origine relegato all'ambito familare, in una sorta di condizione di parziale plurilinguismo.

È per ciò che il dialetto romanesco di Latina e dell'area pontina è sensibilmente diverso dal resto delle parlate diffusesi nel Lazio, risultando molto più vicino al Romanesco originario degli anni '30 rispetto alle altre parlate che invece risentono di più del romanesco moderno.

Secondo alcuni per certi aspetti il dialetto romanesco di Latina, per quanto meno "stretto" (ossia molto più vicino all'italiano), è più vicino a quello del Belli e di Trilussa, di quanto non risultino vicine oggi le parlate romanesche diffuse nella città stessa di Roma.

[modifica] Fonetica

Il romanesco appartiene al gruppo dei dialetti centrali, ed ha forti influssi del toscano.

Il vocabolario del dialetto di Roma è quasi interamente uguale a quello italiano, le parole differiscono però a causa di alcuni cambiamenti fonetici, i principali sono i seguenti:

  • il rotacismo, ovvero il cambio della /l/ in /r/ quando è seguita da consonante (es: dorce)
  • il cambio del suono della “s” preceduta da consonante, in “z” col suono /ts/ (es: perzona /per’tso:na/; "sole"="sole" ma "il sole"="er zole")
  • il cambio del suono /nd/ in /nn/ (es: quanno) processo noto come "assimilazione progressiva". Gli altri due casi di assimilazione progressiva in romanesco sono il cambio /ld/ in /ll/ (es: callo) e il cambio /mb/ in /mm/ (es: piommo).
  • l’indebolimento della doppia “r”, che non esiste in romanesco (es: azzuro, verebbe; riassunto nel noto detto: "Tera, chitara e guèra, co' ddu' ere, sinnò è erore"...)
  • il dittongo “uo” dell'italiano in romanesco si riduce in “ò” (es: bòno =buono; còre = cuore)
  • la scomparsa delle vocali in inizio parola quando seguite da “n” ed "m" nasale (es: ‘ndicà = indicare ; ‘n = un / in ; "'mparà" = imparare)
  • la riduzione di “gli” in “jj” o “j” o la sua totale scomparsa (es: maja = maglia; famija = famiglia; fijjo,fio = figlio)
  • la vocalizzazione della “l” negli articoli, nelle preposizioni articolate, e nelle parole in cui è preceduta e seguita da “i” (es: ‘o ‘a ‘e = lo la le; dô dâ â ao = dello della alla allo; mïone = milione; bïardo = biliardo; ojo = olio)
  • la vocalizzazione della “v” quando è intervocalica, essa diventa una lettera quasi muta che viene a pronunciarsi quasi come /β/ od a scomparire totalmente (es: “uva” quasi si pronuncia /’u:a/. La 2a e 3a persona plurale del verbo avé (avere) “avemo, avete” diventano “amo, ate”)
  • il cambio del gruppo "ng" in "gn" (es: "piagne" = piangere)
  • il raddoppiamento delle consonanti in inizio parola se precedute da parole tronche (esattamente come in italiano), ed il suono della “b” che si pronuncia quasi sempre come se fosse doppia (es: Chi è cche pparla?; Ammazza che bbòna!)
  • l'utilizzo della particella “ne” come rafforzativo di affermazioni e negazioni (es: Sine = sì, sicuramente; None = no, per nulla!)
  • il cambio del suono della "c" dolce, quando si trova in posizione intervocalica, in "sc" (es: cucina = "cuscina", dieci = "diesci") con valore più debole rispetto al medesimo nesso "sc" dell'italiano, cui in romanesco il Belli faceva invece corrispondere il nesso "ssc" da lui ideato (es: pesce = "pessce").

[modifica] Accentuazioni grafiche

Graficamente l'accento tonico romanesco di chiusura e apertura delle vocali viene riportato secondo gli accenti grafici italiani (quindi "è" si leggerà come "cioè" mentre "é" si pronuncia come in "perché").

