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Douglas William Freshfield - Wikipedia

Douglas William Freshfield

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Douglas William Freshfield (Londra27 aprile 1845 – Forest Row, 9 febbraio 1934) è stato un alpinista inglese.

Indice

[modifica] La vita e le memorie

[modifica] 1845-1864

[modifica] Vibrazioni incontenibili e perenni

Figlio unico di Henry Ray Freshfield - illustre avvocato ed esperto di finanza, della Banca d'Inghilterra - Douglas William Freshfield fu condotto sin da bambino - grazie alla disponibilità monetaria paterna - in stazioni climatiche di grido, dapprima nei territori anglosassoni, quindi nelle Alpi Svizzere, egli andò a poco a poco sviluppando in sé stesso quell'amore profondo per i monti che lo avrebbe accompagnato e confortato fino agli ultimi giorni della sua vita. Ricevuta la debita formazione scolastica dapprima nell'esclusivo collegio di Eton, e poi all'Università di Oxford (dove si sarebbe laureato in diritto civile e in storia) egli divenne per l'influsso fortissimo della romantica madre, Jane Henry Freshfield - delicata scrittrice di montagna - un fine cultore della propria lingua e uno straordinario divulgatore delle sue contemplazioni.

I viaggi del singolare bambino, fino all'ottavo anno di età, s'erano limitati alla conoscenza e al godimento dei luoghi più bucolici e più suggestivi d'Inghilterra. Viaggi che alla signora Freshfield, così doviziosamente favorita dall'agiatezza familiare, offrivano il presupposto primo per un'educazione del figlio al culto nei riguardi della natura. E dell'arte.

L'incontro comunque dell'emotivo fanciullo con quello che sarebbe stato il sogno di tutta la sua esistenza - la predilezione per i territori montani - avvenne tre anni dopo, allorché le villeggiature di Henry Ray Freshfield - anche per ragioni professionali - si spostarono in Svizzera, e pertanto sulle Alpi, destando a poco a poco nel sensibile giovinetto impressioni incancellabili. Ricorderà, a sessant'anni di distanza, nella confidenziale intervista biografica rilasciata a Adolf Hess:

Credo che, senza alcuna interruzione, per i dieci anni che seguirono, mi recai ogni agosto nelle Alpi con i miei genitori, e conobbi non solo le gite facili, ma anche parecchie mete meno comuni. Facemmo il giro del Monte Bianco, del Monte Rosa e del Bernina; andammo ad Arolla, ad Evolena, a Cogne, in Val Formazza, nelle Alpi di Glarus, a Davos, a Livigno e nel Vorderrhein. Alcune carte, anzi, da me tracciate mostrano ancora i nostri annuali itinerari. Scalammo il Titlis, la Cima di Jazzi, il Mittelhorn, ed altre cime di altezze moderate. Ma poiché queste ultime non soddisfacevano la mia ambizione, così nel 1863 decisi di tentare da solo il Gran Paradiso, dove il proibitivo tempo mi arrestò. Fui in grado, ad ogni modo, d'attraversare il Col du Géant, e di scalare il Monte Bianco.
Fatto sta che l'anno seguente ero pronto per incominciare le mie escursioni con due compagni di scuola, e feci la marcia ricordata in Across Country from Thonon to Trent (stampato privatamente) che ora è assai raro, e per il quale ora è richiesto un prezzo fantastico.

Dieci anni di vacanze estive tra le favolose Alpi svizzere e italiane, dunque, che non potevano non lasciare nell'adolescente vibrazioni incontenibili e perenni. Impersonava la signora Freshfield, a quel tempo, oltre che la soavità commovente della madre, l'età intramontabile della donna entusiasta della sua maternità. Autentica maestra d'una lingua limpida e ricercata, essa era autrice di deliziose guide turistiche (diari delle sue escursioni) che l'avrebbero posta tra le alfiere dell'escursionismo femminile europeo. Scrisse di lei Valeria Azzolini in I resoconti di viaggio di Freshfield

Amante della montagna nel senso più giovane e vero della parola, la fretta le era sconosciuta perché non era tanto il raggiungimento della vetta che la interessava, quanto l'incanto del paesaggio che incontrava lungo il percorso, e così le ore passavano in quel godimento.
Oltre ai membri della famiglia, poi, vi era un altro protagonista nei racconti della signora Freshfield: la guida Michel Alphonse Couttet. E fu sicuramente in quegli anni che il giovane Freshfield capì l'importanza, in ogni azione alpinistica, della presenza di una buona guida.

Solo con la convinzione di quanto contasse un buon accompagnatore nelle scalate, Douglas (giunto quasi al termine della sua formidabile carriera) avrebbe potuto affermare:

La mia ambizione più alta non è mai stata quella di trascorrere le intere giornate in faticosi esercizi che sviluppavano i muscoli. Nessun altro momento alpinistico invece era da me più apprezzato di quello in cui potevo godermi il panorama, mentre ad altri toccava aprire la via.

[modifica] Esercitando ed affinando i suoi scritti

E non che fossero - queste ultime - le serene considerazioni dettate dall'età. Già nel capolavoro The Italian Alps del 1875 la ricercata abilità descrittiva di Douglas William Freshfield aveva avuto nell'abbandono contemplativo al godimento dei monti la sua consacrazione più alta. Perché proprio nella cruda ma veritiera realtà alpina - anche se poi l'emozione aveva il sopravvento ­egli andava esercitando ed affinando i suoi scritti di escursionista, di rocciatore, e diciamo pure di corrispondente ante litteram, dimostrandosi il più preparato e il più ricercato linguista tra quanti - nell'Ottocento inglese - erano gli appassionati divulgatori dell'esplorazione italiana. Ove poi - da narratore istintivo ed ispirato - egli passò ad essere (come innumerevoli volte accadde) un delineatore estasiato d'ogni misterioso incanto alpestre, allora dalle sue convincenti annotazioni emersero quei peculiari aspetti ora poetici, ora etnografici, ora scientifici, ora caratteristici delle nostre Alpi che, con inimitabile sagacia egli volle rivelare a tutta Europa. Egli annotava facendo entrare il lettore nei dorati verdecupi delle Alpi Giudicarie:

L'agevole quota delle valli la loro solatìa esposizione, e la gentile pendenza dei versanti, danno alla scena un'aria di opulenza che raramente si trova ai piedi delle montagne nevose. I frequenti villaggi ridenti, i boschi di castagni, i gruppi di noci, i grandi campi di granoturco, le viti e i frutteti lussureggianti, hanno l'attrattiva che l'abbondanza spontanea e il colore della natura del Meridione infondono nell'abitante del più freddo e sobrio Nord. Nessun contrasto può essere, nello stesso tempo, più inatteso e più bentrovato di quello offerto da questi dolci paesaggi all'occhio che ricorda il tormentato aspetto dei graniti dell'Adamello.

No, nessuno mai, entrando nelle Valli Giudicariesi, aveva spalancato - senza nulla aggiungere all'umile realtà dolomitica - così allettanti porte. Eppure pagine ancora più rivelatrici di particolarità intrinseche egli avrebbe riservato alla familiare Rendena.

La strada, che all'inizio alta si snoda sul versante boscoso, domina una vista incantevole su tutta la valle fino a Pinzolo. Frutteti e campi di grano separano i villaggi che si succedono rapidamente, ed ognuno assomiglia al suo vicino. Il sistema di costruzione è originale in questa contrada. Solo i pianoterra, che contengono le abitazioni, sono costruiti in pietra. Dall'alto dei muri s'alzano verticalmente grosse travi che sopportano un tetto incredibilmente largo. Gli spazi fra le travi non sono chiusi, e l'intero edificio ha l'aria d'essere stato iniziato con dimensioni troppo grandi, completato provvisoriamente, e munito del tetto.
L'ampio fienile del primo piano è usato quale magazzino per la legna, il grano, ed ogni specie di cose secche ed infiammabili. Il tetto pure è di legno, e per il fulmine è abbastanza facile incendiare l'intero complesso, tanto che gli incendi che scoppiano per tale causa rappresentano un avvenimento normale.

Righe preziose, destinate (oggi più che mai) non solo a ricordare e a testimoniare una Rendena definitivamente scomparsa, ma anche e soprattutto ad educare l'appassionato della montagna - per ciò che di ineguagliabile essa offrirà sempre - a ricercare, a conservare, e a salvaguardare quelle vestigia pure e primitive non ancora travolte dagli eventi o, felicemente, non ancora smantellate dall'uomo.

Sotto di noi - quali iniziazioni propedeutiche in questo brano ­ stava il dolce piano della Val d'Algone. Da un lato s'ergeva la roccia nuda, tormentata, e corrosa delle Dolomiti, circondata da creste più basse, poco meno vertiginose, ma rivestite di verde ovunque alberi ed erba potessero metter radice. Verso Sud i lontani monti oltre il Sarca fluttuavano con gradazioni di porpora a di azzurro attraverso il tremolio di luce del sole italiano. Una breve serpentina attraverso un fitto bosco ceduo ci portò giù sui prati. Il grande e solitario edificio in mezzo ad essi era una vetreria.
A questo punto comincia una buona carrareccia che, biforcandosi più a valle, conduce tanto a Tione che a Stenico. Le più alte Dolomiti vennero presto perdute di vista dietro una svolta, e la strada si tuffò giù per una valle stretta e profonda fra banchi di ciclamini dondolanti, rocce ardite, e verdi fianchi di montagna.

Il tutto in un contesto suggestivo e solenne, contemperato ogni volta da un'indissolubile grazia di poesia.

Qui la vita non è la dura lotta con una ostinata ed avara natura del contadino di Uri o dell'Alta Engadina. Grano e viti crescono sulla porta di casa e la montagna offre legname e pascoli in abbondanza.
Rimangono, è vero, sufficienti motivi per mantenersi in esercizio: torrenti da arginare, declivi da sistemare a terrazze, gole da attraversare con strade carrozzabili. Ma tutto ciò sta largamente entro i limiti della vitalità di una popolazione che unisce in sommo grado l'industriosità tedesca alla grazia italiana. Argini massicci rinserrano il torrente e proteggono i pascoli irrigui di Pinzolo; una delle più belle strade d'Europa, costruita interamente a spese dei comuni locali, attraversa le due grandi forre del Sarca. Qui non vediamo squallore, niente di quel senso di tolleranza della decadenza e della rovina di ogni cosa vecchia che si trova, spesso, unita con lo sperpero per tutto quanto è nuovo.

[modifica] La convinta e convincente maestra

Fuor d'ogni dubbio le prime memorabili escursioni nelle Alpi Retiche e Dolomitiche furono quelle dominate dai nomi storici dell'alpinismo anglosassone e tedesco.

Oltre al Freshfield sono da ricordare allora, con il leggendario John Ball (1818-1889) che per primo valicò la Bocca di Brenta; Edward Whymper (1840-1911) l'uomo del Cervino; il boemo Julius von Payer (1841-1915) che, raggiunta per primo la Cima Adamello, affrontò l'Ortles e il Cevedale; l'ardimentoso viennese Paul Grohmann (1838-1908) che fin dal 1865 aveva fatto sua la Marmolada; l'inglese Francis Fox Tuckett (1834-­1913) che, dopo la conquista del Gran Zebrù, dello Sciliar, e del Monte Disgrazia, scalò vittoriosamente nel 1872 la Cima Catinaccio; Edward Robson Withwell (1843-1922) il trionfatore del Cimon della Pala (1870).

Preziosa e primaria gli fu, per tutta la vita, la lezione materna dell'assoluta necessità, nella pratica escursionistica, d'una sicura guida cui sempre affidarsi per puntare ad una qualche riuscita. Fu in tale modo che, anno dopo anno, crebbe la familiarità ch'egli prese ad avere con la montagna, e s'affinò in lui la tecnica che andava acquisendo con ogni tipo di percorso e di difficoltà. E se anche, nel 1863, con un tempo proibitivo, inutilmente lottò lungo le pareti del Gran Paradiso, riuscì tuttavia a scalare il Monte Bianco. L'anno dopo poi non esitò ad intraprendere, diciannovenne appena, quella suggestiva marcia da Thonon a Trento che si sarebbe conclusa con la grande vittoria del 1864, cioè con la conquista - in prima assoluta della cima più alta del Monte Triplo, com'era allora chiamata la Presanella.

Parlare di quell'impresa (inimmaginabile per un ragazzo quale egli ancora era) è raccontare uno dei più entusiasmanti e mitici eventi dell'Ottocento alpino.

Freshfield era da poco giunto, con i suoi compagni di scuola, Beachcroft e Walker, e con la fidata guida Devouassoud di Chamonix, al Tonale quando venne informato dei due brevi quanto misteriosi sopralluoghi (1863 e 1864) di John Ball ad alcune convalli dell'Adamello. Fu la piccola fiamma che fece divampare nei quattro giovani alpinisti la decisione d'affrontare il loro favoloso sogno: la salita all'ancora inviolata Presanella.

Trascorsa la notte all'antico Ospizio di San Bartolomeo (pieno oltretutto di manovali che gli Austriaci assoldavano nella costruzione di nuove postazioni militari contro lo Stato italiano) la piccola comitiva, il mattino seguente, riprese il cammino per Vermiglio, ove il Freshfield ebbe indicata dalla gente del luogo la Cima Presanella ch'egli vedeva, tra l'altro, per la prima volta. Venne a conoscenza, inoltre, anche del fallito tentativo d'ascesa alla stessa, due anni avanti, da parte del glaciologo Anton von Ruthner (1817-1897), di Vienna, in compagnia della guida locale Bortolo Delpero.

Inutile dire che - udito il nome di Delpero - in quell'assoluta mancanza di riferimenti concreti, il Freshfield, a proprie spese, aggiunse a quella sua cordata tutta straniera pure un montanaro del luogo che s'impegnò a condurre i quattro ai piedi della Presanella dalla parte più agevole. Di più non poteva promettere. Anzi, a quella data, nessun altro sarebbe stato in grado di far qualcosa di meglio.

[modifica] Svegliare l'aurora

Un mese non era passato dal vano tentativo del bolzanino Wachtler di raggiungere - con l'aiuto dell'allora celeberrimo Luigi Fantoma Martanél di Strembo - la Cima Adamello. Ma più ancora (come s'è detto) aveva destato scalpore il ritorno - dopo la comparsa dell'anno prima (1863) - del noto alpinista inglese John Ball, determinato a conoscere a fondo l'intero massiccio adamellino, onde includerlo nella sua annunciata Guida alle Alpi Italiane. Era quanto bastava a far pensare - oltre tutto - ad un imminente assalto alla Presanella. E per quanto ciò non corrispondesse al vero, v'era pur sempre la gelosia del Freshfield che non intendeva cedere quell'ormai decisa "prima assoluta" ad alcuno.

