Lingue italiche
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Un tempo considerate una famiglia linguistica indoeuropea unitaria, parallela ad altri sottogruppi della grande famiglia linguistica, le lingue italiche in realtà costituisconoprobabilmente due distinti rami della famiglia indoeuropea, entrambi attestati in territorio italico e, di conseguenza, avvicinate da fenomeni di convergenza. Geneticamente, tuttavia, la moderna indoeuropeistica è incline a ritenere che le due branche abbiano avuto un'origine indipendente, quali evoluzioni separate di un vasto continuum indoeuropeo presente in Europa centrale fin dall'inizio del III millennio a.C..
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[modifica] Filogenesi
A rigore, l'etichetta di "Lingue italiche" può essere applicata a qualsiasi lingua parlata nella regione italiana nell'antichità, sia essa di ceppo indoeuropeo o no[1] . In questo senso ampio, sono da considerarsi italiche anche lingue comunemente ritenute non indoeuropee, quali l'etrusco, il retico e la lingua della Stele di Novilara; il ligure è di attribuzione controversa, mentre troppo scarse sono le conoscenze su sicano ed elimo per consentire ipotesi ragionevolmente fondate[2]. Tradizionalmente, tuttavia, si riserva l'espressione di "Lingue italiche" alle solo lingue indoeuropee parlate anticamente in Italia e non appartenenti ad altre famiglie indoeuropee, escludendo quindi il messapico, illirco, e il gallico e il lepontico, celtiche.
Inizialmente, gli indoeuropeisti erano stati inclini a postulare, per le varie lingue indoeuropee dell'Italia antica, un'appartenenza a una famiglia linguistica unitaria, parallela per esempio a quella celtica o germanica; caposcuola di questa ipotesi è considerato Antoine Meillet (1866-1936)[3]. A partire dall'opera di Alois Walde (1869-1924), però, questo schema unitario è stato sottoposto a critica radicale; decisive, in questo senso, sono state le argomentazioni addotte da Vittore Pisani (1899-1990) e, in seguito anche da Giacomo Devoto (1897-1974, che ha postulato l'esistenza di due distinti rami indoeuropei nei quali è possibile inscrivere le lingue italiche. Variamente riformulate negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale, le varie ipotesi relative all'esistenza di due diverse famiglie indoeuropee si sono definitivamente imposte, anche se i tratti specifici che le separano o che le avvicinano, nonché i processi esatti di formazione e di penetrazione in Italia, restano oggetto di ricerca da parte della linguistica storica[4].
Generalmente condiviso, oggi, è uno schema che individua due famiglie linguistiche tradizionalmente raccolte sotto l'etichetta di "Lingue italiche":
- le Lingue osco-umbre o sabelliche, spesso indicate come "Lingue italiche" in senso ristretto, che includono:
- la lingua osca, parlata nella regione centro meridionale della penisola italiana
- lingua volsca
- lingua umbra (da non confondere con i moderni dialetti umbri), parlata nella regione centro settentrionale.
- una serie di dialetti minori imparentati con l'Osco e con l'Umbro tra cui i cosiddetti dialetti sabellici come:
- peligno,
- marrucino,
- vestino,
- sabino,
- marso,
- piceno, ecc..
- la lingua osca, parlata nella regione centro meridionale della penisola italiana
- le Lingue veneto-latine o latino-falische, che comprendono:
- Lingua falisca, parlata nella zona intorno a Falerii Veteres (la moderna Civita Castellana) a nord della città di Roma
- Lingua latina, parlata nell'Italia centro occidentale, e che le conquiste romane diffusero ovunque nell'Impero ed oltre.
- Lingua venetica, parlato nell'Italia nordorientale dai Veneti.
[modifica] Quadro storico
I parlanti le lingue Italiche non erano nativi dell'Italia, ma migrarono nella penisola italiana verso la fine del II millennio a.C.. Archeologicamente, la cultura appenninica (inumazione) penetra nella penisola italiana a partire ca. dal 1350 a.C., da est verso ovest; l'età del ferro raggiunge l'Italia ca. dal 1100 a.C., con la cultura Villanoviana (cremazione), penetrando da nord a sud. Prima dell'arrivo degli Italici, l'Italia era popolata soprattutto da gruppi non Indo-Europei (forse compresi gli Etruschi). I primi insediamenti sul Palatino datano a ca. il 750 a.C., gli insediamenti sul Quirinale a ca. il 720 a.C. (cfr. Fondazione di Roma).
Le lingue Italiche sono attestate per la prima volta da iscrizioni latine che datano al VI o V secolo a.C.. Gli alfabeti usati sono basati sul vecchio alfabeto italico, che è basato sull'alfabeto greco. Le lingue Italiche mostrano influenze minori della lingua Etrusca e qualcuna in più dal Greco antico.
