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Buddhismo - Wikipedia

Buddhismo

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Statua di Buddha
Statua di Buddha
« Il bramino Dona vide il Buddha seduto sotto un albero e fu tanto colpito dall'aura consapevole e serena che emanava, nonché dallo splendore del suo aspetto, che gli chiese:
– Sei per caso un dio?
– No, brāhmana, non sono un dio.
– Allora sei un angelo?
– No davvero, brāhmana.
– Allora sei uno spirito?
– No, non sono uno spirito.
– E allora, che cosa sei?
– Io sono sveglio. »
(Anguttara Nikāya)

Il Buddhismo è la disciplina spirituale sorta dall'esperienza mistica vissuta dal personaggio storico di Siddhārtha Gautama e che si compendia nei suoi insegnamenti, fondati sulle «Quattro Nobili Verità». Con Buddhismo si indica anche l'insieme di tradizioni, sistemi di pensiero, pratiche e tecniche spirituali, individuali e devozionali che hanno in comune il richiamo agli insegnamenti di Siddhārtha Gautama in quanto Buddha; La storia del Buddhismo riporta il suo sviluppo a partire dal VI secolo a.C. soprattutto nell'Asia orientale (India, Tibet, Cina, Corea, Giappone, Indocina), e, dal XX secolo anche in Europa e Stati Uniti.

Siddhārtha Gautama, detto Shakyamuni (il saggio della tribù Shakya), visse nell'India del Nord circa tra il 563 a.C. ed il 483 a.C. (studi recenti, successivi agli anni Novanta, propongono come date di nascita e morte del Buddha gli anni 480 a.C. e 400 a.C.). Egli era detto Buddha, ovvero «colui che è risvegliato». Il Buddha nacque durante il viaggio che doveva portare la regina Maya, moglie del nobile guerriero Suddhodana, a partorire il primo figlio nella casa paterna. Ma la tradizione vuole che la giovane non raggiunse mai la casa e partorisse in un boschetto (a Lumbini nel sud del Nepal), mettendo al mondo colui che sarebbe diventato il Buddha. Prima di intraprendere la sua ricerca spirituale, egli viveva nell'agio presso il palazzo del padre. Poco prima di compiere trent'anni il principe uscì dal palazzo e in quattro occasioni diverse vide un neonato, un malato, un vecchio, e un funerale. Queste esperienze del tutto nuove per lui lo fecero riflettere sulla vita cominciando a elaborare quello che sarà il cardine del pensiero buddista: risolvere le quattro "sofferenze" fondamentali della vita: nascita, malattia, vecchiaia, morte.


Indice

[modifica] I fondamenti del Buddhismo

All'origine ed a fondamento del Buddhismo troviamo le Quattro Nobili Verità (ariya-sacca). Si narra che il Buddha, meditando sotto l'albero della bodhi, le comprese nel momento del proprio risveglio spirituale.

Esse sono enunciate nel "Dhammacakkappavattana Sutta" (in lingua pāli o "Dharmacakrapravartana Sutra" in sanscrito) cioè il "Discorso della messa in moto della ruota del Dhamma" (Dharma in sanscrito).

È il primo discorso pubblico del Buddha, tenuto al parco delle gazzelle nei pressi di Sarnath vicino Varanasi (già Benares) nel 528 a.C. all'età di 35 anni, dopo che nei pressi del villaggio di Bodhgaya dello stato del Bihar (stato fra i più poveri dell'India) aveva raggiunto il "risveglio spirituale", detto "satori" nel Buddhismo Zen.

Questo discorso è quindi anche detto "Discorso di Benares", fondamentale per il Buddhismo, che da questo primo discorso pubblico prese le mosse e può considerarsi avviato anche come prima comunità buddhista (sangha) formata proprio da quei cinque asceti che lo avevano abbandonato anni prima sfiduciati, dopo essere stati a lungo suoi discepoli.

In questo discorso si identifica il Buddhismo come "La Via di Mezzo" (majjhimā patipadā) in cui si riconosce che la retta condotta risiede nella linea mediana di condotta di vita evitando tanto gli eccessi e gli assolutismi, quanto il lassismo e l'abbandono.

Nell'occasione di questo sermone il Buddha enuncia le "Quattro Nobili Verità", frutto del proprio "risveglio spirituale" testè raggiunto.