La spedizione di Freshfield (con Walker, Beachcroft, Devouassoud e Delpero) si mosse - nella serata del 26 agosto - da Vermiglio onde attestarsi, per qualche ora di riposo, tra pastori e capre al baito di Stavel.

Ancora al chiaro di luna (erano le tre del mattino seguente) la comitiva riprese a salire fino al Passo Cèrcen recando nel cuore, nonostante le modeste apparenze, il caparbio disegno. Da lì invero raggiunsero - ancora tutti assieme - la "sella" che separava la prima delle tre cime (la Cima Vermiglio) dall'altra cima (la Cima Gabbiolo). Dopo di che - era il mattino del 27 agosto 1864 - nell'inevitabile lavoro di scalinatura dei ghiacci della terza cima (la Cima Presanella, metri 3556) subentrò l'insostituibile François Devouassoud.

Furono tre ore di fatica inaudita, ai limiti delle possibilità umane. Verso mezzogiorno la Cima Presanella vera e propria era praticamente raggiunta, e i tre protagonisti inglesi stavano calpestando "le vergini nevi alle quali per tanto tempo avevano ansiosamente guardato. La cima altro non era che una cresta nevosa che giaceva come un casco sul ciglio delle pareti affacciate sulla Val di Sole"

Affidati i loro nomi alla tradizionale bottiglia - subito sigillata e riposta al sicuro dentro un apposito e ben visibile cumulo di pietre - Freshfield, Beachcroft, e Walker si posero a contemplare ammutoliti la nuova regione alpina che si stendeva ai loro piedi. Nessuno dei tre voleva essere il primo a gridare sentimenti inesprimibili. Opportunamente - dopo un'impresa di tal valore - cercarono di riprendere fiato avanti di rimettersi in cammino e di arrivare agevolmente (lungo un piccolo ghiacciaio e un profondo canalone) ai chiari accenni di quell'armoniosa fresca valle di torrenti e di cascate - la Val Genova - che il Freshfield avrebbe battezzato per sempre "la Versailles d'Italia".

Oltrepassato un primo insediamento di baite deserte, essi giunsero ad un secondo gruppo di casolari circondato da mucche al pascolo ove ebbero modo di rifocillarsi con latte di capra, di chiedere informazioni al mandriano, e di ripartire con maggior sicurezza.

Si trovarono così

sopra un'altra cascata del Sarca, o piuttosto ad una successione di salti incassati in una profonda gola attraversata da ponti arditi e illuminati dalle bacche scarlatte dei frassini montani. In alto sulla destra una nuvola immobile copriva il pendìo della montagna dove il torrente Lares si affrettava giù verso la valle.
Una carrareccia, costruita per le segherie, attraversava ora una piana sassosa dove il torrente per la prima volta usciva dal suo letto e devastava i prati, mentre grossi blocchi, caduti dalle cicatrici delle rocce soprastanti, giacevano a lato della via. Riparati dalla doccia di spruzzi fra due di questi massi, si fermarono ad ammirare l'ultima grande cascata, quella di Nardìs, che sbucava dal cielo balzando e vibrando quasi sulle loro teste in una duplice colonna. (Un'altra volta la videro in giugno, quando le nevi si stavano sciogliendo, e sembrò loro la più bella delle cascate alpine).
Un po' più avanti, all'inizio della discesa per la Val Rendena, raggiunsero, mentre cadeva la sera, la vecchia chiesa di Carlo Magno e osservarono per la prima volta il dolce paesaggio e i selvosi pendii della bassa valle. La luce, che in fondo svaniva, metteva in risalto le delicate gradazioni di verde perdute nel pieno splendore del meriggio, intanto che alte nell'aria le rocce del Brenta, lucenti con gli ultimi raggi del tramonto, parevano abbastanza ultraterrene da poter formare parte del palazzo di Iperione.
Orbene, rievocando una tale "prima assoluta" come l'alba d'un giorno che sarebbe stato accecante, ci ha confortato la percezione d'avere saputo - quasi con l'arpa e con la cetra del salmo - svegliare l'aurora.

[modifica] La fatidica impresa

A mezzogiorno, dunque, del 27 agosto 1864 la Cima Presanella vera e propria era stata raggiunta. Ma le parole adeguate per godere ed esultare di un'impresa così straordinaria rimangono ancora quelle lasciateci da Freshfield.

Non appena passò la prima eccitazione per la vittoria, cominciammo a guardare con interesse la nuova regione alpina che si stendeva ai nostri piedi. Il massiccio centrale dell'Adamello era davanti a noi per la prima volta; così vicino e completo da consentire una ispezione minuziosa e una completa valutazione. Era un immenso blocco, grande tanto che sarebbe bastato a fornire materiale per una mezza dozzina di splendide montagne. Ma di fatto era una sola. Per una lunghezza e una larghezza di molte miglia di terreno non scendeva mai al di sotto dei tremila metri. Il vasto nevaio centrale alimentava i ghiacciai che scendevano da ogni lato. Le vette più alte come il Carè Alto e l'Adamello erano solo piccole elevazioni del bordo di un tale altipiano. Viste da vicino sembravano delle semplici colline. Viste dall'esterno esse apparivano come delle nobilissime montagne, che precipitavano con grandi pareti verso le valli selvagge racchiuse dai ghiacciai che salivano su fino ai loro piedi.

Ripreso fiato e prima di rimettersi in cammino per il ritorno, la cordata si premurò d'innalzare un cumulo di pietre al cui interno riporre la preparata bottiglia contenente la dichiarazione autografa della vittoriosa ascesa.

La dichiarazione (firmata da Freshfield, Walker, e Beachcroft) diceva: Abbiamo compiuto la prima ascensione su questa montagna dalla Val Vermiglio in otto ore dall'ultima malga, compresi i rallentamenti causati dal ghiaccio dovuto tagliare a gradini per oltre due ore. Dopodiché fu intrapresa la discesa verso quell'armoniosa Val di Genova che tanto era cara al Freshfield.

Orbene (poiché l'evento ebbe una curiosa appendice) ecco il 4 settembre - esattamente otto giorni dopo - irrompere in Val Rendena, ignaro dell'accaduto, e con una caviglia in disordine, il giovane alpinista boemo Julius von Payer del quale, nonostante la riservata personalità, per la sua audacia e per la sua spregiudicatezza agonistica si faceva un gran parlare. Giunse a Pinzolo dove, dolorante al piede, fu costretto a fermarsi per tre giorni all'albergo del signor Bonapace. Non fu tempo perduto. Ebbe modo infatti non solo di stipulare un accordo di conduzione e di assistenza con la nota guida alpina Girolamo Botteri, ma d'assoldare (oltre a una seconda guida, Giovanni Caturani) il portatore Antonio Bertoldi, un vero gigante, indispensabile per tutte le operazioni di facchinaggio. Il 7 settembre 1864 avvenne la partenza per l'Adamello. Viveri ed attrezzature erano già al "Plan di Genova" portate con carro e cavallo dal Caturani.

Dopo un pernottamento alla baita Fargorida, la mattina dell'8 al comando dell'imperioso Boemo la spedizione si diresse al Dosson di Genova che, ricoperto di neve fradicia, costrinse la comitiva a rallentamenti e a cambi di rotta continui. Conquistati ad ogni modo in cinque giorni il Dosson di Genova, il Corno Lago Scuro, e il Corno Bianco, non rimase alla cordata che l'assalto alle vette inimmaginabili dell'Adamello e della Presanella. Inimmaginabili in quanto in quell'oceano di rocce e di ghiacci né il Payer né il Botteri avevano un'idea delle loro sagome. Non per nulla, raggiunta verso mezzogiorno del 16 settembre la cima dell'Adamello in "prima assoluta", i due si misero ad urlare come forsennati la loro gioia, felici d'un "trionfo" (era la parola appropriata) che sarebbe rimasto nella storia dell'alpinismo per sempre.

Il giorno seguente - dopo una notte insonne al Baito Alto - Payer, Botteri e Castoldi, ripartirono per l'attacco alla Presanella. Giovanni Caturani invece, atterrito oltre che esausto, era stato licenziato.

Subentrato al temporale notturno un vento impetuoso e, portata dal vento una seconda bufera, Castoldi s'arrese quasi subito. Payer e Botteri al contrario, scalinando forsennati i continui ghiacci dell'interminabile ascesa, raggiunsero alle tre e un quarto del pomeriggio - prima d'essere colti dal gelo delle ombre - la sospirata meta, pronti ancora una volta a quell'abbraccio e a quell'urlo con cui avevano esultato il giorno avanti per l'inviolata cima dell'Adamello. Quale non fu, purtroppo, la loro drammatica sorpresa allorché nell'immediato esame dell'eccelso culmine scorsero, quanto mai evidente, una costruzione di pietre (il così detto "ometto") contenente la tradizionale bottiglia con la dichiarazione scritta della già avvenuta conquista.

Appresi in tal modo - queste le gementi parole del Payer - con mio grande rincrescimento che la cima era stata ormai scalata.
In quell'ometto, alto quattro piedi, infilai allora anche la mia bottiglietta ben chiusa con dentro il cartiglio recante il mio nome e quello di Girolamo Botteri.

Rassegnate parole, scritte in Escursioni Alpine, rimpiangenti la superba vetta che, appena ventun giorni prima, dal diciannovenne agiato inglese Douglas William Freshfield gli era stata rapita.

[modifica] 1864-1874

[modifica] Una schiera di lottatori

V'era nell'animo di Freshfield - pure in queste immani sfide - la beatitudine dell'uomo mite che voleva possedere la terra (e non certo umiliare gli antagonisti). E questo egli lo dimostrò nel mese di luglio dell'anno seguente (1865) quando si portò nuovamente "con una formidabile comitiva di sette persone" alla testata della Val Genova per dare quella scalata all'Adamello che già al primo tentativo era riuscita a Julius von Payer.

La vista era di infinita magnificenza - aveva scritto di quel giorno il Payer, solitamente contenuto nelle descrizioni - un mondo di montagne, di cattedrali di nevi e di rocce, una variopinta confusione d'ogni colore e sfumatura si apriva davanti all'occhio estasiato: profondità e lontananze sembravano interminabili.
Il giorno era di una purezza splendente; soltanto verso sud si scorgeva uno strato di leggere nubi; il cielo era di un azzurro impenetrabile. Ma, a causa del tremendo calore del sole, la luce abbagliante e il continuo osservare la carta durante un lavoro che durò due ore fecero lacrimare i miei occhi di continuo.
Rivolto ad occidente, scorsi in una spaventosa lontananza, al di là di una cupa spaccatura, l'argenteo Adda, il Monte Rosa, le Alpi Lepontine ricche di vette i cui particolari naturalmente non si potevano vedere e si mostravano appena nei loro contorni generali. Accanto si susseguivano le meravigliose Alpi di Graubunden, una miriade di punte rocciose scure e di splendenti vette innevate.

Particolarmente affascinante era la vista del Gruppo del Bernina con i suoi sottili picchi argentei, le pareti oscure, e i vasti nevai non meno imponenti di come essi mi si erano presentati due anni prima dal Monte Baldo.

Al di là di questo baluardo di masse rocciose che svettavano verso l'alto e racchiudevano la Valle del Reno e l'Engadina, ci guardavano singole montagne dall'interno della Svizzera, attraverso i valichi più scavati delle creste anteriori ch'io riconobbi nelle Montagne delle Alpi bernesi, in quelle del Gottardo, e del Tödi.

Alla cavalcata altisonante del Payer attraverso le maggiori vette adamelline volle non essere da meno il Freshfield che, pur nell'umana ed inevitabile rivalità, fu costantemente un sincero ammiratore del giovane ed ardito Boemo.

Alla ristretta e (diciamolo pure) inesperta cordata del Payer il Londinese contrappose una schiera di primo piano capitanata da Francis Fox Tuckett, l'amico più affine e più congeniale del Freshfield.

Chi fosse veramente il Tuckett non sono in molti a saperlo. Per questo ci sia consentito di dirlo con una delle più folgoranti pagine dello scrittore magico dell'alpinismo inglese, Leslie Stephen.

In un lontano futuro quando l'Alpine Club sarà quasi dimenticato, e le sue prime testimonianze oscurate dalla foschia delle leggende e delle tradizioni popolari, chi vorrà indagare avrà un grande enigma da risolvere.
Nel tentativo di separare il vero dal falso, e di accertare quale sia il piccolo nucleo di fatti reali attorno a cui si sono raccolte così tante storie incredibili, costui rimarrà stupito dal ripetersi continuo di un nome. Nel ciclo eroico delle avventure alpine, l'irriducibile Tuckett occuperà un posto simile a quello dell'errabondo Ulisse nella leggenda greca, o dell'invulnerabile Sigfrido nella saga dei Nibelunghi. In ogni parte delle Alpi, dal Monviso al Delfinato, fino alle regioni selvagge della Carinzia e della Stiria, le gesta di questo grande viaggiatore persisteranno nell'immaginazione popolare. In una vallata il montanaro mostrerà un'ampia breccia nelle rocce che, secondo la sua fantasia, sarebbe stata prodotta dalla potente piccozza dell'eroe. In un'altra l'aguzza sommità conica che va sotto il nome di Tuckettspitze sarà considerata monumento eretto dall'eponimo gigante, o forse pietra tombale posata sui suoi resti. In una terza valle i massi sparsi di un ghiacciaio rappresenteranno la scala che egli costruì per poter raggiungere quell'inaccessibile altezza. Che una persona infatti tanto onnipresente e capace di compiere imprese così romanzesche potesse essere una semplice creatura in carne ed ossa sarebbe destinata naturalmente a rimanere un'ipotesi assurda".

E questi non era che Tuckett, a garanzia d'una schiera di sette lottatori che, partendo dall'Alpe di Bedole non avrebbero fallito il traguardo.