Appena Roma estese il suo dominio politico sull'intera penisola italiana, il latino divenne dominante sulle altre lingue italiche, che cessarono completamente di essere parlate forse nel I secolo d.C.. Dal cosiddetto latino volgare emersero le lingue romanze o neolatine.
L'antica lingua venetica, come rivelato dalle iscrizioni (che comprendono anche frasi complete) è considerato da molti linguisti essere molto vicino alle lingue Italiche ed a volte è persino classificata come Italica.
[modifica] Lingua osca
Osco è il glottonimo con il quale viene indicata la lingua dei Sanniti, lingua poi estesa a gran parte dell'Italia meridionale dopo l'espansione delle genti sannitiche in queste zone. I Sanniti erano popolazione assai affine ai Sabini ed ai Sabelli, come il nome stesso dichiara; oltre ai Sanniti in senso stretto, appartevano a questo ramo anche i Frentani e gli Irpini. L'osco fu, dunque, parlato in Lucania, nel Bruzio (tranne sulla costa, sulla quale erano da tempo stanziati i Greci) e a Messina in Sicilia, in seguito all'impresa dei (Mamertini). I Sanniti occuparono anche la Campania (nel 423 a.C. Capua e nel 420 a.C. Cuma): in questa occasione sottomisero la popolazione degli Osci, di origine non sannitica, a cui tolsero il nome, che fu pure dato alla loro lingua.
Oltre le notizie degli antichi, anche taluni vasi di terracotta con epigrafi etrusche ed osche etruschizzanti e nelle quali spesso è incerto decidersi per l'osco o per l'etrusco, ci inducono a ritenere che la Campania dall'VIII secolo a.C. fino alla conquista sannitica fosse qua e là abitata da Etruschi, che esercitarono un certo predominio su tutta la regione.
L'osco ci è noto per circa 230 iscrizioni, delle quali molte contengono solo nomi propri, altre sono mutile. Le più estese sono la Tabula Bantina (iscr.17), il Cippus Abellanus (iscr.127) e la lamina di piombo di Capua (iscr.128).
Differenze dialettali nell'osco si trovano specialmente in Capua e in Bantia; talune sono dovute alla varia grafia, altre sono maggiori, tanto che il Bantino forma una varietà dialettale a sé e in minor grado del Capuano. L'osco si conservò fin presso il principio dell'era volgare e in Pompei fino alla distruzione della città (79 d.C.), ma pare che sia scomparso dall'uso ufficiale fin dalla guerra sociale (88 a.C.) per cedere il posto al latino.
Sabelli erano non solo i Marsi, i Peligni, i Marrucini e i Vestini, ma anche tutte le popolazioni tra i Sanniti e gli Umbri, e perciò anche gli Ernici, gli Equicoli, i Sabini, i Prettuzi e i Piceni. Di questi popoli non si hanno quasi documenti epigrafici, e quei pochi giunti fino ai giorni nostri sono scarsissimi, però sembra che il loro dialetto fosse intermedio fra l'osco e l'umbro, avvicinandosi di più all'osco. Già al tempo di Varrone (prima metà del primo secolo a.C.) il sabino s'era assai latinizzato, e forse un po' più tardi il peligno, il marso e gli altri dialetti cedettero il campo al latino.
[modifica] Lingua umbra
L'umbro ci è noto per i più estesi documenti dei dialetti di cui ci occupiamo: le tavole di bronzo di Gubbio (Tabulae Iguvinae) ed inoltre per alcune brevi iscrizioni di altre località umbre e monete di Iguvium e Tuder. Le Tabulae Iguvinae sono sette e scritte, fuorché la terza e la quarta, sulle due facciate; esse contengono prescrizioni per il collegio sacerdotale degli Atiedii di Iguvium, specialmente per il rituale dei sacrifici. Le tavole Ia - Va e le prime sette linee della Vb sono scritte in alfabeto umbro. Il rimanente in alfabeto latino. Le prime sono dette paleoumbre, quelle scritte alla latina neoumbre. Tra di esse le differenze di lingua sono dovute in gran parte alla diversità della grafia, giacché l'alfabeto nazionale umbro non aveva segni per o, g, d e spesso scriveva p per b e il paleoumbro ř nel neoumbro è reso con rs. A quanto sembra, l'umbro si conservò fino al principio dell'era volgare e nelle contrade remote e nelle valli dell'Appennino non era ancora totalmente spento nei primi secoli di C.
[modifica] Note
[modifica] Bibliografia
- Francisco Villar. Gli Indoeuropei e le origini dell'Europa. Bologna, Il Mulino, 1997. ISBN 8815057080
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