[modifica] Le quattro nobili verità

  1. Dukkha: "esiste la sofferenza esistenziale".
    Nella vita dell'Uomo è insita una sofferenza di tipo esistenziale: essa affligge l'Uomo a motivo dell'impermanenza della situazione esistenziale che lo accompagna dalla nascita e per effetto della sua nascita immersa nel "saṃsāra".
    Questa sofferenza esistenziale si rivela ed è percepita non solo quando si constata l'ineluttabilità di malattia, vecchiaia e morte, ma anche quando si è costretti al contatto con ciò che non si ama come, ad esempio, contatti, connessioni, relazioni, interazioni con persone, cose od eventi che ci dispiacciono.
    Ma non solo in questi casi: la sofferenza esistenziale si rivela ed è percepita anche quando si è costretti alla separazione da ciò che si ama, come quando uno è privato di visioni, suoni, odori, sapori o sensazioni tattili desiderabili, gradevoli, attraenti, oppure come quando uno non riesce ad ottenere contatti, connessioni, relazioni, interazioni con persone, cose od eventi che producono il suo bene, il suo benessere, il suo agio, la sua libertà dalla schiavitù, od infine quando uno debba subire la forzata separazione da madre, padre, fratelli, sorelle o da amici, compagni, parenti amati. La frustrazione dei desideri è una delle più usuali percezioni del "dukkha", della cosiddetta "sofferenza esistenziale".
    Più in generale, la constatazione che viene fatta nella "Prima Nobile Verità" è che esiste nella vita dell'Uomo una sofferenza esistenziale associata all'impermanenza di tutte le cose, al fatto che ogni cosa è destinata a finire.
  2. Samudaya: "esiste un'origine della sofferenza esistenziale"
    La sofferenza esistenziale non è colpa del mondo, né del fato o di una divinità; né avviene per caso. Ha origine dentro di noi, dalla ricerca della felicità in ciò che è transitorio, spinti dal desiderio (trsna, in pāli: «taṇhā» o «brama») per ciò che non è soddisfacente. Si manifesta nelle tre forme di kamatrsna o «desiderio di oggetti sensuali»; bhavatrsna o «desiderio di essere»; vibhavatrsna o «desiderio di non essere».
  3. Nirodha: "esiste l'emancipazione dalla sofferenza esistenziale"
    Per sperimentare l'emancipazione dalla sofferenza esistenziale, occorre lasciare andare trsna, l'attaccamento alle cose e alle persone, alla scala di valori ingannevoli per cui ciò che è provvisorio è maggiormente desiderabile.
  4. Magga (pāli) o Marga (sanscrito): "esiste un percorso di pratica da seguire per emanciparsi dalla sofferenza esistenziale".
    È il percorso spirituale da intraprendere per avvicinarsi al nibbāna.
    Esso è detto il «Nobile Ottuplice Sentiero»

[modifica] Il nobile ottuplice sentiero

La "Quarta Nobile Verità" consiste nel "Nobile Ottuplice Sentiero" (ariyo atthangiko maggo) che conduce alla piena ed esaustiva realizzazione spirituale buddhista attraverso il superamento di quel condizionamento costituito dalla sofferenza esistenziale che si accompagna alla vita dell'uomo sia dalla sua nascita e sia a motivo della sua nascita (saṃsāra).

Gli elementi del "Nobile Ottuplice Sentiero"
Possono essere considerati secondo tre tipologie. Questo ordinamento, però, non significa affatto che esista un albero gerarchico fra gli otto elementi, né tanto meno che esista un ordine di successione e di importanza fra di essi. Tutti quanti gli otto elementi sono coltivati comtemporaneamente nella pratica buddhista e ciascuno interagisce in una realizzazione sinergica con gli altri.

  • la "prima tipologia" riguarda la «saggezza» (paññā).
    1. Retto intendimento (sammā diṭṭhi) cioè il riconoscimento delle "Quattro Nobili Verità" attraverso la loro corretta conoscenza e la conseguente loro corretta visione.
    2. Retta risoluzione (sammā sankappa) cioè il corretto impegno sostenuto dalla corretta intenzione nel padroneggiare il trsna (l'attaccamento al desiderio di vivere, alla brama ed all'avidità di esistere, di divenire o di liberarsi, al desiderio di affermare il proprio «sé esistente») in modo da manterene la corretta aspirazione che consegue alla corretta motivazione, al fine di non lasciarsi condizionare dalla «sete di esistere», causa del Samsāra.
  • la "seconda tipologia" riguarda la «moralità» (sīla).
    1. Retta Parola (sammā vācā) cioè l'assunzione della personale responsabilità delle nostre parole, ponendo attenzione nella loro scelta e ponderandole in modo che esse non producano effetti nocivi agli altri e di conseguenza a noi stessi; ciò significa anche che il nostro agire deve essere improntato al nostro parlare e corrispondere ad esso.
    2. Retta Azione (sammā kammanta) cioè l'azione non motivata dalla ricerca di egoistici vantaggi, svolta senza attaccamento verso i suoi frutti. È anche "l'azione che si conforma correttamente alla situazione", nel senso in cui non c'è più distinzione fra l'azione individuale e personale e l'azione del karma cosmico in relazione all'evento in cui l'agire individuale e personale si determina. In questo caso il corretto agire individuale armonizza in modo talmente perfetto il karma specifico prodotto dall'azione individuale al karma cosmico, da non consentire più che il karma individuale si distingua da quello universale e di esso viene quindi a costituire una sua intima ed indistinguibile componente. Per questo motivo la "retta azione" è anche considerata un "agire senza agire".
    3. Retta Condotta di vita (sammā ājiva) cioè vivere in modo equilibrato evitando gli eccessi, procurandosi un sostentamento adeguato con mezzi che non possano arrecare danno o sofferenza agli altri. Questo comporta anche la corretta padronanza delle proprie intenzioni, in modo che esse siano sempre orientate e dirette lungo la linea mediana di condotta di vita (majjhama patipada) attraverso una corretta azione (sammā kammanta).
  • la "terza tipologia" riguarda la specificità della «meditazione buddhista» (samadhi).
    1. Retto Sforzo (sammā vāyāma) cioè lasciare andare gli stati non salutari e coltivare quelli salutari. Significa anche confidare nella bontà della propria pratica buddhista perseverando con un corretto ed equilibrato impegno nello sforzo, motivato dalla fiducia (saddhā) che al buddhista praticante proviene dai risultati ottenuti nell'avanzamento lungo il percorso della propria personale realizzazione spirituale e nell'avanzamento verso una sempre maggiore capacità di esercitare una corretta azione (sammā kammanta) nella propria pratica buddhista.
    2. Retta Consapevolezza (sammā sati) cioè la capacità di mantenere la mente priva di confusione, non influenzata dalla brama e dall'attaccamento (trsna)
    3. Retta pratica della meditazione (sammā samādhi) cioè la capacità di mantenere il corretto atteggiamento interiore che porta alla corretta padronanza di sé stessi durante la pratica della meditazione (dhyāna).
      Nel Buddhismo Zen si usa il termine giapponese "zanmai" anziché il termine sanscrito "samadhi", con lo stesso significato di raggiungimento del livello più elevato di "unione", riunificazione, identificazione del sé individuale con la realtà esistente. L'uso del termine "zanmai" è particolarmente indicato nel caso dell'ottavo elemento dell'ottuplice sentiero, poiché esso implica uno stato interiore nel quale la mente è assolutamente libera da distrazione ed è assorbita in intensa e decisa concentrazione, la quale, correttamente applicata, è una specifica caratteristica richiesta nella "retta pratica della meditazione"