[modifica] L'assalto all'Adamello

Mai forse una vetta - come quella dell'Adamello, scalata rocambolescamente dal Payer dieci mesi prima - era divenuta nei programmi di Douglas William Freshfield un assillo così dominante. Di certo più non poteva farne una prima assoluta (ambizione massima d'ogni alpinista!) ma ciò che premeva al londinese era solo dimostrare al Payer la disinvoltura, la scioltezza, il minor tempo impiegato nell'impresa: cosa peraltro che il Payer aveva boriosamente e tronfiamente proclamato della sua ascesa alla Presanella seguita a quella del Freshfield l'anno prima.

Ma qui la poderosa cordata, messa a punto ai primi di luglio del 1865, e composta dal Tuckett, dal Fox, dal Blackhouse, dalle guide Devouassoud e Michel, e dal portatore Gutmann. L'avvio della spedizione fu quanto mai singolare. Era la notte fra il 2 ed il 3 luglio.

Un pastore - così il Freshfield in The Italian Alps - con la lanterna ci guidò su per la parte più ripida della salita, e poi venne mandato indietro, lasciando noi e le nostre guide svizzere a trovarci la strada, compito questo al quale eravamo tutti ben preparati.
Ci incamminammo infatti a Sud, diretti al bordo del Ghiacciaio del Mandron. C'era da attraversare un bel tratto di terreno accidentato e pieno di macigni, ma brillante di fiori. Fra essi c'erano molte stelle alpine, piantine che normalmente si trovano in luoghi pericolosi, ma che piuttosto frequentemente vengono colte anche là dove le mandrie le possono brucare.

Momenti d'incertezza colsero pure il Tuckett, il Fox, e il Backhouse alla vista del Corno Bianco, scambiato (com'era accaduto al Payer) per l'Adamello. Ma, aggirato sulla destra anche quell'insieme di picchi, non fu difficile raggiungere il bacino di neve sovrastante tutti gli altri, che li portò in breve alla sospirata e conclamata vetta.

Tutto era compiuto dunque! Senza alcun disagio, anzi con un notevole compiacimento per il modo e per il tempo di un'operazione più che perfetta.

Era l'esperienza acquisita quella che contava! Era l'arricchimento spirituale dai rifulgenti crinali, anelli di congiunzione fra cielo e terra, avuto!

Avevamo atteso molto dall'Adamello in virtù della sua posizione avanzata rispetto alla grande catena e non ne eravamo stati delusi. Il tempo aveva mantenuto la sua promessa, e fu uno di quei giorni dorati di mezza estate che, come qualcuno giustamente afferma, sono spesi ottimamente se trascorsi sulle cime delle montagne. Lontano, a mattina, potevamo seguire la via delle nostre peregrinazioni dal loro inizio. V'erano le vette dolomitiche di Primiero. Un po' oltre la Marmolada, il Pelmo, e il piramidale Antelao. Poi l'occhio doveva saltare solo la grande fossa della Val Pusteria per spaziare sui Tauri dell'Ankogel (sopra Gastein) al Brennero.
Il Glockner era visibile altrettanto bene che dall'Heiligen Blut, ma le sue nevi erano tutte d'uno squisito color rosa come se fossero state prigioniere d'un tramonto. E bella mostra di neve e di ghiaccio facevano l'Ortles e il Bernina, quasi equidistanti. Osservammo i grandi campi di neve del nostro gruppo, che erano a portata di mano, dominati dai nostri due rivali: la Presanella e il Caré Alto.
A Sud giaceva un labirinto di picchi granitici e di creste separanti le molte valli che salgono dalla Val Camonica. Questa grande valle era visibile per lungo tratto e l'occhio indugiava con piacere sui campi di granturco e i boschi di castagni, fino a che guidato dal nastro bianco della strada scendeva verso le acque azzurre del Lago d'Iseo che si scaldavano al sole fra splendenti colline verdi. E qualora ci fossimo stancati di questo paesaggio potevamo cogliere a volo d'uccello un insieme della Valtellina, lunga e profonda trincea ricca di colture, calda e fertile, chiusa alla sua estremità inferiore dalle montagne che circondano la testata del Lago di Como.

Tutto questo per concludere, poco dopo:

La visione che si gode nelle ore trascorse su una grande cima è di gran lunga più bella di quella che, in quel momento, si ha davanti agli occhi. In tali momenti anche lo spirito più ottuso condivide con uguale emozione i sentimenti che i poeti hanno espresso in parole in tutti i tempi. I nostri polsi battono all'unisono col grande polso della vita che respira attorno a noi. Smarriamo noi stessi e diventiamo parte del grande ordine entro la presenza visibile del quale ci sembra di essere stati per un breve spazio di tempo trasformati.
Ad altezze minori, da dove si può scorgere qualche città simile ad un grande formicaio con neri insetti affaccendati a correre in avanti e indietro lungo le strade, la nullità della specie umana spesso risalta in maniera penosa. Ma qui, separati da leghe di neve e di ghiaccio, e da un miglio o due di altezza verticale dal resto della nostra razza, tale pensiero non ci opprime.
L'uomo è come fuso con la natura. Le città sono diventate macchioline. Le province sembrano campi. L'occhio spazia sopra un regno. Attraverso la calma che in alto riempie l'aria.

In armonia con l'anima dell'universo.

[modifica] Dai diari di sette estati

Al tempo di Freshfield La passione per i monti prima che una disciplina fisica e una disponibilità ascetica all'ambiente era una filosofia di vita, e conseguentemente un'educazione progressiva all'essenziale e dell'estremo.

affermava Domenico Rudatis, il teorico della spiritualità alpina

L'incantesimo della montagna non è un effetto estetico e nemmeno un'attrazione corporea, anche se talvolta l'estetica e la pratica ginnica possono esserne parte.
Io ho potentemente sentito l'incantesimo della montagna prima ancora di aver cominciato le scuole elementari e prima di sapere che esisteva l'alpinismo. Ogni anno restavo un bel po' dell'estate a Coi di Alleghe dove mio padre aveva costruito una casa nuova, poiché la sua casa nativa a Fernazza era antichissima, certamente millenaria, e quasi altrettanto antiche erano due case pure a Coi di Alleghe, ereditate dai suoi antenati.
Orbene l'immensa muraglia del Monte Civetta era proprio là, dinnanzi a me, ed io la contemplavo per ore. Poi domandavo a qualcuno dei miei parenti anziani: - Che cosa c'è dietro quella muraglia? ­Talvolta la risposta era soltanto un bonario sorriso, tal'altra mi dicevano che c'era la Val di Zoldo. Ma io non ero mai molto convinto poiché in fondo alla mia anima c'era sempre l'impressione che la parete nascondesse un mistero.
Io ero molto piccolo, l'incantesimo invece era per me troppo grande. Tuttavia il mio interesse alpinistico si sviluppò. E si sviluppò ancor più alquanti anni dopo quando mi trovai a Torino, reduce dalla prima guerra mondiale, come studente al Politecnico. C'era pure un bel gruppo di Trentini della Sezione Universitaria della SAT della quale Renzo Videsott era il presidente. Tra essi c'era anche Pino Prati che aveva prima studiato in Austria, ed era molto addentro nella letteratura alpinistica, particolarmente ricca nella lingua tedesca.

Come non sentire, nella nostalgica bellezza di queste parole quelle altrettanto elegiache di Douglas William Freshfield confidate ad Adolfo Hess:

I miei parenti avevano l'abitudine di fare ogni estate un viaggio di cinque settimane, ed io non avevo che sei anni quando, per la prima volta, mi portarono con loro ai laghi inglesi. I miei ricordi d'un tale viaggio si limitano alla delusione che provai vedendo le cascate di Lodore che, essendo la stagione molto secca, non corrispondevano all'aspettativa che aveva fatta nascere in me una poesia di Southey. Le cascate in verità - meraviglie tra le prime della natura - con il loro movimento attrassero sempre i bambini.
L'anno dopo mi portarono in Scozia: e come guida avevo le liriche di Walter Scott. Nel 1854 poi, mai viste antecedentemente, visitai le Alpi andando da Basilea a Chamonix attraversando la Tête Noire, e la Gemmi, e passando per l'Oberland Bernese.

Ebbene con la stessa fresca naturalezza con la quale alcuni tra i sommi esponenti dell'alpinismo mondiale rievocavano i loro giovani anni, pure il Freshfield - sull'esempio di Tuckett, di Tyndall, di Coolidge, di Agassiz, di Mummery, di Stephen - ebbe in sorte il dono del racconto semplice, limpido, quasi visibile, invidiabilmente popolare.

Eccolo allora - nel presentare nel più modesto dei modi il suo lavoro The Italian Alps ("mosaico cavato dai diari di sette estati") - scusarsi come d'un necessario adempimento dovuto "a una catena (quella alpina) sulla quale i lettori inglesi non disponevano, ancora, di adeguate informazioni scritte".

Fino ai giorni nostri le bellezze di questa regione (una delle più affascinanti delle Alpi) non sono state né visitate né descritte, tranne che da qualche isolato alpinista o da qualche esigua notizia nell'«Alpine Journal». I pochi amici e compagni che hanno fin qui diviso con me il godimento di questo monti possono chiedere: - E perché non potevate lasciarle così?
In ogni caso io non offrirò che delle scuse oneste. Senza avanzare giustificazioni d'essere stato vinto da qualche sentimento benevolo verso i molti valligiani. Se vi fosse stata la più piccola ragionevole speranza che questi luoghi rimanessero indisturbati io sarei stato disposto a mantenere ancora il segreto che già avevo conservato per qualche anno. Ma disgraziatamente, almeno dal nostro punto di vista, uno spirito di intraprendenza è sorto fra la gente del paese, sono state costruite strade, aperti nuovi alberghi, i vecchi sono stati ripuliti, e come conseguenza i visitatori inglesi diventano sempre rari. Quel normale corso degli eventi era impossibile che trascorresse un altro anno prima che qualche turista con qualche tendenza a scrivere libri penetrassi nelle Alpi Lombarde.
Se era inevitabile che questi monti venissero esposti a tutto il mondo, sembrava meglio che essi fossero presentati da uno che si trovava da qualche anno in amicizia con loro, piuttosto che da una nuova conoscenza. Ed inoltre v'era un vantaggio molto ovvio nel lasciar fare la rivelazione a me. Io avevo ormai oltrepassato l'entusiasmo superficiale che guida gli scopritori a sopravvalutare i meriti e a ridurre a metà gli svantaggi della loro ultima nuova scoperta. Per quel po' che mi conosco, io non ho mai desiderato ingannare nessuno.

[modifica] Le emozionate contemplazioni

Indubbiamente, per noi Italiani, Douglas William Freshfield sarà sempre il cantore più puro e più appassionato delle Alpi, e delle Alpi rendenesi in particolare. Mai dalla sua affinata e raffinata capacità letteraria uscirono pensieri così magistralmente descrittivi e così sintatticamente concertati come quelli con i quali seppe rivivere le emozionate contemplazioni di fronte alle ascensionali chimeriche vette alpine.

In quei momenti la fatica dell'alpinista è ripagata ad usura. Sopra il suo capo s'espande la volta pura del cielo; in basso giace una grande parte della terra; le cime dei monti sembrano poste fra le due, esattamente al centro di una sfera cava. Dalle nevi rifulgenti dei picchi circostanti, vivide d'una luce appena tollerabile, l'occhio per riposare si volge a guardare il colore intenso dello zenit, o vaga sulle miglia di verde e sulle innumerevoli gradazioni dell'azzurro lontano, o sul color zafferano dell'ultima catena che forma l'anello di congiunzione fra terra e cielo.

Certamente nessuno di coloro che hanno goduto di tale visione vorrà negare la bellezza delle forme e dei colori che la circondano.

Per rappresentare agli altri lo splendore d'un tale quadro occorre, è vero, un poeta od uno dei più grandi e rari pittori di paesaggio; ma anche se questi falliscono, se lo scenario che si ammira dalle cime più elevate si dimostra assolutamente irriproducibile e indescrivibile, esso può essere magnifico nel senso più ampio della parola. L'abilità dell'artista che interpreta non può essere accettata come la misura di quanto c'è da interpretare, e quanto c'è di nobile e di delizioso nella natura non può essere soggetto alle limitazioni dell'arte. La visione infatti che si gode nelle ore trascorse su una grande vetta è di gran lunga più bella di quella che in quel momento si ha davanti agli occhi".

Ascoltiamolo allora decantare i dintorni di Pinzolo che s'aprono in alto con prati in declivio delimitati da frassini, da betulle, e da pini.

Sarebbe difficile trovare un luogo più delizioso delle colline che sono subito dietro Pinzolo per trascorrere, riposando, una giornata di sole. Basta soltanto salire poche centinaia di piedi fra i ceppi dei castagni per trovare dei ripiani coperti di un soffice tappeto di muschio, di felci, e di delicati fiori meridionali. Qui all'ombra delle foglie danzanti, mosse da una dolce brezza, e cullate dal fresco tintinnìo dell'acqua che cade e dal mormorio delle innumerevoli cose che vivono e che riempiono un meriggio italiano, anche il viaggiatore che non conosce soste, può godere una volta tanto, unita ad altre sensazioni, la deliziosa adesione ad un mondo che pare in quel momento dedicato completamente alla gioia. In altra occasione egli può arrampicarsi sempre più in alto attraverso la foresta, allargando ad ogni passo la vista sui campi lucenti e sui villaggi della Val Rendena, e osservando le crode gelide del Gruppo dell'Adamello, mentre una dopo l'altra balzano fuori contro il cielo. Poi, entrando in un'alta valletta nascosta può raggiungere un valico da dove, nella direzione opposta, le torri dolomitiche s'ergono rigide e rosse sopra i verdi pendii. Da qui egli può scendere in Val d'Agola, e a Campiglio, oppure, girando a destra, sulla dorsale di Prà Fiorì. Ma a sinistra della depressione, separato dagli altri monti, s'alza un erboso pianoro il quale dovrebbe dare una delle visioni più perfette della creste circostanti che abbracciano del pari la Val Genova, la Val Rendena e la Val di Nambino. Vi è una capanna a cinque minuti dalla vetta erbosa, e qualsiasi signora alla quale piaccia una passeggiata può, per quanto io sappia, vantarsi di aver fatto la sua prima salita turistica sul Dos del Sabbion.

O lasciamolo descriverci l'intera massa del Brenta quando s'erge sulla Val di Nambino come una gigantesca "Visione di Solitudine ispirata da Alastor".