Adattando le apocopi (di cui il romanesco abbonda) rispetto allo standard italiano si permette la lettura del romanesco anche a chi non sia madrelingua. Ricordo che nel romanesco è prassi privare l’infinitivo delle ultime due lettere ("-re") attraverso un troncamento, che nelle coniugazioni ove si rappresenti graficamente con un apostrofo, foneticamente suona come un accento grave (come capita con l’italiano “po’”). Non va però dimenticato che il romanesco non ha solo 3 coniugazioni come l’italiano: “béve” e “piace’” in italiano appartengono alla seconda, mentre nel romanesco seguono coniugazioni e regole diverse.

Alcune precisazioni sono d’obbligo.

1) L’accento circonflesso "^" che si può trovare sopra le vocali “e”, “a”, “i” ed “o” ne allunga il suono e quindi “ê”, “â”, “î” e “ô” suoneranno come “ee”, “aa”, “ii” ed “oo”. In genere si utilizzano negli articoli, per assorbire la “l”. Spesso invece dell’articolo italiano “i” si scrive “î”: questo si spiega perché l’originale articolo romanesco sarebbe “li”. Per il resto “dê” è in italiano “delle”, “dâ” è “della”, ma anche “dalla”; poi “jâ” sta per “gliela”, “sô” per “se lo”, “ciô” per “ce lo”, “cô” (“câ”) per “con lo” (“con la”), “quô” per “quello”, “nâ” per “non la”, “tê” per “te le”, “tô” per “te lo”, “nô” per “nello”, ecc.

2) Da notare che le parole “ po’ ” e “ pò ” sono omofone, ma sono tra loro diverse: la prima è scritta ed ha lo stesso significato che si ha in italiano; “pò” invece è il romanesco per “può”.

3) Il verbo “ sta ” (terza persona singolare di stare) è diverso da “ ‘sta ”, che significa “questa”.


L’abbondante uso di accenti (soprattutto di quello circonflesso) e di apostrofi non sempre è riscontrabile nelle Fonti (soprattutto dei Maestri Belli e Trilussa), e quindi più che criticabile e migliorabile. Spesso alcuni testi riportano i verbi troncati scritti con l’accento grafico grave sull’ultima vocale; alcune fonti riportano l’articolo determinativo scritto con un apostrofo prima della vocale (‘a) piuttosto che con quello circonflesso (â). Seguendo l’esempio del Maestro Gioachino Belli, tra i primi a trascrivere la parlata Romana, in questo contesto si è preferito concentrarsi sul suono (che è lungo), mentre per i verbi si predilige la genesi della parola (visto che il risultato “sonoro” è lo stesso).

Alcune parole in romanesco: Perziche, maregnane, bricoccole, sgommarello, ciangottà, sfragne, ariccoje, fiottà, rugà, bavarola, lagna, ariscote, lassà, cuccumo, bocio, incecalì ecc...

[modifica] Grammatica

Per approfondire, vedi la voce Grammatica del romanesco.

Essendo uno dei dialetti d’Italia che meno si discostano dall’Italiano standard, la grammatica del romano non è molto differente da quella dell’italiano. Esistono comunque a volte delle differenze importanti, per le quali si rimanda allo specifico articolo.

[modifica] Il romanesco nell'arte

Il dialetto tradizionale di Roma ha una sua importanza sia letteraria che "culturale"

Per approfondire, vedi la voce Il romanesco nell'arte.

[modifica] Il romanesco del popolo

[modifica] Il vernacolo romanesco

Una tra le principali caratteristiche dell’espressione classica vernacolare del dialetto romano è la quasi totale mancanza di inibizioni linguistiche, presentandosi quindi estremamente ricca di termini e frasi particolarmente colorite, usate liberamente e senza ricorrere ad alcun tentativo di soppressione o sostituzione con sinonimi o concetti equivalenti. L’autocensura che induce alla soppressione o all’edulcoramento di espressioni comunemente ritenute “volgari” o “sconce” è totalmente sconosciuta nel contesto del dialetto romanesco. Se infatti, nell’uso della lingua non dialettale, il ricorso al turpiloquio è generalmente causato da particolari situazioni e viene usato come valvola di scarico di uno stato di aggressività temporaneo, nel dialetto romanesco la parolaccia è parte integrante del normale dizionario, ed esiste quindi sempre e comunque.