Vi sono quattro dhyāna (sanscrito) o jhāna (pāli).

  1. Il primo dhyāna è una condizione di soddisfazione dovuta alla riflessione e all'investigazione.
  2. Il secondo stadio è la tranquillità senza riflessione nell'investigazione.
  3. Il terzo porta all'assenza di ogni condizionamento proveniente dal trsna che sta alla base della sofferenza, premessa questa indispensabile al conseguimento del successivo stadio.
  4. Il quarto consiste nel nirvana (sanscrito) o nibbāna (pāli), cioè nel superamento della sofferenza esistenziale attraverso il "pensiero-senza-pensiero" e l' «agire-senza-agire» conseguenti alla realizzazione del perfetto «risveglio spirituale buddhista», la cosiddetta "buddhità", vale a dire la «qualità di Buddha» presente in ogni essere umano, talvolta anche definita con il termine «vacuità».

La parola dhyāna è all'origine della parola sinogiapponese zen: quando il Buddhismo arrivò in Cina, fu adattata alla lingua cinese (chan). In seguito il Buddhismo fu introdotto in Giappone e un'importante scuola porta questo nome.

[modifica] Diversi approcci nella definizione di Buddhismo

Riguardo alla definizione del Buddhismo ci sono diverse opinioni. Il Dalai Lama ha definito il Buddhismo «una scienza della mente». Secondo alcuni per certi aspetti sarebbe possibile definirlo una religione, o presenterebbe comunque aspetti di tipo religioso; secondo altri, invece, sarebbe possibile definirlo una filosofia di vita, o presenterebbe comunque aspetti di tipo filosofico; secondo altri ancora nel Buddhismo sarebbero compresenti aspetti sia religiosi sia filosofici; infine altri negano che il Buddhismo rientri in una di queste predefinite specifiche categorie, dal momento che il Buddha stesso, quando era in vita, a chi esplicitamente gli domandava se i suoi insegnamenti fossero «teisti», «atei», o costituissero una «filosofia di vita», invariabilmente tacque sempre su questi punti specifici, senza mai soddisfare a queste domande. Ma proprio questa assenza di indicazioni fece anche sì che nel corso del suo millenario sviluppo in ogni parte del mondo, il Buddhismo legittimamente tollerasse una grande varietà di pratiche al suo interno, fino ad assumere quella complessità di manifestazioni e di aspetti oggi presenti e che sono anche motivo di queste diversità di orientamenti di opinione sulla sua definizione.

[modifica] Buddhismo e religione

Alla sua origine il Buddhismo era effettivamente estraneo da qualunque preoccupazione religiosa. Buddha, nella sua ricerca e nella sua predicazione, si rifiuta di affrontare questioni di tipo religioso riguardanti l'esistenza di un principio divino assoluto, o l'eventuale natura di un'anima separata dal corpo: questioni di questo genere non vengono né negate né affermate, ma semplicemente lasciate nel silenzio. Da questo punto di vista il Buddhismo, nelle sue prime fasi, si distacca nettamente dall'induismo del tempo, il quale aveva invece al suo centro l'identità tra l'io individuale e l'Assoluto divino. Anche riguardo al Nirvana, che pure è l'obiettivo ultimo della pratica Buddhista, il Buddha e la letteratura Buddhista successiva preferiscono definirlo in negativo, senza affermarne nulla al riguardo. Ciò non significa che il Nirvana consista nel nulla: significa semplicemente che è al di là della possibilità del linguaggio e del pensiero, che è inesprimibile attraverso delle categorie concettuali avendo la sostanza della vacuità.

Tuttavia, già entro un breve tempo successivo alla scomparsa del Buddha, si verificò un processo di «divinizzazione» del maestro, concepito sempre meno come semplice uomo e sempre più come creatura dotata di facoltà prodigiose e sovrumane. A questo processo di divinizzazione si affiancò un vero e proprio culto popolare relativo al Buddha e alle sue reliquie (vedi la voce stupa).

Nei secoli posteriori, quindi, venne sviluppandosi all'interno del Buddhismo tutta una fenomenologia devozionale, composta di templi, preghiere e mitologia che si configura entro certi limiti come una vera e propria religione. Da questo punto di vista c'è chi afferma che, specie per quanto riguarda il Buddhismo Mahāyāna, e soprattutto per quanto riguarda l'Amidismo, il Buddhismo o alcune sue tradizioni, siano a tutti gli effetti una religione.

