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Gran Zebrù - Wikipedia

Gran Zebrù

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

« La più bella muraglia di ghiaccio delle Alpi »
(Kurt Diemberger sulla Königswand, la parete nord del Gran Zebrù)
Gran Zebrù
Veduta estiva della vetta del Gran Zebrù.
Veduta estiva della vetta del Gran Zebrù.
Paese bandiera Italia
Regione Lombardia
Trentino-Alto Adige
Provincia stemma Sondrio
stemma Bolzano
Contea {{{contea}}}
Altezza 3.857 m s.l.m.
Catena Alpi
Cratere {{{diametrocratere}}} m
Prima eruzione {{{primaeruzione}}}
Ultima eruzione {{{ultimaeruzione}}}
Coordinate 46°28′43″N 10°34′06″E / 46.47861, 10.56833
Altri nomi e significati Königsspitze (tedesco), che significa "Cima del Re".
Data prima ascensione 3 agosto, 1864
Autore/i prima ascensione Francis Fox Tuckett, fratelli Buxton, guide Michel e Biener
Gran Zebrù (Italia)
Gran Zebrù
Gran Zebrù
SOIUSA
Grande Parte: Alpi Orientali
Grande Settore Alpi Sud-orientali
Sezione Alpi Retiche meridionali
Sottosezione Alpi dell'Ortles
Supergruppo: Gruppo Ortles-Cevedale 
Gruppo Gruppo dell'Ortles
Sottogruppo Gruppo Ortles-Gran Zebrù 
Codice II/C-28.I-A.1.c
Visita il Portale della Montagna

Coordinate: 46°28′43″N 10°34′06″E / 46.47861, 10.56833

Il Gran Zebrù - Königsspitze in tedesco - è una montagna di 3857 metri nel gruppo dell'Ortles-Cevedale, di cui è la seconda vetta per altezza dopo l'Ortles.

Indice

[modifica] Descrizione

[modifica] Localizzazione

Il Gran Zebrù è il secondo punto più elevato, dopo l'Ortles stesso, della regione Trentino-Alto Adige. Il confine tra quest'ultima e la Lombardia (provincia di Sondrio per essere precisi) passa esattamente per la cima, facendo di essa la più elevata vetta "lombarda" del massiccio, e tra le più alte della regione, superata solo da alcuni picchi del gruppo del Bernina.

Rispetto alla vetta dell'Ortles, cima principale del gruppo, il Gran Zebrù si innalza circa quattro chilometri a sud-est, lungo la dorsale principale del massiccio che dal Monte Cristallo (3434 m) conduce sino al Cevedale (3769 m).

Il suo profilo affilato domina due valli di alta quota: la Val Zebrù sul versante valtellinese, tributaria della bassa Valfurva in cui confluisce a est di Bormio, e la Valle di Solda (Suldental) sul versante tirolese, tributaria della Val Venosta.

[modifica] Morfologia del rilievo e note geologiche

La cima del Gran Zebrù dal versante altoatesino
La cima del Gran Zebrù dal versante altoatesino

La vetta del Gran Zebrù è costituita, come peraltro le vicine vette dell'Ortles e del Monte Zebrù, da una roccia molto resistente all'erosione, la dolomia principale, lievemente metamorfosata. Essa poggia su un basamento cristallino, costituito prevalentemente da filladi. Piuttosto compatta, la dolomia dà origine a formazioni ardite e rilievi scoscesi: la cima del Gran Zebrù è una piramide piuttosto regolare i cui spigoli hanno un'inclinazione superiore ai 45 gradi[1].

Veduta estiva del Gran Zebrù e di un suo ghiaccaio del versante orientale.
Veduta estiva del Gran Zebrù e di un suo ghiaccaio del versante orientale.

[modifica] Storia

[modifica] Il nome e la leggenda

La montagna, situata esattamente sul confine tra la Valtellina e il Tirolo, e quindi tra la Lombardia e l'Alto Adige, ha due nomi che si affiancano nella cartografia ufficiale, uno insubre, poi adottato anche in italiano (Gran Zebrù) e uno tedesco (Königspitze, che significa cima del Re).