Se consideriamo la catena da un punto di vista generale, quale incomparabile varietà di bellezza! Ad occidente giace una vallata alpina verde e aperta. Ad oriente il lago di Molveno riflette nel suo specchio azzurro le rocce scoscese. I versanti meridionali sono un ricco intreccio di viti e di castagni; i faggi si spingono in alto per coprire assieme ai pini le vallette interne; i ciclamini e le genziane cingono a guisa di festoni le forme della montagna.
Il turista che penetra in questo fantastico dedalo si trova da principio in valli anguste, bagnate da chiari torrenti che ora scorrono calmi sui prati dalle soffici zolle, ora danzano attraverso i faggeti, ora si gettano in profondi burroni in miniatura, festonati di muschio e di frassini dalle bacche lucenti. Colpito da quanto si presenta al suo sguardo egli dimentica lo scopo del suo viaggio; ma tosto, fra le cime degli alberi una incredibile fiamma gialla, immobile per l'eternità fra il verde e l'azzurro, richiama alla sua mente la presenza delle Dolomiti e lo sprona ad una nuova conquista. Egli sale un ripido pendio e i pinnacoli si allineano e diventano parte di un vasto anfiteatro di roccia. Avanza qualche centinaio di yarde sul piano e lo scenario svanisce. Una torre solitaria s'arrampica, oltre le nubi, e si confonde nel cielo. Un'ulteriore ascesa fa mutare nuovamente il panorama. Rocce grigie, dorate, rosse, brune e nere si aggruppano attorno a lui riempiendolo di meraviglia.

E di quella torre solitaria che s'arrampica, oltre le nubi, dirà poco dopo il Freshfield come nessun, altro ebbe mai a dire.

[modifica] Pagine appartenenti alla storia

Dal 1864 al 1874 sette furono le estati che Douglas William Freshfield, per sua confessione, trascorse nelle valli dell'Adamello e del Gruppo di Brenta. Nessun'altra parta del pianeta - poiché planetario fu il suo amore per i monti - venne a godere di tanta predilezione. Furono, oltre tutto, gli anni più tenaci e più entusiasti entro i quali forgiò le sue eccezionali doti alpinistiche, ed arricchendosi di conoscenze etnografiche e storiche prese mirabilmente a scriverne.

Già la madre - Jane Henry Freshfield - era una fine puntigliosa scrittrice o, per meglio dire, una straordinaria divulgatrice delle bellezze e delle attrattive dei luoghi che visitava, per cui il figlio - a sua volta promettente allievo delle aristocratiche scuole di Eton - non mancò di nutrire la sua mente (oltre che delle superbe visioni naturali tridentine) di quello specifico ed appropriato lessico con cui, negli anni aurei della maturità, avrebbe saputo trasmettere agli altri i suoi sentimenti e i suoi trasporti per la natura in genere e per quella alpestre in particolare, tanto più sconosciuta quanto più riservata al privilegio di pochi coraggiosi eletti.

Ventenne appena, ma già segnatamente predestinato ad un singolare avvenire di viaggiatore e di esploratore (aveva attraversato il Colle del Gigante ed era salito sul Monte Bianco), egli strinse amicizia con un altro eccezionale protagonista della montagna, l'infaticabile François Devouassoud di Chamonix, colui che sarebbe stato il compagno insostituibile - oltre che fedele - di tutte le sue risonanti imprese.

Assieme al Devouassoud infatti non solo il Freshfield portò felicemente a termine l'indimenticabile spedizione del 1864 - "de Thonon à Trent" - ma come documenterà poi con la mirabile opera The Italian Alps tenacemente e fruttuosamente percorse le maggiori valli della regione trentina, fermando sulla carta ("mosaico cavato dai diari di sette estati") quelle, rivelazioni e quelle suggestioni che avrebbero colmato (così il Freshfield ebbe a dire) "uno dei più notevoli vuoti della letteratura alpina dei suoi anni".

Ma dopo quel periodo - maturato alla spartana scuola d'una attività continua - che il Freshfield, incoraggiato anche da esaltanti amicizie (quelle con il Tuckett, con il Donkin, con il Fox, con il Sella), diede inizio al secondo periodo della sua formidabile carriera di viaggiatore, di escursionista, di conoscitore insuperato di montagne, visitando il Medio Oriente, l'Egitto, la Palestina, l'Armenia, la Persia, e la regione del Caucaso, con una pervicacia e con una meticolosità che non fu di alcuno dei suoi contemporanei. Tenuto per di più presente che - pur in tanto fervore ­ egli delle nostre montagne giudicariesi continuò a scrivere pagine che (con altre del Bresciani, del Bolognini, del Coolidge, del Payer) a buon diritto, e nel più suadente dei modi, sarebbero entrate a far parte della storia trentina per sempre.

Impagabile, ad esempio, e documentalmente degna d'essere ricordata la casa "del signor Bonapace, esemplare tipico d'albergo rendenese del secolo decimonono". La descrizione minuziosa che Freshfield ne fece resterà perennemente a testimoniare dal vivo la dimestichezza dei suoi soggiorni in valle.

Sulla strada selciata s'apriva una porta ad arco che conduceva in una specie di granaio, e di qui una ripida scala di pietra portava ad un'oscura sala, o vestibolo, dal soffitto basso, ingombra di tavole e di panche. Con questa comunicavano due stanze interne ancora più oscure. Un debole scintillio di lucido rame, un suono di qualcosa che frigge, e il rumore del tramestio di Marta ci dicevano che una era la cucina, mentre nell'altra, ai piedi di un enorme letto, chino su un tavolo sedeva il padrone della casa, un occhio intento ai conti, l'altro che sorvegliava tranquillamente in giro. Ad un suo cenno una ragazza, lasciando i lavori di cucina, era pronta a condurvi su per un'altra scala dentro un vasto dormitorio contenente sette letti, tre tavoli, e due tinozze in grado di soddisfare qualsiasi possibile esigenza.

Un edificio ancora più degno di considerazione si ergeva nel cuore di quelle montagne di sogno. Era l'antico Ospizio di Campiglio, un tempo tenuto dai monaci e dal 1868 nelle mani di Giambattista Righi di Strembo che l'aveva acquistato dalla Curia deciso a farne uno "Stabilimento alpino".

Continuava comunque ad essere una delle meraviglie del luogo sia per l'enormità del complesso sia per la storia incredibile che trapelava dal suo stesso abbandono. Così dal Freshfield era presentato:

Simili ospizi si trovano anche nelle Alpi Orientali: a San Martino, a Paneveggio, ad Auf der Plecken. Ma Campiglio è la più grande costruzione del genere. Il fabbricato è disposto in modo da formare un rettangolo del quale l'Ospizio occupa tre lati. Lunghi porticati conducono da un'ala all'altra, e danno accesso ai locali i quali s'affacciano tutti all'esterno e sono allegri e ben illuminati. La Chiesa, alla cui costruzione secondo la leggenda presero parte gli angeli, occupa parte del quarto lato del rettangolo. Essa contiene un affresco della prima metà del sedicesimo secolo di un certo valore. Qualche secolo dopo i traffici presero altre vie e i monaci, che fino allora avevano adempiuto ai doveri dell'ospitalità, partirono lasciando l'Ospizio nelle mani di un contadino il quale teneva a disposizione dei pellegrini uno o due locali.

E a ricordo d'una delle soste di Freshfield allo stabilimento la conoscenza ch'egli ebbe modo di fare con il celebre patriota ed etnografo di Pinzolo Nepomuceno Bolognini,

un giovane membro della locale Società Alpina, ch'era diventato un personaggio importante per le sue avventure e il suo eroismo.
Accompagnato dal giardiniere e dal carpentiere alcuni giorni prima s'era avventurato all'attacco d'una delle vette ad est della Val Selva. La strada fu più lunga e più difficile del previsto, e sul far della notte la comitiva stava scendendo lungo una stretta cresta del monte. Improvvisamente furono arrestati da un ringhio terrificante, e dopo alcuni istanti, molte centinaia di piedi più in basso, scorsero un grosso orso proprio nel punto in cui dovevano passare. L'animale, invece di andarsene come sono soliti fare gli orsi nella vita di ogni giorno, si comportò esattamente come gli orsi delle storie, od uno di quegli animali che sono la delizia e il terrore dei moderni asili d'infanzia. Ritto sulle zampe posteriori, gli occhi lampeggianti di furore, apriva la bocca rossa e, a tratti, sbatteva con ferocia le mascelle.
- Si può immaginare la nostra paura! - disse il povero alpinista. Egli e i suoi compagni decisero di non esporsi mai più al rischio di un simile incontro". Incontro che il protagonista vero dell'avventura - Nepomuceno Bolognini in persona - pensò bene, in seguito, d'immortalare nel popolare e divulgato suo racconto "El sass del Bargianela.

[modifica] Un'antologia continua

Con la fortunata infanzia avuta in sorte Freshfield, oltre che un conoscitore istintivo di montagne e descrittore ineguagliabile delle sue eccezionali imprese, si trovò ad essere uno dei grandi maestri dell'escursionismo montano; l'ideatore nelle università sia di Cambridge che di Oxford delle cattedre di geografia orografica e di glaciologia; il conferenziere insigne (e oltre modo richiesto) delle realtà alpinistiche più straordinarie che assai spesso lo videro "primo attore"; e soprattutto il promotore - presso la Royal Geographical Society - di speciali riconoscimenti ai benemeriti dell'esplorazione terrestre, riconoscimenti che si gloriarono dei nomi di Edward Whymper (1840-1911), di Ioseph Dalton Hooker (1817-1911), del Duca degli Abruzzi (1873-­1933), di William Martin Conway (1856-1937), e di altri.

Come divulgatore di conoscenze alpinistiche non fu certo un incantatore di platee qual era il Payer. Né un narratore di vicende strabilianti come già allora era considerato lo Stephen. Troppo invero egli fu cultore d'una lingua letteraria per essere disposto ad usarla a braccio come sapevan fare appunto Julius von Payer e Leslie Stephen. Quanto alle guide magistrali delle quali William Augustus Coolidge fu insuperato dispensatore, diciamo pure che solo le interminabili sequenze di escursioni e le numerose relazioni all'Alpine Club non permisero al londinese quel lavoro unico ed inimitabile che, nel ritiro di Grindelwald, fu perseguito dal Coolidge dopo un trentennio d'imprese e di conquiste alle quali anima e corpo l'enigmatico reverendo scrittore s'era dedicato.

Non per questo Freshfield, nelle sue superbe opere, lesinò indicazioni e consigli che - dei suoi resoconti e delle sue narrazioni ­ rappresentarono gli autentici gioielli. Soltanto che nella minuziosità descrittiva delle sue pagine era per lo più spinto da quella commozione per la bellezza delle valli e dei monti ch'era la sola salvaguardia da qualsiasi (a quei tempi!) immaginabile profanazione. Pagine - le sue - che rimarranno come una poetica antologia di ciò che rappresentarono le Alpi (e in particolar modo le Alpi tridentine) per i giorni eroici ed intemerati dell'alpinismo.

Una carrareccia costruita per le segherie - sarà bene godere qualcuna di queste pagine - attraversava ora una piana sassosa dove il torrente per la prima volta usciva dal suo letto e devastava i prati, mentre grossi blocchi caduti dalle cicatrici delle rocce soprastanti giacevano a lato della via.
Riparati dalla doccia di spruzzi fra due di questi massi, ci fermammo ad ammirare l'ultima grande cascata quella di Nardìs, che sbuca dal cielo balzando e vibrando quasi sulle nostre teste in una duplice colonna. La vidi una volta in giugno quando le nevi si stavano sciogliendo e mi sembrò la più bella delle cascate alpine.

E la poesia d'una piccola locanda di valle:

L'albergo di Dimaro è una minuscola casa dall'aspetto pulito, che evidentemente apparteneva a gente per bene. Qualcuno di noi passò le ore del pomeriggio facendo la siesta nella fresca stanza da letto con una fila di vasi di fiori sulla finestra, attraverso i quali giungevano i riflessi di un'atmosfera vibrante di luce, frammisti al suono dolce prodotto dal fruscio dei rami e dall'acqua corrente. Lo splendore del sole di montagna è sempre ricco di luce e di freschezza; soltanto laggiù nelle stagnanti pianure, il calore di mezzogiorno brucia come una cupa fornace, inaridendo le energie delle piante e degli uomini.

E la dolcezza romantica d'una giovane luna:

Le bellissime ombre della sera, che già strisciavano sul panorama, ci diedero un senso più d'inquietudine che di gioia. Eravamo partiti tardi da Agordo. Il tempo era fuggito via; mancava circa un'ora al tramonto e noi eravamo lontani, sulla parte opposta del Passo. Non c'era da perdere un attimo se desideravamo pernottare nella Valle del Primiero. Ci avventurammo senza soste sui bastioni, giù per i canaloni, attraverso i vasti bacini di neve molle finché, mentre il sole tramontava, ci trovammo finalmente sull'orlo di ripide rocce precipitanti in una valle verso sud, la tanto cercata Val Canali.
Un susseguirsi di incassature piene di neve resero agevole la discesa e ci permisero di scivolare velocemente per circa duemila piedi. Quando raggiungemmo il fondo della valle la luce del giorno ci aveva ormai lasciati e la giovane luna gettava una luce romantica sui grandi pinnacoli del Sasso di Campo e del Sasso d'Ortiga, disdegnando l'umile compito di servire da lanterna alla nostra vita.

E la rupestre solitudine abbandonata all'immobilità d'un lago:

Il lago di Alleghe giaceva tranquillo nella sua conca. Oltre sorgevano le Dolomiti Centrali, il Pelmo, il Civetta, e le Tofane offrendosi vagamente maestose attraverso l'aria risplendente, come mostri preistorici accucciati sui colli verdi a prendere il sole nella brezza del meriggio. Da un lato si guardava giù verso la sassosa devastazione della grande solitudine dove eravamo noi, e dall'altro verso la foresta di Paneveggio e una striscia verde di pascoli ornata di freschi laghetti. Lontano, verso ovest, si stendevano ad ondate le montagne del Trentino, ampia distesa di un paese accidentato che s'allarga fra il Brenta e l'Ortles. In questa regione la solita regola è rovesciata. Mentre le gole dei torrenti sono strette ed impervie, le alture sono boscosi altipiani coperti di villaggi. Viste dal Passo di Carezza le sommità ampliano il paesaggio invece che limitarlo; allargano i loro vasti dorsi alla luce del sole invece che toglierla. Anziché fermarsi contro la catena opposta lo sguardo spazia attraverso venti catene spuntanti, e vaga fra un centinaio di depressioni, delineate o confuse, a seconda che la luce solare cade su di esse fino a che trova all'orizzonte le nevi delle montagne lontane.