Da parte sua, inoltre, se le diverse scuole del Buddhismo sono concordi nel rifiutarsi di definire in senso positivo un eventuale principio divino Assoluto, non viene comunque negata l'esistenza di entità superiori all'uomo, cioè le varie divinità del politeismo. Il Buddhismo, in tal senso, non negò l'esistenza dei deva nell'induismo così come non negò quella dei kami giapponesi e anzi ne aggiunse d'altri propri: soltanto, dal punto di vista Buddhista anche queste divinità (non concepite come eterne o incorruttibili) fanno parte, assieme all'uomo e a tutte le altre creature viventi, del ciclo del divenire e della sofferenza. Il Buddhismo inventò perciò molti episodi in cui uno di essi, o una folla di divinità, discende dal cielo per ascoltare rispettosamente la parola del Buddha o per rendergli qualche servizio, «annoverandoli fra i laici», facendone devoti modello e protettori del Buddhismo.

Da notare infine che, attualmente, nei paesi a maggioranza buddhista o dove il Buddhismo ha avuto una larga influenza culturale (ad esempio il Giappone o l'Indocina), nella percezione popolare il Buddhismo viene visto e vissuto come una religione.

[modifica] Buddhismo ed ateismo

Alcuni pensano che poiché il Buddha ha sempre accuratamente e volutamente evitato di fare affermazioni sull'Assoluto, il suo insegnamento sia certamente «ateo»[1]

Altri sostengono che il Buddhismo sia sostanzialmente ateo per il fatto che, nonostante il Buddha non abbia mai negato le tradizionali divinità specifiche del Brahmanesimo (che successivamente diventerà Induismo), queste divinità non possono evitare all'Uomo le sofferenze della vita, per cui credere o non credere in loro non cambia le cose e l'Uomo, secondo il Buddha, deve invece trovare il cammino che conduce al proprio «risveglio interiore» ed alla personale completa realizzazione spirituale, attraverso la propria pratica individuale ed il vaglio della propria personale esperienza (il dhamma-vicaya) seguendo il metodo introspettivo indicato dal Buddha stesso (il Bodhipakkhika Dhamma).

Anche papa Giovanni Paolo II, ha attribuito al Buddhismo un sostanziale ateismo, alimentando la tesi e le argomentazioni di chi cerca di ravvisare nel Buddhismo un sistema sostanzialmente ateo, infatti afferma nel libro-intervista Varcare la soglia della speranza[2], che «il Buddhismo è in misura rilevante un sistema ateo» dal momento che è privo di avvicinamento a Dio: «La pienezza del distacco buddhista non è l'unione con Dio, ma il cosiddetto nirvana, ovvero uno stato di perfetta indifferenza nei riguardi del mondo» e ancora «il Buddhismo è, al pari del Cristianesimo, una religione di salvezza, ma le dottrine di salvezza dell'uno e dell'altro sono tra loro "contrarie"». Si sottolinea quindi l'esclusione di riferimenti ai termini «Dio» e/o «Divinità», riferendosi genericamente ad un «aiuto superiore» ma non sarebbe un aiuto «divino».

Queste opinioni sul Buddhismo espresse dal più autorevole rappresentante dalla Chiesa cattolica, sono sostanzialmente allineate con un precedente documento del Concilio Vaticano II (Nostra Aetate - 28 ottobre 1965) nonostante qui si usino termini più concilianti in ottica di una precedente politica interreligiosa più moderata: «Nel Buddhismo, secondo le sue varie scuole, viene riconosciuta la radicale insufficienza di questo mondo mutevole e si insegna una via per la quale gli uomini, con cuore devoto e confidente, siano capaci di acquistare lo stato di liberazione perfetta o di pervenire allo stato di illuminazione suprema sia per mezzo dei propri sforzi sia con l'aiuto venuto dall'alto»[3],

Queste sono le principali ragioni di chi vorrebbe identificare il Buddhismo come una sorta di ateismo.

Questa interpretazione atea del Buddhismo è però confutata da chi sostiene che, essendo l'ateismo la negazione assoluta di Dio, l'ateismo costituisce esso stesso un assolutismo, il quale assolutismo deve ritenersi totalmente estraneo al Buddhismo che si fonda invece sull'equilibrata "Via di mezzo" (il Nobile Ottuplice Sentiero) che, prescindendo per sua stessa natura da qualsiasi forma di assolutismo, rifugge quindi da entrambi, sia quello del teismo sia a maggior ragione quello dell'ateismo. In questo senso deve quindi intendersi lo scrupolo che il Buddha sempre si diede nell'evitare accuratamente di esprimersi sulla questione dell'Assoluto e quindi senza cadere mai nell'assolutismo delle posizioni che da esso deriva.

Rifuggendo quindi da ogni tipo e forma di assolutismo, il Buddhismo in quanto espressione della «Via di mezzo» indicata dal Buddha nel suo famoso e fondamentale «discorso di Benares», non può che prescindere da queste questioni esistenziali proposte invece, peraltro entrambe in modo irrisolto ed irrisolvibile, sia dall'ideologia del teismo sia da quella dell'ateismo.

Queste sono le principali ragioni di chi esclude decisamente che esista la possibilità di identificare il Buddhismo come una sorta di ateismo e quindi conseguentemente come negazione assoluta di Divinità (deismo) e/o di uno specifico Dio (teismo).