Questa ricchezza di vocaboli e frasi scurrili e (solo apparentemente) offensivi, deriva verosimilmente da una tradizione linguistica della Roma papalina, in cui il popolano rozzo e incolto (ma nobili e clero non parlavano molto diversamente; vedi, in proposito, l’aneddoto raccontato da Giggi Zanazzo in “Tradizioni popolari”, a proposito del papa parolacciaro Benedetto XIV Lambertini) usava esprimersi con un linguaggio spontaneo e colorito che, trascurando la ricerca di sinonimi e alternative concettuali, manifesta quella praticità espressiva di utilizzo verbale che è caratteristica principale del bagaglio culturale popolare.

Tale spontaneità è quindi priva di inibizioni ed affida la ricchezza dell’espressione non tanto alla scelta del vocabolo quanto piuttosto alla sonorità, al significato convenzionale e, spesso, al contesto. In questo senso nel dialetto romanesco la parolaccia, la sconcezza o la bestemmia (il “moccolo”) nella maggior parte dei casi prescinde assolutamente dal suo significato letterale o comunque offensivo e – caratteristica frequente tra gli appartenenti al medesimo gruppo linguistico-dialettale – assume un senso simbolico comunemente accettato e riconosciuto. Così è del tutto normale che una madre richiami il figlio con un “vviè cqua, a fijo de ‘na mignotta!” senza sentirsi minimamente coinvolta in prima persona ma affidando all’insulto (e autoinsulto) il significato di un semplice rafforzativo del richiamo. In modo analogo, incontrando una persona la si può salutare con un “Ahò, come stai? Possin’ammazzatte!” in cui l’apparente incoerenza tra l’informarsi del suo stato di salute e contemporaneamente l’augurare una morte violenta è da entrambi gli interlocutori riconosciuta come una normale espressione di cordialità. Simile come concetto, ma ben diverso nell’uso e nel significato, è il “va’ mmorì ammazzato!” (spesso accompagnato da un significativo gesto con il braccio) che viene solitamente utilizzato a suggello conclusivo e dimostrativo della forte disapprovazione di un atteggiamento o di un discorso altrui. Sullo stesso tema una coloratissima espressione coniata dal Belli storpiando l’originale frase latina: “requie schiatt’in pace!” che, lungi dall’augurare a qualcuno di "schiattare", usa un po’ di cattiveria per mandarlo semplicemente a quel paese. Non diverso è il tono ed il significato di “possi campà quanto ‘na scureggia!”.

La diversa sonorità con cui viene pronunciato un vocabolo, unita all’uso del medesimo in un contesto piuttosto che in un altro (e, magari, ad una adeguata mimica facciale o gestuale), può in qualche modo supplire ad una certa limitatezza linguistica, fornendo allo stesso vocabolo significati del tutto opposti; così, ad esempio, chi ha un’idea geniale è un “gran paraculo” (complimento), ma il furbo imbroglione è ugualmente un “gran paraculo” (dispregiativo).

[modifica] La terminologia "sconcia" nel vernacolo romanesco

In un contesto linguistico che privilegia il ricorso alla frase volgare e colorita, una posizione di rilievo è ovviamente assunta dal frequente ricorso, nel vernacolo romanesco, al richiamo di parti anatomiche e sessuali, usato anche in questo caso senza alcun preciso riferimento al significato intrinseco (comunque volgarizzato) del termine. Abbiamo così “ciccia ar culo!” (=”non me ne importa niente”) e “bucio de culo”, anche semplicemente “bucio” o “culo”, sempre traducibile con “fortuna”, spesso accompagnato dall’inequivocabile gesto dell’indice e pollice aperti delle due mani, che precisano la maggiore o minore quantità di buona sorte in funzione dell’ampiezza della circonferenza che suggeriscono. Da notare che lo stesso significato verbale viene assegnato anche al solo gesto."Culo pesante" invece indica semplicemente la pigrizia