I due nomi, che apparentemente non danno adito a nessuna correlazione tra di essi, sono in realtà legati da una leggenda che affonda le sue origini sino al medioevo, che parla appunto di un sovrano, Johannes Zebrusius, chiamato "il Gran Zebrù", feudatario nel XII secolo della Gera d'Adda (territorio realmente esistente, oggi in provincia di Bergamo). Johannes si innamorò (ricambiato) di Armelinda, figlia di un castellano del Lario, il quale però si opponeva alla loro relazione. Al fine di fare colpo agli occhi del padre di lei e convincerlo a dargli la figlia in sposa, Johannes prese parte a una crociata in Terrasanta, rimanendovi per quattro anni.

Al suo ritorno però ebbe una sgradita sorpresa: il padre di Armelinda non solo non aveva cambiato parere, ma addirittura aveva concesso in sposa la figlia a un nobile milanese. Costernato e depresso Zebrusius decise di abbandonare il suo feudo e l'arte della guerra e recarsi in montagna, dove avrebbe vissuto da eremita, scegliendo come dimora la val Zebrù, dominata dalla montagna. Lì visse in solitudine per trent'anni e un giorno, cercando di dimenticare il passato con la meditazione e la preghiera, e quando sentì che stava giungendo la sua ora si sdraiò su un tronco collegato a un congegno di sua invenzione, che fece precipitare sul suo corpo un grande masso bianco, sul quale egli aveva precedentemente inciso "Joan(nes) Zebru(sius) a.d. MCCVII". Tale masso è visibile ancora oggi, al limite inferiore del Ghiacciaio della Miniera.

Lo spirito del sovrano, purificato dal dolore e da anni di privazioni, salì sino sulla vetta della montagna che divenne il castello degli spiriti meritevoli e del quale l'anima di Zebrusius ne è il re[2].

La leggenda e l'origine del nome italiano (e lombardo) della montagna si intrecciano. È probabile infatti che il nome Zebrù (che identifica anche un'altra vetta poco lontana, il Monte Zebrù) derivi dalla radice celtica se (spirito buono, santo) e dal termine brugh, anch'esso celtico, che significa rocca o fortezza, "castello degli spiriti buoni", appunto.
Altre ricerche etimologiche però farebbero derivare il nome Zebrù dal latino super, cioè sopra, più in alto di qualsiasi altra montagna, la cima più alta (quando né l'Ortles né il Gran Zebrù erano ancora stati misurati è probabile che si ritenesse che quest'ultimo fosse il più elevato del massiccio)[3]

Infine, nonostante la leggenda stessa possa indurlo a pensare, non vi è alcuna relazione tra di essa e il nome tedesco della montagna. Königspitze risulta derivare da un errore dei topografi austriaci nel trascrivere il nome tirolese, Cunìgglspizze, che non ha nulla a che fare con König (re, sovrano) bensì con Könich, ossia cunicolo (il versante altoatesino della montagna è scavato da diverse miniere).

[modifica] Le prime ascensioni

Come pressoché tutte le altre vette più alte delle Alpi Retiche il Gran Zebrù fu scalato per la prima volta nel XIX secolo. La letteratura alpinistica assegna alla cordata composta dall'alpinista-esploratore inglese Tuckett, dai fratelli Buxton, anch'essi britannici, e dalle guide tirolesi Biener e Michel il privilegio della prima assoluta, il 3 agosto 1864. Il gruppo seguì la via della cresta est, senza l'uso di ramponi.

Gran Zebrù, Zebrù e Ortles.
Gran Zebrù, Zebrù e Ortles.

In realtà, non fu mai chiarito se effettivamente Tuckett e compagni furono i primi a mettere piede sulla vetta della montagna. Sei anni prima, comparve su un giornale cattolico un articolo dal titolo Über das Stilfser Joch auf den Zebru oder die Königsspitze (che suonerebbe in italiano come dallo Stelvio al Gran Zebrù) il cui autore si firmava con lo pseudonimo di Traunius. In questo articolo egli raccontava di essere partito da Monaco e aver raggiunto, a piedi e da solo, il paese di Trafoi il 2 agosto del 1854, alla base della montagna. Proseguiva poi dicendo di essersi accampato allo Stelvio e da lì aver attraversato i ghiacciai del versante occidentale del massiccio sino ai piedi del Gran Zebrù, per poi arrampicarsi su pendii ripidissimi sino a guadagnare la vetta. Nello stesso racconto, il misterioso alpinista affermò di aver accusato disturbi alla vista durante la discesa (i sintomi da lui descritti possono far pensare a una forma di mal di montagna) ma di essere giunto comunque a una casa cantoniera della strada dello Stelvio dove si riposò.