Ma se si vuol considerare l'ateismo come l'attitudine ad affrontare «in modo critico» le vicissitudini senza trascendere la realtà («senza appigli»), allora si deve riconoscere che senza questa attitudine è impossibile «abbracciare» il Buddhismo, cioè svegliarsi[4]. Il «Buddhismo non nega nulla», nonostante ciò «è una religione senza dio», senz'anima (e senza sé), senza culto e senza mistero, basata sulla comprensione delle concezioni su cui poggia e non sulla fede. C'è stata «una sola setta», la mahāsāmghika dei lokottaravādin che consideravano buddha un essere trascendente (lokottara, cioè un dio) e il buddha storico solo un fantasma (nirmānakāya) emanato da questo. Furono loro a scolpire gli enormi monumenti del buddha nelle rocce del Bamiyan, proprio quelli bombardati dai talebani che da musulmani iconoclasti sono incappati nell'errore di considerare idolatre quelle sculture. Anche se nell'intenzione della setta «c'era idolatria», le statue rappresentavano un uomo e non un dio, e i talebani hanno distrutto una raffigurazione umana e non divina perché buddha è comunque solamente un uomo.

Anche l'assolutismo, nell'accezione non trascendente, cioè nel decidere di considerare «definitivo» un solo elemento tra molti presi in esame, non è estraneo al Buddhismo, anzi il Buddhismo argomenta come l'insegnamento della Legge da parte degli Svegliati si svolge in base a due verità: la verità relativa del mondo e la «verità assoluta». Quest'ultima è «l'illusione dell'esistenza di quelle quattro nobili verità che il buddhista «abbraccia» quando mette in moto la Ruota della Legge, fino ad allora il buddhista conosce le quattro nobili verità, ma non le abbraccia e si illude che esistano, e «questa è la verità relativa» del mondo.

[modifica] Buddhismo e filosofia

Riguardo ai rapporti tra Buddhismo e filosofia, la questione è resa più complessa dalla già difficile definizione dello stesso concetto di filosofia.

Nella concezione moderna, successiva al XVI secolo e alla rivoluzione scientifica, per filosofia si intende comunemente lo «studio del significato e della giustificazione della conoscenza del più generale, od universale, aspetto delle cose». La filosofia sarebbe dunque una forma di indagine del sapere, volta a descrivere la natura più profonda della realtà. In questo senso è possibile ravvisare aspetti filosofici all'interno del Buddhismo. La presenza di questioni viste come incongruenti nella dottrina del Buddhismo più antico (ad esempio la negazione dell'esistenza di un io individuale) generò difatti, nei secoli posteriori, ampie speculazioni teoriche nel tentativo di risolverli. Speculazioni teoriche spesso estremamente complesse, basate su sofisticati sistemi di logica, che discutono questioni come quelle dell'esistenza dell'io, o di un principio di causalità, che possono trovare dei paralleli all'interno della filosofia di origine europea. Tali speculazioni si trovano ad esempio nella scuola del Madhyamaka o del Vijnanavada.

C'è chi fa notare che, tuttavia, nel Buddhismo queste speculazioni teoriche non sarebbero volte a definire una descrizione definitiva della realtà (ambizione, questa, tipica della filosofia europea moderna), ma piuttosto sarebbero degli strumenti momentanei e transitorî per permettere al praticante Buddhista di dissolvere i proprî preconcetti razionali rispetto alla realtà in vista dell'ascesa al Nirvana.

Tuttavia, vi è chi risponde che anche nella filosofia europea più antica, cioè in quella greca, il sapere razionale non era fine a sé stesso ma aveva una funzione strumentale in vista di un'ascesi spirituale. Così la dialettica platonica serviva per poter ascendere al puro mondo delle idee, e allo stesso modo le scuole ellenistiche adoperavano la ricerca speculativa per ottenere uno stato mentale al riparo dai turbamenti emotivi (come nello Stoicismo o nell'Epicureismo) o, di nuovo, per ascendere a una realtà ulteriore non definibile verbalmente (come nel Neoplatonismo). Da notare che, nell'ambito della filosofia greca, l'ascesi filosofica non era sempre puramente mentale, ma si combinava anche con esercizi fisici, come ad esempio il controllo del respiro, similari a quelli buddhisti (tale ad esempio è la teoria di Pierre Hadot, studioso del pensiero greco antico).

Infine, per chi afferma la possibilità di tracciare paralleli tra la filosofia europea e il Buddhismo, non sono da tralasciare le somiglianze con la cosiddetta teologia negativa, che affonda le sue radici nel Neoplatonismo e, tramite lo Pseudo-Dionigi e Meister Heckart arriva con Nicola Cusano sino alle soglie della modernità.

Secondo il punto di vista del Buddhismo, l'origine e la fine del cosmo non sono umanamente percepibili o comprensibili, come pure tutte le qualità inerenti alla mente stessa. L'universo ha connaturato la sensazione, la percezione, la conoscenza e le relative riverberazioni mentali. Riconoscere questo spazio in sé ed in ogni cosa e giungere a trascenderlo è raggiungere la piena illuminazione. Spesso erroneamente interpretato come un niente, una mancanza o un buco nero, esso invece connette ogni cosa. Dal Buddha questo spazio viene definito vacuità che comprende e riconosce tutti i tempi e tutte le direzioni.

[modifica] Né teismo e religione, né ateismo, né filosofia di vita

Le posizioni di coloro che sono favorevoli a definire il Buddhismo una «Via spirituale (magga) di pratica e disciplina (dhamma vinaya) individuale» che prescinde dai concetti di teismo, ateismo e filosofia di vita e quindi non lo annoverano fra le religioni, né fra le ideologie e le filosofie, poggiano su diversi ordini di motivi.