[modifica] Le Alpi Italiane

Di pari passo con la sua poderosa formazione alpinistica Douglas William Freshfield portò avanti all'Università di Oxford il suo duplice corso di laurea: corso che - concluso nel 1868 ­ gli permise finalmente d'impostare la sua vita innanzi tutto sposando la dolce e devota Auguste Charlotte Ritchie, che per tutti i suoi giorni gli sarebbe stata appassionatamente vicina, e poi dando inizio a quei fondamentali viaggi attraverso le Alpi e nell'intero Medio Oriente, dall'Egitto alla Palestina, alla Turchia, all'Armenia, alla favolosa Persia, alle bibliche montagne del Caucaso dove (in compagnia di A. Moore e di C. Comyns Tucher) scalò l'Elbrus e il Kasbech percorrendo tutte le alture racchiuse tra le due cime, alture dove tornò nel 1887 per nuove esplorazioni, ma specialmente e dolorosamente nel 1889 alla ricerca di due tra i suoi più cari amici (W. F. Donkin ed H. Fox) non più rientrati da una loro eroica quanto tragica spedizione.

Le mie gite nelle Alpi dopo il mio matrimonio - egli un giorno dirà ad Adolfo Hess - furono regolarmente più lunghe e meno errabonde. Passai tra le montagne parecchie estati, e in diverse riprese visitai quasi tutti i distretti tra le Alpi Marittime e la Carinzia. Ma queste escursioni erano alternate con quelle che i miei amici più ortodossi chiamavano infedeltà, e infatti, ad altitudini più o meno elevate, feci scalate negli Appennini della Toscana e dell'Abruzzo, in Corsica, in Cantabria, nell'Atlante algerino.

Freshfield era vicino ormai ai trent'anni. Dopo avere per quasi un decennio preso conoscenza e confidenza con le Alpi, e in particolare con quelle Retiche e Dolomitiche - dopo avere constatato le aride guide di mercato che ne illustravano le bellezze ­ decise di raccogliere, a Londra, sette anni di elaborati appunti e di farli stampare sotto il titolo di The Italian Alps per quanti - amanti della montagna - erano in grado di rivivere, più che le sue parole, le segrete emozioni, gli appagati trasalimenti, le solenni allegorie, le indovinate sineddochi che le frequentazioni con il sottile Leslie Stephen e con l'euforico Francis Fox Tuckett gli avevano insegnato. Poiché solo vivendo per anni con i poeti dei sentieri, delle cime, dei panorami, dei momenti estatici, delle gioie incomunicabili, si potevano raccontare le superbe rocce, esultare alle altezze raggiunte, comunicare il tripudio dei sentimenti. E realmente Freshfield - dopo la prometeica impresa della Presanella, e dopo le magiche esperienze sul Brenta - offrì alla letteratura dell'escursionismo l'umanità d'una tale poesia, vale a dire (dopo la singolare composizione di Across Country from Thonon to Trent offerta in poche copie agli amici) la lirica rivelazione di The Italian Alps (1875), il suo capolavoro italiano, seguito dalla stupenda narrazione apparsa l'anno seguente nel numero cinquantuno dell'«Alpine Journal» (1876) ­ relativa alle Alpi Apuane - in merito alla quale il traduttore italiano, Richard Budden, riconobbe che molto difficilmente si sarebbe riusciti a riprodurre lo stile elegante ed immaginifico del distinto scrittore inglese nella versione italiana. Anche se ogni pagina, a tutt'oggi, conserva intatto il terso rigoglio d'una polla sorgiva. Scriveva:

Le Alpi Apuane conosciute dagli Inglesi come le montagne di Carrara, sono ammirate con passione dai poeti e dai pittori per le loro forme ardite e belle, e per il loro stupendo colore. Il pittore londinese John Ruskin sentì di doverne fare elogi eloquentissimi nei suoi scritti, attribuendo alla vista continua di codesti incantevoli monti l'influenza delle popolazioni nel rinascimento dell'arte in Toscana.
L'occhio del viaggiatore scorge le loro creste aguzze dalle città di Pisa, di Lucca, di Volterra, e anche di Firenze. Si innalzano maestosamente sopra le acque limpide del Golfo di La Spezia, e sporgono come le teste di tanti guerrieri armati dall'anfiteatro delle folte ed argentee foreste di ulivi, coperti nell'inverno di candida neve, e dorati l'estate dal sole e dalle varie tinte dei marmi antichi, perdendosi poi nelle ombre purpuree di un cielo meridionale.
Il solo luogo nondimeno, ove i pochi turisti inglesi li contemplano, è la città di Carrara, celebre per la sue numerose cave di marmo. Questa città è situata in un profondo bacino di verdura, ove varie valli si riuniscono. Essa è circondata da fertili colline, si apre verso l'ovest per permettere di godere la veduta e le brezze del mare, ed è chiusa verso est dalle sommità torreggianti del gruppo centrale delle Alpi Apuane.
Intorno alle mura della città si vedono le colline coperte di vigne verdeggianti e di alberi da frutta; i massi di marmo rossastro che sono sospesi lungo il corso del torrente sono rivestiti di felci, di fiori, di muschi, e nel mese di maggio ornati di una frangia dorata di citisi.
Una passeggiata di un miglio inglese circa verso le cave fa cambiare la scena. Oltrepassato l'ultimo villaggio, il forestiere si trova, per così dire, in un altro paese. Una lunga e stretta vallata gli s'apre davanti, chiusa da tutte le parti da nudi precipizi marmorei. Si vedono immense strisce bianche in forma di ventagli che scendono per i fianchi rossastri delle montagne: valanghe che segnano la posizione delle cave. E il brillare dei pezzi di marmo di un bianco purissimo dà lo stesso abbarbaglio agli occhi che un campo di neve nelle Alpi.

[modifica] 1875-1878

[modifica] Dalle Alpi agli Appennini

Non era ancora l'estate del 1875, e la Casa Editrice Longman's di Londra aveva appena posto sul mercato inglese la splendida prima edizione di The Italian Alps, quando Freshfield, in compagnia della fedelissima guida François Devouassoud, si mise di nuovo in viaggio verso l'Italia, e più precisamente verso "le radure e i picchi degli Appennini, così frequenti nelle poesie di Lorenzo de' Medici".

La scelta delle Alpi Apuane, dopo gli intensi anni che l'avevano reso primattore dell'alpinismo europeo, voleva essere quanto di più sereno e pastorale si potesse congetturare. O per meglio dire: quanto di più coerente al concetto turistico-alpestre che Freshfield, impresa dopo impresa, era andato formulando.

A molti dei suoi antagonisti invece - dopo i tre volumi che tra i venti e i trent'anni egli aveva pubblicato - parve, la sua, una specie di sconfessione. Quasi una resa. Essere "soci" del Club alpino Inglese voleva dire, a quel tempo, occuparsi di ricerche, di esplorazioni, e di ascensioni difficili, di valli sconosciute, e di vette inviolate, e non certo accontentarsi di escursioni su alture secondarie come quelle appenniniche. Per cui gli apprezzamenti degli zelanti "estimatori" non si fecero attendere! Dalle Alpi italiane, e dalle nevi del Caucaso, dunque il Freshfield era passato (erano i commenti!) alle erbe in fiore delle italiche colline.

Parole che Freshfield - facendole proprie - restituì in georgici ed esemplari resoconti con tutta la cattedratica bonomia di cui era capace. E fu proprio quella bonomia a determinare la nascita d'un nuovo capolavoro di letteratura alpina: a dimostrazione che la georgica conoscenza delle belle montagne toscane valeva ben più d'una catena alpina da scoprire e scalare. Nacque così un genuino testo poetico, al punto da far dire al traduttore italiano che molto difficilmente si sarebbe potuto rendere lo stile elegante ed elegiaco del distinto scrittore inglese nel coinvolgere i lettori in uno stupore continuo per il leonardesco paesaggio apuano.

Sotto i nostri piedi giaceva la gentile Toscana e le sue nobili città. Nel vallone più distante, illuminato dal sole mattutino, stavano Firenze e Pistoia. Sulla montagna vicina, verso sud, era Volterra con le sue mura etrusche. Da lontano si scorgeva Lucca, un punto rossastro in mezzo a giardini d'ulivi. A non molta distanza il viaggiatore vedeva spuntar fuori i monumenti di marmo di Pisa, brillanti come bianchi cristalli al fulgore del giorno. E sulla costa giaceva Livorno, che i marinari inglesi chiamavano Leghorn, il cui faro, nel momento in cui lo guardavamo si spegneva.

Una vera sinfonia di visioni cittadine, entro cui non era difficile capire come la superiorità di Freshfield si fosse trasferita nella pacatezza invidiabile del linguaggio, tale da far dimenticare ogni altra ragione di diatriba.

Il paesaggio dinanzi a noi somigliava ad un quadro che un pittore avrebbe potuto ideare per dipingere un'Italia secondo i poeti. Esso non ritraeva, infatti, tutto lo splendore delle alpi italiane, ove la grandiosità della Svizzera viene come addolcita dalla vicinanza dei vigneti e dei verdi boschi di castagni. Questa 'Valle d'Aosta' degli Appennini presentava un aspetto meridionale, pieno di luce e di calma. Un velo di grigiastra verdura copriva le colline più basse sul corso del torrente. Più in alto si convertiva in una tinta rossa, là ove la vegetazione della primavera non aveva ancora esercitata la sua influenza benefica sul suolo. Al limite superiore di questa flora nascente si vedevano numerosi castelli e villaggi costruiti sui fianchi delle montagne, che davano un carattere pieno di vita, a questo spettacolo della natura. Abbiamo potuto riconoscere Barga, una piccola città che non ha cambiato il suo aspetto medioevale, tranne che nella rete delle agevoli strade per condurre il viaggiatore alle sue porte. Più in alto si vedeva il paese di Coreglia posto sul fianco del monte Rondinaio. Sulla sommità di questa bellissima montagna si estendevano lunghe strisce di neve bianca a completare il superbo quadro che si presentava ai nostri occhi meravigliati.

Decisamente, a tali prospettive, non v'era possibilità di replica per i veri cultori dell'alpinismo. Ed entrava la soave Pania tra le vette più singolari offerte dall'orografia europea.

Come il magnifico campanile di Giotto serve di segnale alla città di Firenze, così questa montagna di marmo si distingue da tutta la Val d'Arno. Da tutte le parti il pellegrino scorge questa imponente sommità che torreggia all'orizzonte come un antico castello del Medio Evo. Dal ponte alla Carraia le nevi della sua cima brillano come oro e argento nelle mattinate d'inverno, e durante l'autunno le sue rocce riflettono un color rosso di carbonchio. Intorno alle cave di marmo di Carrara esistono alcune cime più elevate; ma per la sua prominenza, il suo isolamento e la sua forma, la Pania occuperà sempre il primo posto nella nostra immaginazione quando pensiamo alle Alpi Apuane. Questa montagna è come un punto di riferimento da La Spezia fino a Firenze; come un faro per i marinai sul mare toscano fino all'isola di Corsica. Comprensibile è dunque il desiderio che sorge nell'animo del viaggiatore di arrampicarsi sulla sua cima onde godere, da quell'altezza, tante storiche rimembranze. La Pania, cioè, più di tutte le montagne secondarie d'Italia è degna dell'attenzione che hanno per lei i turisti. Se essa si trovasse situata nella Svizzera, da molto tempo i suoi dintorni sarebbero coperti di alberghi, con un concorso incalcolabile di forestieri da tutte le nazioni.

Fu così ch'ebbe la Pania, in tutto il mondo anglosassone, la sua ineguagliabile consacrazione.

[modifica] Luce e stupore

Come un mare - aveva cantato Hölderlin - mi giaceva innanzi il paese donde ero salito: tutto giovinezza, tutto viva gioia. Era un innumere gioco di colori, con cui la primavera salutava il mio cuore. E come il sole del cielo si trovava nei multiformi arabeschi di luce che la terra rimandava, così il mio spirito si riconosceva nella pienezza della vita circostante che lo invadeva da ogni parte.

In una tale prospettiva il richiamo delle valli e delle vette rivelò agli uomini - a uomini naturalmente predestinati - la loro vocazione più autentica, la loro dote più insospettata, consacrando in loro la preminenza della contemplazione su ogni altro godimento fisico offerto dal creato.

Nasceva con tali uomini - uomini di indiscussa levatura etica ­ quella letteratura alpina (miniera ancor oggi d'insondata poesia tra parola ed estasi) che, oltre ai puntuali saggi di Tyndall, di Coolidge, di Agassiz, oltre alle vissute narrazioni di Whymper, di Mummery, di Stephen, oltre alle affascinanti raccolte di ricordi di Javell, di Kugy, di Rey, ci lasciarono i profondi memoriali di Lammer, ed i sereni testi autobiografici di Tuckett, di Zsigmondy, e di Douglas William Freshfield.

E proprio per l'ispirazione, e la versatilità, e la immediatezza espressiva del Freshfield fu questa la felice sorte di "Schizzi dagli Appennini" (con il sottotitolo di 'Alpi Apuane'), eccezionale monografia, redatta da un personaggio che ormai faceva parte dell'alpinismo europeo, e pubblicata nel febbraio del l876 sul numero cinquantuno dell'«Alpine Journal» di Londra.

Sette anni appena sarebbero passati e - con la comprovata guida di Freshfield (François Devouassoud) - giunse nelle Apuane un altro dei maggiori alpinisti dell'epoca, Francis Fox Tuckett, d'oltremanica egli pure. E poiché possediamo anche del Tuckett quanto ne scrisse e pubblicò sull'Alpine Journal del novembre 1883, sappia come andarono le cose:

La descrizione molto affascinante di William Douglas Freshfield riguardo alle Alpi Apuane, chiamate anche montagne di Carrara, e alla scalata ch'egli ha compiuto sulla Pania della Croce, pubblicata dall'Alpine Journal del febbraio 1876, mi ha reso impaziente di conoscere per bene questo amabile massiccio, e così - dopo un delizioso mesetto passato tra città e colline della Toscana e dell'Umbria, da Volterra a Urbino - ho virato di bordo verso le montagne, trovandomi con François Devouassoud nel pomeriggio del 15 maggio scorso lungo il sentiero costeggiato dai castagni sopra Cansoli diretto al piccolo villaggio di Levigliani.
Riguardo alla nostra interessantissima salita del giorno successivo, alla cima della Panìa, mi basterà dire che la parte sommitale era ricoperta da un sottile strato di neve, con una cresta affilata come quella del Lyskamm, percorribile in un quarto d'ora. Inoltre desiderando visitare Barga nella valle del Serchio, ho preferito una via di discesa diversa da quella di Freshfield, per la valle della Torrite di Petrosciana che termina a Gallicano. Allo scopo anzi di limitare gli errori ai prossimi viaggiatori voglio ricordare che dopo essere scivolati per un pendio nevoso in direzione est-sudest, ci siamo trovati a mille piedi o forse anche più al di sotto della vetta, tagliati fuori dal normale sentiero. Risaliti di nuovo, e faticosamente, i costoloni sulla nostra sinistra, abbiamo raggiunto le tracce di un viottolo che apparentemente partiva della valle della Torrite Secca attraverso lo spartiacque congiungendo la Pania con la Paniella, ma era nascosto dalla neve dove questo superava la testata del colle che avevano varcato in precedenza.