L’adulatore è un “leccaculo”, e quando subisce passivamente una prepotenza o si sottomette pavidamente alle situazioni o alle persone, magari scendendo a compromessi poco dignitosi, si “appecorona” (=si mette carponi). Un individuo particolarmente sfrontato e dotato di faccia tosta e quindi privo di vergogna, ha la “faccia com’er culo” che dovrebbe pertanto provvedere a nascondere. Il dialetto romanesco, che non si preoccupa di cercare sinonimi per frasi “indecenti”, mostra di possedere invece una grande dose di fantasia nel trovare forme alternative a concetti sconci, che lasciano però inalterata l’immagine originaria; così, lo stesso significato della frase precedente viene illustrato da locuzioni come “fasse er bidè ar grugno”, “mettese le mutanne in faccia” o “soffiasse er naso co’a cart’iggienica”. Sempre sullo stesso soggetto troviamo “pijà p’er culo” (=prendere in giro), “arzasse cor culo pell’insù” (=svegliarsi di cattivo umore), “vàttel’ a pijà ‘n der culo” (come “va’ mmorì ammazzato!”),“avecce er culo chiacchierato” (essere tacciato di omosessualità), e “rodimento de culo” (=nervosismo, arrabbiatura). Di quest’ultima espressione esiste una variante estremamente raffinata, a dimostrazione dei livelli di fantasia e disinibizione che il popolano romano è in grado di raggiungere nella trasposizione concettuale del vernacolo: “che te rode, 'a piazzetta o er vicolo der Moro?”. A Roma, nel quartiere Trastevere, il vicolo o via del Moro è una strada stretta e piuttosto poco luminosa che collega tra di loro piazza Trilussa e piazza Sant’Apollinare; la frase precedente è pertanto una trasformazione abbastanza intuitiva del concetto che verrebbe altrimenti espresso con un '“che te rode, er culo o er bucio der culo?”.

Il termine “cazzo” viene usato soprattutto come rafforzativo in frasi esclamative (“ma che cazzo stai a ffà!”) , dove si esprime anche un accenno di disappunto, e un po’ meno nelle interrogative (“’ndo cazzo stai a annà?” = “dove vai?”). Usato da solo è un’esclamazione che esprime sorpresa e meraviglia. Altro frequentissimo significato del vocabolo è quello di “assolutamente nulla” (“nun capisci 'n cazzo!”, “nun me frega 'n cazzo!”, ecc.). Varianti del termine sono la “cazzata!”, col preciso significato, derivato dal precedente, di “sciocchezza”, “stupidaggine”, “roba di poco conto”; “cazzaro”, chi fa o dice cazzate; “incazzatura” (=arrabbiatura); “cazzaccio” o “cazzone”, individuo stupido o insignificante. Quest’ultima lettura viene anche associata, in modo molto più colorito, all’epiteto “testa de cazzo”, che assume però una connotazione più pesante, al limite dell’insulto. L'espressione "E sti cazzi?" indica il disinteresse, senza la "E" iniziale e l'interrogativo ha svariati usi -persino contraddittori- derivati dal contesto

Abbondante anche l’uso e le relative variazioni su “cojone”, propriamente individuo stupido e incapace, da cui “a cojonella” (=per scherzo, per gioco), “cojonà” (= prendere in giro, con una sfumatura di significato meno forte di “pijà p’er culo”), “me cojoni!” (=perbacco!, addirittura!, davvero!), da non confondere con la forma verbale precedente, che assumerebbe il significato di “mi stai prendendo in giro!”, “rompicojoni” (=rompiscatole, fastidioso, noioso), “un par de cojoni” (=assolutamente nulla) e la minaccia “nun rompe li cojoni” rivolta a chi sta recando fastidio e disturbo al limite della sopportazione. A dimostrazione di quanto la terminologia grossolana del dialetto romanesco sia svincolata dal significato intrinseco del vocabolo si pone la frase “avecce li cojoni” che è indifferentemente attribuito a uomini e donne nel senso di persona estremamente brava, preparata o dotata in un particolare settore.