  • I concetti di religione e filosofia sono nati e si sono sviluppati nel cosiddetto Occidente, cioè all'interno della tradizione europea, e soprattutto nella lunga storia del Cristianesimo e della sua influenza sulla cultura europea, storia che avrebbe molto poco a che vedere con quelle che sono le visioni del mondo proprie dell'Asia Orientale. In tal senso sarebbe un'assurdità di principio applicare concetti come quelli di religione e filosofia a qualcosa come il Buddhismo, nato e formatosi in culture che, sino a qualche secolo fa, ignoravano del tutto tali concetti. Ad esempio lo studioso italiano Mario Piantelli afferma che assimilare i diversi tipi di Buddhismo «sic et simpliciter agli altri "oggetti-religione" costruiti in modo più o meno arbitrario ritagliandoli all'interno del contesto prodigiosamente complesso del mondo indiano può risultare, per il primo periodo della loro storia, alquanto fuorviante». Sempre Piantelli, inoltre, fa notare come il Buddhismo, alla sua origine, comporti «un'opzione soteriologica sotto diversi aspetti «anti-religiosa», almeno secondo un modo tradizionale di definire la religione».
  • Il Buddha paragonava se stesso al medico che, trovandosi di fronte ad un uomo colpito da una freccia, si prodiga innanzi tutto nel curare la ferita mosso dalla priorità di salvargli la vita, anziché preoccuparsi prioritariamente di scovare l'arciere che ha scagliato la freccia lasciando nel frattempo morire il ferito. Per il Buddha, quindi, prendere posizione su questioni quali teismo, ateismo, filosofia di vita, equivale ad affannarsi nella ricerca dell'arciere, come fanno le religioni, gli atei e le filosofie, ma queste prese di posizione sono invece totalmente estranee agli insegnamenti del Buddha che prescindono da esse e conseguentemente anche il Buddhismo, in nuce, trae la propria ragion d'essere in modo completamente indipendente da queste questioni esistenziali, prefiggendosi esclusivamente di curare la sofferenza posta al centro delle Quattro Nobili Verità oggetto dell'illuminazione del Buddha e del suo messaggio, anziché preoccuparsi di disquisire di come o per opera di chi si origini la sofferenza stessa e perché l'Uomo ne sia colpito.
  • Il Buddha stesso, quando era in vita, a chi esplicitamente gli domandava se i suoi insegnamenti fossero teisti, atei, o costituissero una filosofia di vita, invariabilmente tacque sempre su questi punti specifici, senza mai soddisfare a queste domande. Questo modo di esprimersi del Buddha di fronte all'esplicita richiesta di prendere posizione fra teismo, ateismo e filosofia di vita, diventa determinante nella questione di come vengono considerate queste rispettive posizioni esistenziali nel Buddhismo, così come esso si è successivamente sviluppato dopo la morte del Buddha, nel senso che tale silenzio induce a considerare che il Buddha stesso intendesse volontariamente prescindere da queste questioni nei suoi insegnamenti, non potendosi questo comportamento interpretare come ritrosia dal momento che ancora poco prima di morire il Buddha stesso fu assai esplicito nel dichiarare chiaramente «che lui aveva ormai risposto ad ogni possibile domanda di insegnamento che gli era provenuta dalla comunità dei suoi monaci» e questa sua dichiarazione, resa proprio poco prima della sua morte, induce a propendere per una volontà da parte del Buddha nel non voler aggiungere nulla di più e nel non voler modificare neppure in punto di morte il suo atteggiamento di «prescindere totalmente dalle suddette posizioni esistenziali di teismo, ateismo e di filosofia di vita».
Si legge infatti nel Mahāparinibbānasuttanta («il grande discorso del nibbāna definitivo»), seconda sezione, verso 32 [5]
« [...omissis...] ... Il beato rispose: "Ma, Ānanda, cos'altro può
chiedermi la comunità dei monaci? Io, Ānanda, ho
insegnato il Dhamma evitando di creare una
dottrina esoterica ed una essoterica [31]: il Tathāgata
è ben lungi dall'essere un maestro dal
"pugno chiuso" (ācariyamuṭṭhi) per quanto
riguarda gli insegnamenti!" ...
[...omissis...] ... "Perciò, Ānanda, siate un'isola (dīpa) [35]
per voi stessi, prendete rifugio in voi stessi e non in altro!
Che la vostra isola sia il Dhamma, che il vostro rifugio
sia il Dhamma e non altro!
31) Leggiamo nel commento: «Non ho mai fatto di questo Dhamma né una questione interna, privata, pensando "Non insegnerò questo Dhamma ad altri", né una questione esterna, pubblica, pensando "Insegnerò questo Dhamma ad altri"».
35) Il termine dīpa può significare sia «lampada» (sanscrito dīpa) sia «isola» (sanscrito dvīpa). Nel commento, dīpa è interpretato con "paṭiṭṭhā", base, supporto, aiuto, luogo di riposo: si è, quindi, optato per «isola» che è, fra l'altro, anche la traduzione solitamente accettata. »
Per questa totale mancanza di esplicite indicazioni da parte del Buddha stesso su quale sia esattamente la categoria più appropriata, fra le varie posizioni esistenziali, per collocare i suoi insegnamenti, è possibile anche definire il Buddhismo una «Via spirituale di disciplina e pratica individuale» in modo da prescindere, con tale definizione, dai concetti di «teismo», «ateismo» e «filosofia di vita», così come fece il Buddha stesso quando era in vita ed in modo da includere nel contempo in tale definizione anche l'indicazione della specifica esortazione del Buddha, contenuta nel «discorso del nibbāna definitivo», a procedere nel proprio cammino individuale (essere "dīpa") di elevazione e realizzazione spirituale, prendendo rifugio in se stessi attraverso la propria personale esperienza d'investigazione del dhamma (il dhamma-vicaya), secondo il metodo introspettivo (Bodhipakkhika Dhamma) da lui insegnato, che conduce alla piena ed esaustiva realizzazione buddhista attraverso il cosiddetto «risveglio spirituale buddhista».
  • Sull'inclassificabilità del Buddhismo quale forma di ateismo, si riporta un commento del venerabile Sri Dhammananda: "È il Buddhismo ateo?"
« Il Buddha condannò [la dottrina del]l’assenza di Dio intesa come la negazione della preghiera e della rinuncia, la negazione degli obblighi morali e sociali e la negazione della vita religiosa. Riconobbe con particolare enfasi l’esistenza di valori morali e spirituali. Proclamò la supremazia della legge morale. Solo in un senso il Buddhismo può essere definito ateo, vale a dire in quanto nega l’esistenza di un Dio eterno onnipotente o di un signore creatore e ordinatore del mondo. La parola “ateismo”, tuttavia, è in generale appesantita da una quantità di varie accezioni o implicazioni che non sono in alcun modo riconducibili all’insegnamento del Buddha. Quanti usano la parola “ateismo” di solito l’associano a una dottrina che non conosce nulla di più elevato del mondo sensibile e dell’esigua felicità che questo può accordare. Il Buddhismo non sostiene nulla del genere. Non c’è giustificazione per bollare i buddhisti quali atei, nichilisti, pagani, miscredenti o comunisti solo perché non credono in un Dio creatore. Il concetto buddhista di Dio è diverso da quello delle altre religioni. Le differenze nel credere non giustificano l’attribuzione di nomignoli o di epiteti fuorvianti. Il Buddhismo concorda con le altre religioni che una felicità autentica e durevole non si può trovare nel mondo materiale. Il Buddha aggiunge però che che la felicità autentica e durevole non si può trovare [nemmeno] negli stati dell’esistenza elevati o sovramondani cui si dà il nome di mondo celeste o divino. Pur essendo i valori spirituali proposti dal Buddhismo orientati ad uno stato trascendente il mondo mediante il conseguimento del nirvana, non operano una separazione tra l’”al di là” e il “qui e ora”. Hanno radici ferme nel mondo stesso, aspirando alla più elevata realizzazione in questa stessa esistenza. »
Da: “What Buddhists Believe” di K. Sri Dhammananda, parte seconda, capitolo 6, pagg. 128-9.