E così per pagine e pagine, con quel suo modo di ricordare e di esporre metodico, preciso, per nulla sbrigativo, privo forse di emozioni forti, comunque soddisfatto delle novità, delle elencazioni, delle impressioni generiche, dei nomi, delle misure, dei momenti del giorno. Probabilmente una delusione per chiunque abbia avuto modo di provare amore per le montagne con il piccolo resoconto apuano - luce e stupore - del raffinato Freshfield.

Le vedute della Garfagnana da queste altezze sono veramente incantevoli. I raggi di un magnifico sole illuminavano tutte le terre ed i villaggi sulle sue colline, e penetravano fino in fondo alle vallate delle alte montagne, le cui sommità si ergevano in rilievo sopra il limpidissimo cielo. Un ripido zigzagante sentiero ci menava direttamente a Castelnuovo. Questa remota città montanina è situata alla confluenza di due torrenti al piede di una larga montagna, ed ivi sporge in fuori verso la catena principale degli Appennini in modo quasi da chiudere la valle del Serchio. Dietro si vede sorgere il gruppo dell'Alpe di San Pellegrino ancora coperto di neve al di là della aperta e fertile pianura rinomata per la purezza e salubrità della sua aria nell'estate, e per il freddo intenso nell'inverno.
Entrati nella città domandammo ad un contadino, che si trovava sul vecchio ponte del torrente Turrite Secca, di indicarci il migliore albergo. Egli ci suggerì una casa che non pareva doverci convenire, ed io credetti cosa prudente d'avere altre informazioni prima di decidermi. E i ragguagli non sarebbero mancati, perché essendo una bellissima giornata tutti i lavori della città venivano effettuati sub Jove nella parte ombrosa della strada. Tutti i mestieri infatti erano in piena attività: i fabbri ferrai menavano gran colpi con i loro martelli, i carrai battevano, i calzolai e i sarti cucivano senza darsi riposo, i fanciulli urlavano sdraiati per terra; in mezzo a tutto questo chiasso si sentivano le animate conversazioni e l'eco delle allegre risate delle belle ragazze dai capelli nerissimi sedute in alto sui balconi opposti.
È ben vero che gli Italiani sono sempre più contenti di trovarsi all'aria aperta che in casa. Essi lavorano naturalmente al sole come noi, popoli del nord, prendiamo al sole i nostri divertimenti. Nel frattempo anche noi decidemmo di seguire il consiglio di un calzolaio e di andare a un albergo che avevamo di fronte.

[modifica] Il trionfo della bellezza esistenziale

Non solo la levità poetica e la maturità valutativa degli Schizzi dagli Appennini non temevano ormai confronto con le giovanili esperienze letterarie di Freshfield, ma costituivano - se mai - la sua concezione d'un escursionismo nuovo, libero da emulazioni agonistiche, anzi il manifesto d'avanguardia di colui che, capovolgendo ogni schema tradizionale, alla bellezza delle vette anteponeva le vette d'una bellezza esistenziale che nelle fruizioni culturali vedeva lo scopo d'ogni passione per la montagna.

In questo senso Douglas William Freshfield fu - nella storia dell'alpinismo mondiale - quello spirito eletto di fanciullo, rimasto tale fino alla morte, non solo scevro da affanni agonistici e da gelosie sportive, ma capace di sdegnare ogni rivalità, ogni velleità, ogni protagonismo. Un'anima di poeta che tutta fece sua la liricità delle solitudini e delle visioni alpestri. Un'anima di romeo che amò l'arte paziente delle lontananze, delle altitudini, dei silenzi, delle liberazioni da ogni terrestrità. Se solo avesse avuto il dono pittorico d'un Gilbert o cartografico d'un Payer sarebbe assurto, nella storia del pionierismo orografico, tra gli unici. Per quanto ugualmente - e come pochi - segnò gli itinerari alpini delle sue imprese; divise la sua vita con la violenza delle creste e delle perturbazioni; barattò la sua giovinezza con gli smarrimenti e con le perdizioni dei cieli. E dopo avere in più modi esperimentato come ogni altura, anche la più dilaniante e disumana, fosse in grado di tentare e d'estasiare il pellegrino, il profugo, l'esule, il selvaggio che ogni uomo aveva in sé, ecco Freshfield discendere il biblico Sinai delle sue esaltazioni per raccontare le vertigini dei suoi sentieri dove più alta e più commovente è la terra.

Sia Freshfield che Devouassoud - quella prima settimana di maggio del 1875 - erano scesi a Carrara sperando di trovare, almeno in parte, la proverbiale primavera italiana. E invece

mentre a Castelnuovo tutto era verdeggiante, e ogni bosco appariva dorato di citisi in fiore, cinquecento piedi più in su i castagni cominciavano appena a mettere le prime foglie, sicché i valloni serpeggianti dell'Appennino sembravano ancora, ai loro occhi, attanagliati dall'inverno.

E poiché lo stilato programma prevedeva una decina di giorni negli Appennini di Carrara e di Pistoia, per poi passare sulle montagne di Massa, ritennero opportuno di modificarlo dirigendosi ai versanti più miti e più rigogliosi del Gran Sasso d'Italia, versanti poco conosciuti, ed anche poco apprezzati, dal mondo alpinistico inglese che non, riponeva interesse alcuno in gruppi montuosi di così spoglio rilievo e di così irrilevante frequentazione. Ecco allora il Freshfield, ideatore ormai (e sostenitore) d'un escursionismo popolare - dagli ideali sentimentali ed etici ­ chiudere la parentesi apuana diretto a Lucca e alla piana dell'Aquila con la gioia disincantata di dare dignità scientifica ad ogni suo viaggio:

Avevo pensato di passare qualche tempo in queste montagne, ma, avendo tutta l'Italia dinanzi a noi, non sembrava opportuno di rimanere in una regione ove la primavera era appena principiata. Ci dirigemmo dunque verso il Gran Sasso d'Italia, promettendoci di ritornare un'altra volta nel giugno o nell'ottobre sulla montagna pistoiese. Lasciammo Castelnuovo verso le quattro pomeridiane, e grazie ad un eccellente cavallo e ad un buon vetturino i quaranta chilometri fino a Lucca furono percorsi prima di notte. Non si può descrivere il piacere che prova il viaggiatore, dopo una lunga escursione sui monti, di trovarsi in uno dei barroccini della Toscana, avendo davanti un vivo e leggero cavallo che divora il terreno in un continuo galoppo. Che differenza dal ritorno da Pontresina in un Berg-wagen dell'Engadina.

E con questa serafica disposizione alla letizia egli lasciò intendere quel suo ricuperato alpinismo, ovvero sia quel godimento etnologico di luoghi, di usi, di costumi, di abitudini, di tradizioni che per tutto il secolo diciannovesimo era stato il fiore all'occhiello della vera narrativa turistica. Ad esempio scriveva:

Gli Italiani non hanno la consuetudine d'assegnare nomi completamente inadeguati, e non darebbero l'appellativo di Gran Sasso o di Monte Corno ad una collina informe. Io avevo ben osservato i singolari disegni del signor Edwar Lear nell'Illustrated Excursions in Italy, e sapevo che la montagna offriva diverse immagini a seconda dei punti da cui la si osservava. Inoltre avevo appreso dalle mappe che il Gran Sasso si stendeva, come l'Ortles, lontano dalla principale catena, tanto che la nostra veduta era paragonabile a quella del gigante tirolese da dietro Santa Caterina.

Non era comunque solo di questo che Freshfield s'accontentava. Altre cose egli voleva conoscere.

La Maiella è ricca di eventi storici. Dal suo eremo, la Badia di Santo Spirito, Pier da Morrone fu trascinato con forza al trono papale, il cui abbandono fu aspramente condannato da Dante. Qui giunse anche l'illustre Cola di Rienzo, in fuga dai nobili di Roma, del quale le cronache monastiche non accennano affatto. La capanna di un pastore sulla montagna diede rifugio a Tasso che cercava di sottrarsi dalla persecuzione di Alfonso d'Este.

A Pescara, e precisamente vicino al guado sabbioso del fiume dove il primo dei grandi condottieri, Muzio Attendolo Sforza, morì miseramente, è collegata la principale linea costiera orientale che va da Ancona a Brindisi. Per le successive due ore le rotaie percorrono il lido. I colori del mare e della terra durante questo viaggio costiero erano di una eccezionale intensità".

[modifica] L'alpinismo di un gigante dell'alpinismo

Giunsero in tal modo alla piccola Valle del Tordino, separata dall'ampio bacino del Vomano da colline con irti versanti. Orbene fu proprio a questo punto che Freshfield, il gigante dell'alpinismo inglese - con la tranquillità che la devota ed esperta presenza di Devouassoud gli dava - elevò e dispiegò il suo superbo canto ad una delle più oscure, o quanto meno sconosciute, contrade montuose d'Italia rivelando tutta la sua disposizione culturale, la sua carica emotiva, l'inverosimile suo coinvolgimento in quella straordinaria appenninica esperienza.

Canto superbo - dicevamo - del quale almeno un paio di capoversi riteniamo doveroso riportare, quanto meno a renderci conto di quale apertura di cuore egli andasse godendo la montagna.

Sopra di noi, troneggiante sulla sommità di una collina, un grigio villaggio ci inviava il festoso suono delle campane che si diffondeva nell'aria calda del mezzogiorno. Una nuova strada che portava al paese era appena stata ultimata. Tale segno di progresso è molto comune in Italia dove l'istinto romano di costruire le strade sembra essersi ravvivato con straordinario vigore sotto il nuovo governo nazionale. Gli Alti Appennini, verdi alla loro base, e marron e bianchi sopra, i gemelli di Civitella del Tronto, e gli speroni settentrionali del Monte Sibilla, si ergevano imponenti contro il cielo. La strada, dopo aver attraversato la prima collina, serpeggiava su e giù per dolci saliscendi dominati dalla doppia cresta del Gran Sasso, fino a quando (a due ore da Teramo) discendeva rapidamente verso Montorio situato sul Vomano. Nei pressi del ponte lasciammo il percorso che conduceva per le montagne a L'Aquila, e la nostra guida imboccò l'apposita strada di campagna che subito, e a lungo, s'inerpicò tortuosamente. Una breve discesa sull'altro lato ci portò a Tossicìa.

Ecco dunque Freshfield - arrivato con il sole al tramonto a Tossicìa - non saper (davanti a quattro povere case) se pernottare in quel piccolo borgo, o proseguire fino a un insediamento chiamato Isola.

John Murray, in uno dei suoi celebri elenchi di mete alpinistiche e di località intermedie, suggeriva di sostare ad Isola. Fortunatamente a Tossicìa un giovane ingegnere, impiegato nella costruzione di strade comunali, indirizzò i due verso Casale di San Nicolò, una borgata sorta quasi all'ombra dell'imponente cima. Ricordò deliziosamente Freshfield:

Questo paese - era situato in una valle sugli argini di un ruscello, e per raggiungerlo noi dovemmo discendere rapidamente ed attraversare il torrente. Dopo mezz'ora di sostenuto cammino attraverso un bel querceto coperto da un roseo manto di ciclamini arrivammo alla nostra meta.
San Nicolò è composto da alcune squallide casette riparate dai boschi e situate sulla riva dell'accennato corso d'acqua nel punto dove esso nasce. La montagna, un precipizio dalla punta acuminata di roccia bianco-giallastra, sovrastante un ampio piedistallo di faggi, balza in alto improvvisamente. I dirupi sono inaccessibili salvo forse un luogo dove le valanghe, precipitate a primavera, giacciono formando un'ampia e lucente striscia tra il verde.
La nostra guida sapeva dove condurci. Pur modesto come abitato, San Nicolò aveva il suo parroco, che si offrì immediatamente di ospitarci per la notte.
La casa parrocchiale era un edificio di due stanze. Accanto al caminetto della stanza d'ingresso erano appesi una chitarra rotta e un fucile carico. Contro la parete una piccola tavola racchiudeva una credenza con alcune tazze e piattini. Sulle mensola alcuni pezzi di grezza terracotta abruzzese. E, a completare il mobilio, due o tre sgabelli. L'altra strada conteneva un ampio letto ed alcune provviste (frutta secca e carne affumicata) che pendevano dalle travi. Era una misera abitazione, e François Devouassoud, con la sua grande esperienza di montagna, definì il parroco come 'le plus pauvre curé' mai incontrato. Egli comunque sembrava contento del proprio destino. Ci riservò un caloroso ed umile saluto. E ci fece gli onori di casa con dignitosa familiarità.

Qualcosa, oltre tutto, che - con due sconosciuti serali in cerca d'un riparo - pensando al fenomeno del brigantaggio abruzzese di quegli anni, aveva dell'incredibile!

[modifica] Il buon parroco Matteo

Ovviamente la sua ospitalità non ci permise di ricorrere alle nostre provviste. Infatti ci servì della buona minestra, dell'ottimo vino di campagna, e dell'eccellente caffè. In cambio gli offrimmo del the, una bevanda che non aveva mai provato, e di cui si mostrò subito curioso di conoscere il prezzo.
Non aveva un domestico fisso, ma volentieri i suoi parrocchiani, con cui era in ottimi rapporti, gli davano una mano a turno. La sua unica compagnia a casa era un grosso cane che, a dispetto del collare chiodato che lo rendeva un nemico formidabile dei lupi, aveva gli stessi modi cordiali e simpatici del padrone.