Il linguaggio vernacolare non risparmia ovviamente gli attributi femminili. E così: “fregna!” esclamazione di meraviglia ma anche “complimenti!”, “fregnaccia” (=sciocchezza, stupidaggine), “fregnone” (=ingenuo, sempliciotto, ma anche nel senso di troppo buono), “fregnacciaro” (=che le spara grosse, che dice stupidaggini), “fregno” o “fregno buffo” (=coso, attrezzo, oggetto strano) e “avecce le fregne” (=avere i nervi tesi, essere "incazzato").

Persino la prostituzione è parte dell'intercalare ("fijo de na mignotta" può raggiungere alti livelli di cultura col Pasoliniano "fjodena" )

[modifica] Il rapporto con la religione

Il popolano romano ha sempre avuto con la religione, e in particolare con i Santi, un rapporto di enorme rispetto. La santità in quanto tale, ed i valori che essa rappresenta, sono talmente al disopra delle umane bassezze da non poter essere messi in discussione. La cultura popolare è però anche assolutamente infarcita di superstizioni e tradizioni secolari a cui è impensabile rinunciare e che risultano particolarmente evidenti in moltissimi proverbi e modi di dire. La commistione tra il sentimento di rispetto religioso e le superstizioni porta spesso a risultati verbali che sfociano in forme ibride, di tipo paganeggiante, in cui non manca la caratteristica espressione rude e volgare che deriva da un rapporto improntato a semplicità e spontaneità.
Il rapporto che viene stabilito con i Santi, in quanto assolutamente rispettoso e sincero, diventa così di tipo estremamente confidenziale, con la conseguenza che anche il linguaggio non ha alcuna necessità di adeguarsi e riesce pertanto a mantenere quella caratteristica peculiare del dialetto popolare che è la rinuncia alla ricerca di sinonimi e alternative concettuali. E così, esattamente come potrebbe esprimersi per mettere in risalto la bravura e le capacità di un qualsiasi ciabattino che ha bottega nel vicolo dietro casa, il popolano può tranquillamente affermare che “Santa Rosa è ‘na Santa che cià du’ cojoni così!”.
Un posto di rilievo è riconosciuto alla Madonna, in quanto naturale rappresentante dell’istituzione materna (di cui il romano ha una gran considerazione) e in quanto simbolo del riscatto delle origini plebee. L’importanza che il culto mariano ha sempre avuto per il popolo di Roma è tuttora visibile nelle numerose edicole e nicchie contenenti immagini della Madonna ancora oggi sparse sulle facciate delle case della Roma vecchia.

Sebbene abituato all’uso ed all’accettazione di un linguaggio costellato di scurrilità, il romano ha invece un inaspettato e quasi sorprendente rifiuto per la bestemmia, anche se pronunciata come semplice intercalare o senza alcuna intenzionalità. Il rispetto di tutto quanto è sacro e santo è così fortemente radicato da generare nel popolano una strana contrapposizione tra lo spirito parolacciaro ed una forte interdizione religiosa.

Il dubbio di coinvolgere qualche Santo in una imprecazione, e di compromettere quindi la propria coscienza (con tanto di eventuale ritorsione da parte dello stesso) era però talmente consistente che, contravvenendo ad una caratteristica linguistica stabilmente radicata, il romano ha ritenuto di dover ricorrere ad un processo di sostituzione onomastica. Ha quindi inventato tutta una serie di Santi dai nomi fantasiosi, ognuno con un suo ambito, per così dire, di competenza, da utilizzare, secondo le occasioni, per poter imprecare e bestemmiare tranquillamente, senza il timore reverenziale di incorrere in peccato mortale. Così, per un bambino che si fa male cadendo si può lanciare un “mannaggia santa Pupa!” protettrice, appunto, dei bambini (i pupi); all’indirizzo di un distratto, o a seguito di una disattenzione, si può imprecare “San Guercino!”, ecc.. Il fatto che qualcuno di questi nomi possa corrispondere ad un Santo realmente esistito passa in secondo piano, quasi come un caso di involontaria omonimia, ma per essere proprio tranquilli si può sempre ricorrere a un “mannaggia quer Santo che nun se trova!”.