[modifica] Testi

I testi sacri del Buddhismo sono attualmente raccolti in tre canoni: il Canone Pāli (Tipitaka), il Canone cinese (Dazangjing), e il Canone tibetano (Bka'-gyur) a seconda delle lingue degli scritti. Il Canone Pāli è proprio del Buddhismo Theravāda, e si compone di tre pitaka, o canestri: il Vinaya Piṭaka, o canestro della disciplina, con le regole di vita dei monaci; il Sutta Piṭaka o canestro della dottrina, con i sermoni del Buddha; infine l'Abhidhamma Piṭaka o canestro della fenomenologia in ambito cosmologico, psicologico e metafisico, che raccoglie gli approfondimenti alla dottrina esposta nel Sutta Piṭaka. I Canoni cinese e tibetano si rifanno ad un precedente Canone tradotto in lingua sanscrita sotto l' Impero Kushan e poi andato in buona parte perduto. Questi due Canoni furono adottati dalla tradizione Mahāyāna che prevalse sia in Cina che in Tibet. Il Canone tibetano si suddivide in due raccolte, il Kangiur (che riporta discorsi pronunciati dal Buddha Shakyamuni) e il Tanjur (Raccolta di commenti e insegnamenti), mentre il Canone cinese si compone di circa 3.500 sutra e oltre 2.000 testi di commento ed è suddiviso in 24 sezioni principali.

Il canone sanscrito riportava tutti i testi delle differenti antiche scuole e dei differenti insegnamenti presenti nell'impero Kushano. La traduzione di tutte queste opere dalle originali lingue pracritiche a quella sanscrita (una sorta di lingua dotta 'internazionale' come lo fu il latino nel nostro Medioevo) fu voluta dagli stessi imperatori. Buona parte di questi testi furono successivamente trasferiti in Tibet e in Cina sia da missionari kushani (ma anche persiani e sogdiani), sia riportati in patria da pellegrini. Da segnalare che le regole monastiche (Vinaya) delle scuole presenti oggi in Tibet e in Cina derivano da due antichissime scuole indiane (vedi Buddhismo dei Nikāya), rispettivamente dalla Mulāsarvastivāda e dalla Dharmaguptaka.

[modifica] Correnti del Buddhismo

[modifica] In India

Il Buddhismo si estinse in India, paese d'origine, approssimativamente attorno al XIV secolo. Tuttavia durante più di 1500 anni di storia il Buddhismo Indiano (Buddhismo dei Nikaya) ha sviluppato indirizzi e interpretazioni diverse, anche estremamente complesse. Lo sviluppo di tale complessità si rese necessaria con il continuo confronto dottrinale sia all'esterno delle Comunità monastiche con le scuole Brahmaniche e Jaina, sia all'interno delle stesse per svelare progressivamente gli insegnamenti (soprattutto i c.d. "inesprimibili") contenuti negli antichi Agama-Nikaya. Attualmente le scuole buddhiste possono essere suddivise in tre ambiti:

  • Il Buddhismo Theravāda anche noto come il «Buddhismo degli Anziani» o degli Sthavira (titolo onorifico per i monaci anziani). Rappresenta la più longeva scuola originatasi da quelle antiche comunità che, a loro detta, scelsero sempre un approccio più ortodosso e letterale all'insegnamento del Buddha storico, in special modo in contrapposizione ad alcuni insegnamenti ritenuti innovativi proposti dai Prajnaparamita Sutra. La tradizione Theravāda è stata recentemente reintrodotta in India, sebbene rappresenti una sparuta minoranza, ma fiorì soprattutto in Sri Lanka e da lì, per le vie commerciali meridionali si diffuse in alcuni paesi dell'Indocina. Il Buddhismo Theravāda ha sviluppato un approccio per lo più indipendente dagli altri sviluppi del Buddhismo in Asia. La tradizione letteraria è trasmessa in Pāli, una lingua scritta basata su un dialetto pracrito presumibilmente dell'India centro-settentrionale e il cui utilizzo è attestato alcuni secoli dopo le predicazioni del Buddha storico.
  • Buddhismo Mahāyāna o del «Grande Veicolo», sviluppatosi anch'esso, come la scuola Theravāda, a partire da alcune comunità buddhiste antiche ma con l'accolgimento degli insegnamenti riportati nei Prajnaparamita Sutra. Buona parte del Buddhismo Indiano a partire dal II secolo fino alla sua scomparsa è rappresentato o influenzato da questa corrente, in seno alla quale meritano particolare menzione gli indirizzi Madhyamika, Cittamatra e il Buddhismo Vajrayāna. La quasi totalità delle differenti scuole oggi presenti in Estremo Oriente appartengono a questo Veicolo.
  • Il Buddhismo Tantrico anch'esso Mahāyāna, rappresenta la controparte buddhista di un fenomeno più ampio nelle religioni dell'India, il Tantrismo, che ha influenzato anche l'Induismo. Si sviluppò in seno al Buddhismo Mahayana e ne influenzò profondamente la pratica, almeno dal VI secolo in poi. Anche noto come Mantrayana, la sua forma più organizzata è più conosciuta come Buddhismo Vajrayāna o Veicolo del Diamante. Storie del Buddhismo molto importanti come quella del tibetano Taranatha attestano che, almeno dal X secolo, i centri universitari buddhisti in India dispensavano soprattutto insegnamenti tantrici. Pressocché tutte le scuole tibetane, ma anche diverse scuole estremo-orientali, appartengono oggi a questo Veicolo.

[modifica] Il Buddhismo fuori dall'India

Tra le tradizioni che fuori dall'India hanno avuto una lunga storia e un'evoluzione in parte indipendente ricordiamo:

[modifica] Note

  1. ^ cfr. ad esempio H. S. Hisamatsu. Una religione senza Dio. Satori e Ateismo. Genova, Il melangolo srl, 1996. ISBN 88-7018-293-2
  2. ^ Giovanni Paolo II. Varcare la soglia della speranza. Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1994. ISBN 8804534281
  3. ^ Tale affermazione è contestata da chi, invece asserisce che il Buddhismo non contempla aiuti dall'alto, e che anzi in tutti i sutra chiunque o qualunque cosa si trovi «in alto», «scende» per un consulto dal tathagata
  4. ^ ovviamente, pur avvenendo in uno schiocco di dita, o staccando un fiore dal terreno come dice una nota scuola buddhista cinese, o per aver pensato per una sola volta, per un breve istante, al Buddha Amitābha, o averne pronunciato il nome per caso, la realizzazione diretta della vacuità (la bodhi) «non avviene senza causa».
  5. ^ citazione dal libro La rivelazione del Buddha - I testi antichi. Mondadori, Milano 2001, traduzione italiana di Claudio Cicuzza

[modifica] Bibliografia

  • Vincenzo Talamo (a cura di), Canone buddhistico - Testi brevi, Bollati Boringhieri, Torino 1961 (rist. 2000), ISBN 8833912604
  • Vincenzo Talamo (a cura di), Saṃyutta Nikāya, Astrolabio Ubaldini, Roma 1998, ISBN 8834012933
  • Raniero Gnoli (a cura di), La Rivelazione del Buddha (due volumi), Mondadori, Milano, volume I 2001, ISBN 8804478985, volume II 2004, ISBN 8804513543
  • Peter Harvey. Introduzione al Buddhismo. Insegnamenti, storia e pratiche. Le Lettere, 1998. ISBN 887166390X
  • Christmas Humphreys. Dizionario buddhista. Astrolabio Ubaldini, 1981. ISBN 883400681X
  • Klaus K. Klostermeier. Buddhismo. Una introduzione. Fazi, 2005. ISBN 8881126036
  • Kulananda. Buddhismo. Armenia, 1997. ISBN 8834407857
  • Damien Keown. Buddhismo. Einaudi, 1996. ISBN 8806147978
  • Luciana Meazza. Le filosofie buddhiste. Xenia, 1998. ISBN 8872733006
  • Lama Ole Nydahl. Buddhismo della Via di Diamante. Edizioni Mediterranee
  • Lama Ole Nydahl. Il buddha e l'amore. Come vivere una relazione appagante e piena di significato. Oscar varia, Mondadori, 2006. ISBN 8804561149
  • Mario Piantelli, Il Buddhismo Indiano, in Giovanni Filoramo (a cura di), Storia delle religioni - 4. Religioni dell'India e dell'Estremo Oriente, Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. 275-368.
  • Mauricio Y. Marassi, Il Buddhismo mahāyāna attraverso i luoghi, i tempi e le culture. L'India e cenni sul Tibet, Marietti editore, Genova-Milano 2006. ISBN 8821165493

[modifica] Voci correlate

[modifica] Altri progetti

[modifica] Collegamenti esterni

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