Parole di un realismo commovente! E qui, più che del Freshfield alpinista, bisognerebbe parlare del Freshfield letterato, cronista di vaglia, e spirito delicato nei suoi nutrimenti di stagioni, di solitudini, di semplicità incredibili, di povertà incantate, al punto da somigliare nei suoi diari di viaggiatore al candido Lisi, al poetico Linati, al popolano Tombari, all'esemplare Piovene, tutti dediti al sortilegio ascetico del reale.

Fu fatica inutile - riprese il Freshfield - cercare di dissuadere il buon parroco a non cederci il suo letto. Ci augurò la buona notte, dicendoci scherzosamente che la nostra permanenza sotto il suo tetto ci avrebbe risparmiato alcuni degli anni da trascorrere in purgatorio, e si preparò un giaciglio nel salotto.
Io e il mio amico andammo a letto. Il tempo passava lentamente. Assopito solo in parte, la mia mente di solito abbastanza pigra si lasciò andare a fantasiose e fosche storie. Il buon parroco simpatizzava con un traditore che stava radunando una banda di briganti pronti a saltarci addosso. Li sentivo avvicinarsi e riconoscevo il loro capo: era l'uomo che avevo visto mercanteggiare per il fieno. Erano ormai vicini alla porta. Dovevamo batterci con essi o arrendersi.
Mentre una metà della mia mente si interrogava convulsamente sul da farsi, l'altra metà era cosciente del trucco, che il rumore udito cioè era il movimento del bestiame, il cadere delle foglie, lo scorrere del torrente. Questo sogno comunque rese la notte odiosa e mi sentii sollevato quando il sesto o settimo rintocco ci avvertì che era l'una e mezza del mattino e che potevamo iniziare ad alzarci. Lentamente ci apprestammo ad accendere il fuoco ed a preparare il caffè. Ma all'ultimo momento il nostro parroco ci fece ritardare la partenza. Noi avevamo segretamente sperato che lui avesse rinunciato a venire con noi, e mentre gironzolava in pantofole non sembrava affatto covare progetti d'arrampicata. Ma quando fummo pronti per partire, con nostro stupore tirò fuori un paio di scarponi ed iniziò lentamente ad ingrassarli prima di infilarseli. Nel frattempo noi dovemmo aspettare pazientemente; ogni altro atteggiamento sarebbe stato scorretto vista la sua gentilezza e semplicità di cuore.

E fu veramente tenerezza quella che Freshfield e Devouassoud provarono per quell'uomo dal cuore d'oro. Anche perché il pur volenteroso sacerdote - giunti all'ultima sosta (cioè alla chiesetta di San Nicola a Corno, antichissimo eremo camaldolese) - stremato se ne tornò indietro. La penna del grande Inglese però continuò nel racconto di quel particolare giorno con una dolcezza bucolica.

Avendo smarrito il sentiero dovemmo arrampicarci alla meglio tra fitti boschetti, ora facendoci strada in una valle rigogliosa, ora risalendo un ripido versante aggrappati ai rami degli alberi.

Nel biancore dell'alba si potevano intravedere pallide primule che sembravano guardarci dalla scura terra. La luce, sempre più intensa, ci mostrava i tesori che stavamo calpestando. La valle che Sordello fece visitare a Dante durante l'ascesa alla montagna del Purgatorio non poteva vantare un tappeto più ricco ed odoroso. Ai nostri piedi si stendevano letti di violette circondate dal blu intenso della genziana maggiore, qui più piccola che nelle Alpi. Quando raggiungemmo la parte superiore della foresta era pieno giorno. Sotto di noi una festa di forme delicate e di vividi colori: viole di ogni sfumatura, genziane a forma di calice o di stella si mescolavano ad una moltitudine di sconosciuti altri bocciuoli. Alla fine giungemmo in un prato di narcisi, alti ed inclinati verso est, come a salutare il sole nascente.

Stavamo ora aggirando la parte nordorientale della piramide del Gran Sasso, percorrendo il lungo avvallamento che costeggia i suoi fianchi orientali e li divide dall'appuntita dorsale del Corno Piccolo. Ma la parete era ancora lontana e per raggiungerla dovemmo arrampicarci per stretti sentieri tra rocce ancora coperte di neve.
Mentre salivamo, il grigiore ad est lentamente si schiariva e la foschia si striava di luce dorata.
Finalmente una macchiolina rilucente brillò all'orizzonte. Largo e piatto il grande astro emerse dalle acque, simile ad una lunga e fiammeggiante fascia più che ad una sfera. Dopo un po' cambiò completamente forma ed apparve come un cerchio completo. I cuculi erano già svegli da parecchio, ma ora l'intero coro degli uccelli ci dedicava il saluto mattutino.

No, non era neppur pensabile che l'uomo della Presanella, e l'uomo del Caucaso, sapesse trovare il tempo e le parole per descrivere con tale dolce "stil nuovo" un così insospettato "orto della regina".

[modifica] Un monumento perenne

Il fatto che Freshfield, salendo verso il Gran Sasso, parlasse di neve nel momento stesso in cui descriveva le "pallide primule" e i "letti di violette" nonché il "blu intenso delle genziane" e i "prati di narcisi" sta a confermarci ch'egli e il Devouassoud, disdegnando la valle del Mavone e il passaggio per Forca, e scegliendo di passare per Casale San Nicola, avevano voluto per primi percorrere un itinerario mai tentato da alcuno, con tratti anche esposti alla mitezza dell'adriaco mare, ma con versanti pure ghiacciati, e quindi soggetti ad alpine difficoltà.

Di ciò Freshfield, in una delle sue più puntuali descrizioni ci lasciò quel resoconto che, nella storia del Gran Sasso ben possiamo considerare il più prezioso. Ecco come introduceva il suo "The Gran Sasso d'Italia" per l'Alpine Journal di Londra, dopo averne scalato il crinale nord della prominenza più alta.

Gli Appennini non sono le Alpi, ma il loro scenario ha caratteristiche e bellezze proprie. Le spaziose valli offrono i più romantici paesaggi, e sulle colline querceti e vigneti a terrazza si succedono interrotti qua e là dalle grigie mura e torri di una città medioevale o dal biancore di qualche grande villa semiabbandonata che splende tra gli scuri pinnacoli dei cipressi oranti, raccolti intorno al suo antico splendore. Sotto il cielo ardente nel punto in cui esso dispiega il suo ampio arco verso il lontano orizzonte le montagne si ergono, catena dietro catena, ambrate o purpuree a seconda se spoglie o coperte di alberi con un cerchio di luce d'oro lasciato dall'inverno sulle ampie fronti. Le alte valli, sempre ventose, presentano ad ogni curva, in sempre nuove combinazioni, fattezze strabilianti di scenari collinari meridionali, di ripidi pendii circondati da castagneti, di irregolari picchi ornati di laburni, di radure luminose di ciclamini, soverchiate da ineguali cime ognuna delle quali culminante con un proprio castello o con una borgata fortificata da dove un lungo sentiero, scavato nelle rocce dal quotidiano passaggio di molte generazioni, discende verso il ponte sopra le bianche pietre e le chiare acque blu.

Ebbene tanto fu bella l'ascesa fra mezzo a primaverili sentieri quanto risultò delizioso il ritorno

come su scarpe alate, ad una velocità che lo stesso Mercurio avrebbe invidiato.

Velocità comprensiva d'indugi continui per la raccolta dei fiori più splendidi, e di soste all'ombra degli alberi a volgere lo sguardo (oltre miglia e miglia di colline) al luminoso mare.

Ma la sorpresa più gentile e più gradita fu ancora quella dell'indimenticabile parroco don Matteo d'Arcangelo, il quale non solo attese con trepidazione il Freshfield e il Devouassoud dalla scalata al Gran Sasso, ma provvide a rifocillarli e a farli riposare prima che riprendessero, per Tossicìa, la via del ritorno.

La sua eccessiva ospitalità, rassomigliante a quella di un albergatore orientale, finì per imbarazzarci. Stavamo infatti semplicemente ammirando un grezzo esemplare di vasellame abruzzese - la tipica brocca da cui solo coloro che conoscono il trucco possono bere senza versare goccia alcuna - che già l'uomo voleva infilarla nel nostro sacco di provviste. Alla fine mise il fucile in spalla, chiuse a chiave la porta, e percorse con noi circa un miglio mostrando ancora una volta quella cortesia così commovente nella sua semplicità. Quando ci separammo ci salutò benedicendoci e baciandoci sulle guance come augurio di pace.
A Tossicìa bevvi una tazza di caffè con l'ingegnere che confermò tutto ciò che m'era stato detto sia sulla scomparsa dei briganti sia sulla sicurezza del paese. La sera stessa raggiungemmo Teramo, ed il giorno seguente arrivammo alla stazione di Giulianova.

Quando, una quarantina d'anni dopo, il noto scrittore Adolf Hess propose a Douglas William Freshfield una fondamentale intervista sull'alpinista e sulla psicologia dell'uomo di montagna, colui che tutta l'Inghilterra ormai considerava un mito non ebbe che da pensare al Gran Sasso allorché olimpicamente rispose: "Per me l'attrattiva più grande dell'alpinismo consiste nel panorama, nei vari aspetti della natura presenti allo sguardo dell'alpinista in successione caleidoscopica. Dormire in una capanna, sedere per un paio d'ore sul mezzogiorno sopra la cima di un monte come su di un trono, e poi pranzare sotto un pergolato di vite, ecco il genere d'alpinismo che mi ha sempre affascinato. La varietà del paesaggio è stata sempre per me fonte di piacere naturale e inesauribile, e in nessun luogo si può ottenere una maggiore varietà che sulle montagne".

Quanto a don Matteo d'Arcangelo (1837-1906), parroco per trentasei anni delle due borgate di Fano a Corno e di Casale San Nicola, Freshfield, con The Gran Sasso d'Italia del 1878, gli aveva decisamente eretto un monumento perenne.

[modifica] 1878-1934

[modifica] Gli anni senza sosta

Ricostruire gli anni intensi di Freshfield dai giorni degli Appennini alle nomine giuridiche ufficiali (avvocato all'Inner Temple e giudice di pace nel Sussex), alle faticose e sofferte spedizioni nel Caucaso (specie nel 1889), sarà difficile sempre. Sappiamo, di preciso, che - conclusi gli studi (con la laurea in diritto civile e in storia) - egli volle subito, con gli amici A. Moore e Carson Comyns Tucker, concedersi un diversivo partendo per il Medio Oriente, l'Egitto, la Palestina, l'Armenia, e la Persia, e sostando (al ritorno) nel Caucaso ove scalò, della gigantesca catena montuosa, l'Elbrus con i suoi 5630 metri e il Kasbek dagli spaventosi ghiacciai. Ma né di questa sua importante spedizione né del suo successivo matrimonio con la soave Augusta Charlotte Ritchie, nelle sue confidenze ad Adolf Hess, amò parlare. Confessò in quell'occasione:

Neppure io saprei fare la cronaca ordinata delle ascensioni che feci allora. Le mie gite nelle Alpi, dopo il mio matrimonio, furono regolarmente più lunghe e meno errabonde. Passai tra quei monti parecchie estati, e in diverse riprese mi portai in quasi tutti i distretti tra le Alpi Marittime e la Carinzia. Ma queste escursioni erano alternate con quelle che i miei amici più 'ortodossi' chiamavano 'infedeltà' e salii ad altitudini ora più ora meno elevate, negli Appennini della Toscana e dell'Abruzzo, in Corsica, in Cantabria, e nell'Atlante algerino.

Fatto sta che, prima del 1870, con audaci cordate (condotte dall'amico idolo, Francis Fox Tuckett) Douglas William Freshfield mise al suo attivo più di venti scalate in altrettante "prime assolute", la maggior parte delle quali nelle Alpi italiane e svizzere, spesso lungo itinerari dalle difficoltà estreme. Alla spartana scuola di Tuckett, che pur lo considerava come un fratello, non gli era fatta concessione alcuna.

A comprenderlo e ad incoraggiarlo in, una vita così severa e così austera mai mancava l'amore e l'orgoglio della giovane e devota moglie. V'era poi sempre la vicinanza silenziosa di colui ch'egli considerava il suo unico impareggiabile maestro, il savoiardo François Devouassoud, la guida che gli rimase fedele fino alla morte. Discepolo, prodigioso di Devouassoud, egli poteva dire di sé:

Io appartengo alla classe dei viaggiatori di montagna piuttosto che agli alpinisti puri e semplici. Io apprezzo e godo i monti soprattutto esplorandoli: perciò ho un debole speciale per quei passi che, lungo vie non ancora usate, portano il viaggiatore davanti a nuovi panorami.
Credo di salire in modo abbastanza prudente e sicuro sul ghiaccio e sulla neve: in questo fui istruito da uno dei più grandi maestri, il mio caro amico François Devouassoud di Chamonix. Riconosco perciò che mai potrei tentare in nessun tempo di competere con le prodezze della moderna ginnastica tra le rocce. Il lato occidentale del Dent Blanche, o il Piz Badile, con le loro pareti lucenti di ghiaccio, offrono per me arduità sufficienti. Per cui se mi posso esprimere con una frase, io ho fatto sempre delle ascensioni innanzitutto per vedere intorno e poi per dire di averle fatte. Simpatizzo invero ben poco con la moderna mania dei tempi e dei primati. La mia ambizione più alta non sta nel trascorrere l'intera giornata in gravosi esercizi che sviluppano i muscoli; nessuna opportunità anzi è da me più apprezzata di quella in cui posso ammirare un paesaggio mentre altri devono aprire la via. Con questo non voglio dire che non senta l'eccitamento della lotta contro una cresta dentata, o anche il piacere più modesto d'una lunga scivolata sulla neve. Ma per me l'attrattiva più grande dell'alpinismo è sempre consistita nei panorami, nei vari aspetti della natura che si presentano agli sguardi dell'alpinista in successione caleidoscopica.

Intanto, dopo una seconda spedizione caucasica (nel 1887) con la conquista delle quattro cime del Tetnuld, dell'Ukio, del Laila, e dello Skoda, Freshfield pensava che in quella selvaggia e disabitata catena non si sarebbe avventurato mai più.

Lo raggiunse invece nel 1888 la ferale notizia che proprio tra quelle desolate e nefaste rocce erano scomparsi i suoi due grandi amici, W.F. Donkin ed H. Fox.