Anche nei confronti della Madonna e del Cristo si è provveduto a sostituzioni o storpiature del nome; non è quindi peccato bestemmiare “Madosca” o “Matina” (i più frequenti) e addirittura “Cristoforo Colombo”.

I nomi dei Santi, di Cristo e della Madonna vengono comunque a volte utilizzati, senza alcun ricorso a mascherature, nell’ambito non blasfemo e non religioso dei detti e proverbi popolari, come rafforzativo del concetto che si vuole esprimere ed a rimarcare la confidenzialità del rapporto che il popolano romano ha con loro, in assoluta tranquillità di coscienza. Qualche esempio: a sottolineare l’assoluta impossibilità di cambiare una decisione irremovibile “nun ce so’ né Cristi né Madonne!” o anche “nun ce so’ Santi!”; una signora eccessivamente ingioiellata “pare ‘a Madonna de le Frattocchie”; sul corpo di una ragazza non particolarmente dotata di curve “c’è passato San Giuseppe co’a pialla”; ad un testardo che non recede dalle proprie convinzioni neanche di fronte all’evidenza si può ricordare che “San Paolo quanno cascò da cavallo disse ‘Tanto volevo scenne’!”; un’opera che sembra non arrivare mai alla conclusione (come la costruzione della Basilica Vaticana) “pare ‘a fabbrica de San Pietro”; uno sbadato che inciampa si può apostrofare con “Santa Lucia! Che nun ce vedi?”; qualcosa di durata molto limitata “dura da Natale a Santo Stefano”; e per concludere, l’ineluttabilità della fine è dimostrata dal fatto che “la morte nun la perdonò nemmanco a Cristo”.

[modifica] Il rapporto con le istituzioni

Se nei confronti del sacro e del santo il popolo romano nutriva i sentimenti della più alta devozione e rispetto, di tutt’altro genere era il rapporto che esisteva col clero e con le istituzioni. Va ricordato, nello specifico, che nella Roma dei papi le istituzioni politiche, civili e religiose erano esattamente coincidenti, come lo erano le persone che queste istituzioni rappresentavano e amministravano. Si verificava quindi uno strano dualismo nei rapporti tra la plebe e il clero (ed i nobili che, per ovvi motivi di interesse e convenienza, erano ben accetti tra le poltrone del potere): ci si inchinava al cospetto del Papa, massima autorità religiosa e riconosciuto rappresentante di Cristo in terra, ma lo si considerava comunque il capo di uno stato assolutista e inquisitore che usava con i sudditi il pugno di ferro ed il boia Mastro Titta o chi per lui; il prete era un ministro di Dio, ma anche l’occhio e l’orecchio del potere; la Chiesa stessa era il “gregge di Dio”, ma anche una struttura statale oppressiva. E il popolo rimaneva l’unica vittima e oggetto di vessazioni e prevaricazioni.

Ecco dunque generarsi tutta una serie di detti e proverbi popolari marcatamente anticlericali, a stigmatizzare l’opinione che, a ragione, il popolano di Roma si era costruita nei confronti delle istituzioni e soprattutto del clero; detti e proverbi nei quali si riscontravano tutti i limiti della condizione umana, in un vasto campionario di peccati e bassezze varie che non si potevano denunciare apertamente ma che risultano più che evidenti in tutta una serie di locuzioni che esprimono, inequivocabilmente e con il solito linguaggio arguto e dissacrante, la considerazione che i romani avevano del potere cui erano sottomessi: “A Roma Iddio nun è trino ma quatrino” , “Chi a Roma vo’ gode’, s’ha da fa frate”, “Indove ce so’ campane, ce so’ puttane”, “Li Santi nun se ponno creà senza quatrini”, “Piove o nun piove, er Papa magna”.