Traunius in realtà si chiamava Stephan Steinberger ed era un seminarista di Ruhpolding (Alta Baviera), poi ordinato sacerdote ed entrato nell'ordine dei cappuccini nel 1864 con il nome di Padre Corbinian. La veridicità del racconto di Steinberger e la sua buona fede non furono messe in discussione, ma i più eminenti alpinisti del tempo e le guide locali gli contestarono di aver confuso la vetta del Gran Zebrù con qualche altra cima del massiccio, in quanto - secondo le loro dichiarazioni - la denominazione delle cime era all'epoca ancora molto imprecisa e differente a seconda del posto, e sarebbe stato comunque impossibile scalare il versante sud del Gran Zebrù da solo e senza attrezzatura, fuorché un bastone da montagna. La critica alpinistica assegnò quindi alla squadra di Tuckett, dei Buxton, di Biener e Michel la prima ascensione storicamente accertata, come ricorda Bruno Credaro in Storie di guide, alpinisti, cacciatori.

Dopo la salita degli inglesi, le prime ripetizioni furono effettuate da Freshfield e compagni, e successivamente da Payer con Pinggera. Molti altri alpinisti approcciarono la montagna dai vari versanti: Meurer e Pallavicini giunsero in vetta salendo lungo la difficile cresta del Suldengrat, il professor Minnigerode scalando la parete nord senza ramponi e senza l'uso di chiodi, nel 1881. Leslie Stephen, padre di Virginia Woolf, salì anch'egli sulla vetta, ma si lamentò della nebbia che gli impediva di ammirare il panorama, come scrisse in The play-ground of Europe.

[modifica] La grande guerra

La zona fu interessata, nel periodo tra il 1915 e il 1918, dal fronte italo-austriaco nel contesto della Prima guerra mondiale. Nella fattispecie, il Gran Zebrù fu occupato dai Kaiserjäger (corpo alpino dell'esercito austriaco) nella primavera del 1916, salendo da est lungo un difficile pendio ghiacciato. La cima servì quindi da vedetta finché anche gli Alpini italiani non tentarono di attaccarla.

La salita dal versante lombardo, ove si trovava la postazione italiana, presentava però grandi difficoltà tecniche e logistiche. Gli Alpini, più alpinisti che soldati in queste occasioni, disposero una corda fissa per i primi 300 metri di salita (la parete ne misura circa mille) per facilitare l'attacco (in entrambi i sensi, sia alpinistico che militare) alla cima. In una notte di giugno, cinque soldati scelti, seguiti da una squadra con i rifornimenti e le munizioni, si inerpicò lungo la corda sino al termine, ove iniziava la scalata vera e propria.
Nella completa oscurità i cinque alpini approcciarono la parete, affrontando una via mista (roccia e ghiaccio) che si sviluppava per circa 700 metri, sino a guadagnare la cresta sommitale, a pochi metri dalla vetta ove si trovava la postazione austriaca. Appena fu giorno, fecero fuoco su di essa uccidendo le sentinelle e prendendone possesso. Dopo alcuni giorni fu costruita sulla vetta una baracca e venne installato un apparecchio telefonico: nonostante alcuni bombardamenti nemici, gli Alpini riuscirono a mantenere il controllo della cima sino alla fine del conflitto[4].

[modifica] L'impresa di Diemberger

La Meringa di ghiaccio era un curioso ghiacciaio pensile formatosi alla sommità della parete nord (Königswand). Considerato estremamente difficile da scalare, data la sua pendenza strapiombante, fu superato nel 1956 da uno dei più famosi alpinisti del XX secolo, Kurt Diemberger, dopo aver salito la parete nord, aperta però nell'800 da Minnigerode e ripetuta, seguendo però un percorso diverso, da Ertl e Brehms nel 1930.

Oggi la meringa di ghiaccio non esiste più. Collassò nell'estate del 2001 a causa delle alte temperature, provocando una slavina che però non causò né vittime né danni.

[modifica] Note

[modifica] Bibliografia

Gran Zebrù da sud; sullo sfondo, a destra, l'Ortles.
Gran Zebrù da sud; sullo sfondo, a destra, l'Ortles.

[modifica] Voci correlate


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