Freshfield non frappose alcun indugio. Preparò, annientato dal dolore, una non semplice comitiva per un'esplorazione da effettuarsi nell'estate del 1889 con lo scopo di ritrovare quanto meno le salme dei due alpinisti. Scopo non raggiunto, ma che portò comunque all'individuazione dell'ultimo bivacco di quei poveri infelici prima della loro tragica fine.

Nacque da una ricognizione così segnata dal funereo accertamento l'opera che rimarrà per sempre uno dei capolavori assoluti della letteratura alpina di tutti i tempi: "The Exploration of Caucasus" (1896); oltre tutto un'opera altamente scientifica, ricca di particolari topografici ignoti alle stesse "Carte ufficiali" dell'Istituto Geografico Russo, posta sul mercato a Londra dal raffinato editore Edward Arnold con ben settanta fotoincisioni dell'illustre operatore Vittorio Sella (1859-1943), che proprio per tale lavoro venne insignito dallo Zar Nicola II dell'onorificenza di Sant'Anna.

Nel 1899, ultracinquantenne ormai (ma come se la sua vita stesse appena incominciando), decise di chiudere in gloria il secolo recandosi con Vittorio Sella, con un esperto dei luoghi, il professor E. J. Garwood, e con la sua guida fidata François Devouassoud nelle Indie, in Birmania, nell'isola di Ceylon, e nel Sikkim Himalaya dove portò a termine il primo periplo documentato del Kangchenjunga, ricognizione indimenticabile che non solo descrisse mirabilmente in "Round Kangchenjunga" del 1903, ma che incomparabilmente venne stampata da Edward Arnold con il corredo fotografico del sempre più ricercato Vittorio Sella.

Di tale valore era ormai la produzione letteraria di Freshfield che la rivista del C.A.I. ben poteva parlare di testi "che trasportavano il lettore in quelle regioni con la magia d'una dizione sempre colorata ed elegante. Il costante entusiasmo di fronte agli sterminati panorami delle vette, ma anche davanti ai rustici idilli nelle valli fiorite coinvolgeva sostenuto da uno stile perfetto, di volta in volta adeguato all'elevatezza del pensiero".

[modifica] La spedizione fallita

Nella sua modesta e serena casa di Les Barets - era l'estate del 1905 - logorato da una vita di viaggi e di ascensioni nonché di intemperie e di calure (nessuna guida alpina del tempo poteva vantare un curriculum quale il suo) - il tenace "maestro" di Freshfield, François Devouassoud di Chamonix s'andava lentamente spegnendo. Aveva settantaquattro anni, e veniva a mancare proprio quando il grande e fraterno amico londinese, colui che tutta l'Europa considerava un favoloso mito, si accingeva alla più incredibile, ma anche alla più fantastica delle sue imprese: l'ascesa alla cima inviolata del Monte Ruvenzori nell'Africa Centrale.

Da almeno dieci anni - pungolato dall'entusiasmo dell'instancabile Devouassoud - Freshfield l'aveva ideata, studiata, e addirittura predisposta. Ma proprio quando il materiale necessario, spedito a Mombasa, già era giunto a Ibanda, e procedeva per la valle di Monbuku, punto d'attacco dell'ignoto percorso, il silenzioso ed eroico François veniva portato al suo riposo eterno.

Pur con il cuore smarrito ed affranto Freshfield non aveva ritardato di un sol giorno il tentativo ch'era stato per interminabili inverni il sogno dei sogni.

Da Mombasa - e con una determinazione che il passare spietato delle stagioni suggeriva indilazionabile - egli affrontò un Ruvenzori concepito dall'immaginario d'allora come un'inaccessibile montagna lunare. Quell'anno, tra l'altro, il tempo delle piogge (delle diluvianti e disastrose piogge quotidiane) pareva non cessare più. Sicché, dopo ripetuti e titanici attacchi, compiuti con la consapevolezza che potevano essere gli ultimi, egli - ormai giunto ai tremilasettecento metri d'altezza - fu costretto a desistere. Anzi decisamente a rinunciare.

Amaro fu quel ritorno dall'Africa. E senza possibile rassegnazione, tanto i preparativi erano costati! Sebbene il pensiero dell'incipiente vecchiaia attenuasse alla fine l'angoscia del pur necessario umano tramonto. E allorché, l'anno seguente, nel giugno del 1906, Luigi Amedeo di Savoia Aosta, Duca degli Abruzzi, a soli trentatré anni raggiunse le due vette maggiori del massiccio equatoriale (battezzandole con i nomi principeschi di Margherita e di Alessandra), mandò immediatamente all'esploratore italiano i rallegramenti che tanto aveva sperato di riuscire a ottenere, e si confortò con la gioia delle parole che più tardi avrebbe detto ad Adolfo Hess: "Ho comunque visto le sorgenti del Nilo scaturire dai ghiacciai dei Monti della Luna".

Non fu peraltro, quest'ultimo, il suo progetto estremo. Vicino addirittura ai settant'anni - mentre l'Europa teutonica s'apprestava ad allestire e ad accendere il suo infernale conflitto - Douglas William Freshfield (pur orfano dell'insostituibile sua guida) trovò la volontà e l'energia di compiere quasi il giro del mondo conquistando alcune ambite cime giapponesi, altre statunitensi, altre ancora della Columbia Britannica, della Dalmazia, dell'Algeria, della Spagna pirenaica, con brevi soggiorni nel Nord Europa, in Grecia, in Corsica, nel Portogallo, dove le escursioni, all'appesantito Freshfield, erano ormai più confacenti.

In alta, in altissima quota, invece, rimasero sempre i suoi scritti, attesi, affascinanti, dei quali l'editore Constable di Londra, nel 1923, volle pubblicare raccogliendo il meglio (edito ed inedito) un prezioso volume, "Below the Snow Line", esauritosi in poche settimane.

Fu l'opera che sancì di Freshfield la dilagante fama di alpinista letterato e di fautore d'un alpinismo alternativo a quello agonistico, mentre in tutta Europa si diffondeva - grazie ad uomini di indiscussa levatura etica - quella cultura orografica (miniera a tutt'oggi d'insondata poesia tra parola ed estasi) che, oltre ai severi testi di Tyndall, di Coolidge, di Agassiz, oltre alle vissute narrazioni di Whymper, di Mummery, di Stephen, di Zsigmondy, oltre alle avvincenti raccolte di ricordi di Javelle, del goriziano Kugy, di Guido Rey, di Eduard Richter, ci lasciò i profondi memoriali di Eugen Lammer e i puntuali diari di Julius von Payer.

[modifica] Il canto del cigno

Fu l'onore così profondamente e meritamente reso all'esponente massimo della Cristianità - e, al tempo stesso, il pensiero inquieto dell'età ineluttabile che sopravveniva - a ricordare al Freshfield l'impegno grande che aveva preso, da anni ormai, con l'Università di Ginevra di glorificare colui che veniva a pieno titolo considerato il precursore assoluto dell'alpinismo, il padre dell'emergente letteratura alpina, e soprattutto il maestro d'una scuola che aveva fatto dell'esplorazione dei monti una disciplina tra le più nobili e nobilitanti: Horace Benedict De Saussure.

La sua opera "Voyages dans les Alpes" (1796) - prezioso quanto piacevole scrigno con il quale volle serbarci sette dei suoi esemplari viaggi attraverso le valli alpestri - resterà per sempre il libro sacro e intramontabile che trasformò l'anelito dell'uomo per le vette in un abbandono quasi religioso ad esse.

L'anima si eleva - attestò il De Saussure - le visioni spirituali sembrano ingrandirsi e in mezzo alla maestà del silenzio pare di intendere la voce della natura e di divenire il confidente delle sue operazioni più segrete.

Horace Benedict De Saussure, sommo geologo e fisico svizzero, era nato a Conches, presso Ginevra, il 17 febbraio 1740. Figlio del celebre agronomo Nicolas De Saussure fece i suoi studi caparbi ed instancabili nel capoluogo ginevrino guadagnandosi autorevolmente a soli ventidue anni la cattedra di filosofia sperimentale presso l'Accademia universitaria di quella città.

Fra il 1763 e il 1771, nel fervore dei corsi con cui andava coltivando e diffondendo l'amore per la natura e per i suoi fenomeni compilò e diede alle stampe le prime opere scientifiche che avrebbero consacrato e diffuso la sua fama in tutta Europa. Susseguentemente - ad approfondire le sue ricerche di geologia e di meteorologia intraprese estenuanti viaggi percorrendo più volte l'intero continente, visitando le maggiori catene montuose, e dando alla pratica alpinistica quel rigore che doveva permeare l'intero ventaglio dell'esistenza.

Oltre a ciò De Saussure portò a termine nel 1787, nel 1788 e nel 1789, alcune tra le più ardimentose conquiste di vette pressoché mai raggiunte, divenendo uno dei pionieri della storia orografica mondiale.

Parallelamente ai suoi studi progredirono le realizzazioni di strumenti atti alle sue indagini: strumenti che logorarono e a poco a poco annientarono ogni sua resistenza.

Colpito, nel 1794, da paralisi progressiva che angosciosamente ridusse la sua intensa attività sia intellettuale che pratica, il De Saussure si aggrappò con la forza della disperazione al quarto ed ultimo volume del suo capolavoro "Voyages dans les Alpes", dopo il quale la sua vita si trasformò in un atroce ed interminabile calvario verso quella morte che lo avrebbe colto a soli cinquantanove anni il 22 gennaio 1799.

Ebbene di questo genio indiscusso e portentoso, di questo studioso accanito che la Rivoluzione Francese depredò ed umiliò privandolo d'ogni suo bene, di quest'uomo coerente che amò le montagne - liberazione ascensionale - come nessuno mai, non solo Douglas William Freshfield si sentiva discepolo, ma anche seguace e fautore d'una cultura legata all'esperienza pratica continua.

Fu però allorché - per il numero e il peso degli anni - egli avvertì giunto il momento di deporre le armi e di fermarsi, che comprese appieno il dramma di De Saussure e la sua irrassegnazione all'inarrestabile fine.

Ora sì - sogno che cento volte aveva accantonato in attesa di liberarsi dall'errabonda vicenda riservatagli dalla sorte - ora sì poteva elevare con venerazione al De Saussure quell'inno biografico del quale più volte e con più amici aveva sempre parlato, e che ormai, per l'inevitabile suo tramonto, l'Università di Ginevra lo, incoraggiava a portar a termine.

Fu un'opera dettatagli da uno spirito alto. Con l'obiettività d'una vita passata attraverso le stesse passioni e gli stessi ardimenti. Tlemprata da una serie stupefacente di analogie nelle esperienze e nei traguardi.

Scrisse Freshfield, di Horace Benedict De Saussure, solo ciò che non sarebbe stato dimenticato mai. E l'opera, immediatamente apparsa imperitura, gli fu subito pubblicata (1924) per le edizioni Atar di Chambery. Fino a che punto egli avesse parlato del sommo maestro rivivendo il proprio destino non fu dato, né sarà mai dato, sapere. Di certo rimane ancor oggi una biografia unica, frutto di una esegesi documentata e di una raffinatezza espositiva che poche volte i dotti nel loro animo sanno far coesistere. "Omaggio senza prezzo - la definì il Decano della Facoltà di Scienze dell'Università ginevrina - quando apprendiamo ch'essa ha per autore uno dei più eccelsi membri dell'Alpine Club".

Per essa Freshfield ottenne la laurea honoris causa in letteratura dal Rettorato universitario che con tanta insistenza l'aveva commissionata.

Purtroppo fu dopo una tale sofferta, più che vissuta, pubblicazione che il londinese avvertì la sua vigoria e la sua memoria venire meno alle impazienze intrinseche della sua ancora solerte volontà. Ogni nuovo giorno, ormai, gli riservava qualche rassegnazione. Sempre più egli si vedeva considerato come un venerando cultore di cose trascorse. Una morsa di premure e di riguardi procrastinava ogni altra sua velleità. E per quanto si ribellasse alla sopraggiunta vecchiaia, e non volesse credere defunti i grandi personaggi che con lui avevano diviso le innumerabili conquiste, pure s'accorgeva del crescente silenzio intorno, e invano chiedeva di poter parlare con chi non era più.

Così, ancorché scomparso da quasi trent'anni, egli continuava a voler vedere François Devouassoud per concordare con lui le attrezzature e g1i equipaggiamenti occorrenti a quella conquista dell'Everest che per decenni nelle affollate assemblee dell'Alpine Club aveva sempre caldeggiato, discorrendone oltre tutto fino a pochi giorni dalla morte.

Morte che lo colse a Forest Row, nella Contea di Sussex, il 9 febbraio 1934.

[modifica] Bibliografia

  • the Alpine Journal, editore dal 1872 al 1880.
  • The Exploration of the Caucasus, illustrato da Vittorio Sella (voll 2), Edward Arnold, London e NY, 1896.
  • Round Kangchenjunga, Edward Arnold, London, 1903.
  • Below The Snow Line, Constable and Co, London, 1923.
  • Horace-Benedict de Saussure, con la collaborazione di Henry F. Montagnier, Edition Atar, 1924.
  • Italian Alps: sketsches in the mountains of Ticino, Lombardy, the Trentino, and Venetia, Blackwell Mountaineering Library, Oxford, 2a ed. 1937.

[modifica] Riedizioni e pubblicazioni correlate

  • Il Gran Sasso d'Italia dal The Alpine Journal 1878, Artemide Edizioni. ISBN 88-88643-22-2.
  • Travels in the Central Caucasus and Bashan. Including Visits to Ararat and Tabreez and Ascents of Kazbek and Elbruz.

(replica dell'edizione del 1869 di Longmans, Green, and Co., London), Elibron Classics, 2000. ISBN 1402184484, ISBN 1402134673.

  • The Exploration of the Caucasus. (replica dell'edizione del 1902 di Edward Arnold, London), Elibron Classics, 2000. ISBN 140213391X (vol.1) e ISBN 1402132980 (vol.2)
  • Round Kangchenjunga, Pilgrims Publishing, 2002. ISBN 8177690531
  • Round Kangchenjunga : A Narrative of Mountain Travel and Exploration (ristampa), Delhi, India, 2002. ISBN 81-7341-221-9
  • Ratti, Abate Achille (papa Pio XI) Climbs on Alpine Peaks, prefazione di D.W.Freshfield, T. Fisher Unwin Ltd., London, 1925.
  • Morrow, Baiba e Morrow, Pat, Footsteps in the Clouds: Kangchenjunga a Century Later, Raincoast Books, 2000. ISBN 1551922266
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