[modifica] Il romanesco a Roma oggi

Per approfondire, vedi la voce Varianti regionali della lingua italiana.

Il romanesco, o secondo alcuni romano, ha conosciuto un'accelerazione della sua evoluzione tra gli anni 1920 e 1930, cioè nel periodo in cui maggiormente la popolazione nata a Roma è stata numericamente surclassata da immigranti provenienti da altre zone d'Italia. Un suo ulteriore sviluppo si è avuto negli anni '50 e '60 sempre a causa di flussi migratori, provenienti principalmente dal centro e sud d'Italia.

Agli anni 1970 e 1980 invece è possibile datare un significativo cambiamento del romanesco, quello di Trilussa e Belli, progressivamente impoveritosi a causa dei grandi stravolgimenti sociali che hanno interessato i quartieri più popolari, dove ancora era possibile incontrare un romanità "pura".
Quartieri come quelli del centro storico, di Trastevere, San Lorenzo, Testaccio, sono stati infatti trasformati da zone tipicamente popolari e basso borghesi a zone di classe e di moda con un massiccio ricambio di popolazione. Un'altra importante causa della morte del romanesco e della ghettizzazione del romano è da ricercarsi in una cinematografia che, a partire dagli anni 1950, neorealismo a parte, ha fatto della lingua romana uno stereotipo di ignoranza, cafonaggine e pigrizia.

Il romanesco moderno viene parlato quotidianamente da quasi tutti gli abitanti dell'area metropolitana di Roma; la maggioranza di essi possiede anche la padronanza della lingua italiana grazie alla forte scolarizzazione, ma essa viene utilizzata più spesso nelle situazioni formali, e risulta meno utilizzata nella vita quotidiana.

Il dialetto romanesco vero e proprio, inoltre, è originario esclusivamente della città di Roma dacché nell'area appena circostante (Velletri, Fiumicino, Frascati,Lanuvio), la parlata autoctona cambia sensibilmente, e il romano lascia il posto alle parlate laziali.

Ormai però anche gli idiomi di queste località della provincia romana si sono modificati; i dialetti per esempio di Velletri o di Frascati, ed in generale di tutti i Castelli Romani, col tempo si sono avvicinati di più a quello romano e similmente è accaduto in grandi città delle province vicine. Solo la gente più anziana del posto parla ancora il dialetto locale, ormai la maggior parte dei giovani ha una parlata più vicina a quella romana moderna.

[modifica] Caratteristiche linguistiche

Il romanesco moderno non si può più assimilare al romanesco del Belli e di Trilussa: è un dialetto con poche differenze con l'italiano standard ed è uno dei dialetti italiani più intellegibili anche da chi non ne abbia conoscenza. Fondamentalmente è caratterizzato da uno scarso uso dei tempi e dei modi verbali (si usano quasi solo presente imperfetto e passato prossimo dell'indicativo), da forti elisioni nei sostantivi e nei verbi e da alcuni raddoppiamenti consonantici.

[modifica] Modi di dire del romanesco moderno

Per approfondire, vedi la voce Espressioni romanesche moderne.

[modifica] Altri progetti

[modifica] Note

  1. ^ Si veda ad esempio la Cronica dell'Anonimo Romano, [1], che narra tra l'altro la vita di Cola di Rienzo

[modifica] Bibliografia

  • P. Carciotto - G. Roberti "L'anima de li mottacci nostri - Parolacce, bestemmie inventate, modi di dire e imprecazioni in bocca al popolo romano" - Grafiche Reali Ed.
  • Giuseppe Micheli, "Storia della canzone romana", Newton & Compton Editori", Ariccia 2005
  • Marco Navigli - Fabrizio Rocca - Michele Abatantuono, Come T'antitoli?, Gremese Editore 1999
  • Marco Navigli - Fabrizio Rocca - Michele Abatantuono, Come T'antitoli 2, Gremese Editore 2000
  • Marco Navigli, But Speak Like You Eat! - Ma parla come magni!, L'Airone 2003
  • TurboZaura, 1000 SMS coatti, Comix-Mondadori 2006

Rugante, "Er vaso e la goccia" -gocce de vita in vasi romaneschi- Betti Editrice 2005

[modifica] Collegamenti esterni

  • G.G.Belli: Duecento sonetti, con prefazione di Luigi Morandi: pubblicato nel 1870, la prefazione offre molte note storico-linguistiche e di costume assai interessanti, sulla Roma appena conquistata dall'Italia: [2].


Dialetto romanesco
Osteria Capitolina
Ai du' gemelli
Static Wikipedia 2008 (March - no images)

aa - ab - als - am - an - ang - ar - arc - as - bar - bat_smg - bi - bug - bxr - cho - co - cr - csb - cv - cy - eo - es - et - eu - fa - ff - fi - fiu_vro - fj - fo - frp - fur - fy - ga - gd - gl - glk - gn - got - gu - gv - ha - hak - haw - he - ho - hr - hsb - ht - hu - hy - hz - ia - id - ie - ig - ii - ik - ilo - io - is - it - iu - jbo - jv - ka - kab - kg - ki - kj - kk - kl - km - kn - ko - kr - ks - ksh - ku - kv - kw - ky - la - lad - lb - lbe - lg - li - lij - lmo - ln - lo - lt - lv - map_bms - mg - mh - mi - mk - ml - mn - mo - mr - ms - mt - mus - my - mzn - na - nah - nap - nds - nds_nl - ne - new - ng - nn - -

Static Wikipedia 2007 (no images)

aa - ab - af - ak - als - am - an - ang - ar - arc - as - ast - av - ay - az - ba - bar - bat_smg - bcl - be - be_x_old - bg - bh - bi - bm - bn - bo - bpy - br - bs - bug - bxr - ca - cbk_zam - cdo - ce - ceb - ch - cho - chr - chy - co - cr - crh - cs - csb - cu - cv - cy - da - de - diq - dsb - dv - dz - ee - el - eml - en - eo - es - et - eu - ext - fa - ff - fi - fiu_vro - fj - fo - fr - frp - fur - fy - ga - gan - gd - gl - glk - gn - got - gu - gv - ha - hak - haw - he - hi - hif - ho - hr - hsb - ht - hu - hy - hz - ia - id - ie - ig - ii - ik - ilo - io - is - it - iu - ja - jbo - jv - ka - kaa - kab - kg - ki - kj - kk - kl - km - kn - ko - kr - ks - ksh - ku - kv - kw - ky - la - lad - lb - lbe - lg - li - lij - lmo - ln - lo - lt - lv - map_bms - mdf - mg - mh - mi - mk - ml - mn - mo - mr - mt - mus - my - myv - mzn - na - nah - nap - nds - nds_nl - ne - new - ng - nl - nn - no - nov - nrm - nv - ny - oc - om - or - os - pa - pag - pam - pap - pdc - pi - pih - pl - pms - ps - pt - qu - quality - rm - rmy - rn - ro - roa_rup - roa_tara - ru - rw - sa - sah - sc - scn - sco - sd - se - sg - sh - si - simple - sk - sl - sm - sn - so - sr - srn - ss - st - stq - su - sv - sw - szl - ta - te - tet - tg - th - ti - tk - tl - tlh - tn - to - tpi - tr - ts - tt - tum - tw - ty - udm - ug - uk - ur - uz - ve - vec - vi - vls - vo - wa - war - wo - wuu - xal - xh - yi - yo - za - zea - zh - zh_classical - zh_min_nan - zh_yue - zu -
https://www.classicistranieri.it - https://www.ebooksgratis.com - https://www.gutenbergaustralia.com - https://www.englishwikipedia.com - https://www.wikipediazim.com - https://www.wikisourcezim.com - https://www.projectgutenberg.net - https://www.projectgutenberg.es - https://www.radioascolto.com - https://www.debitoformativo.it - https://www.wikipediaforschools.org - https://www.projectgutenbergzim.com