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Utente:Filos96 - Wikipedia

Utente:Filos96

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

[modifica] Genista

« 
Καὶ ἠγάπησαν οἱ ἄνθρωποι μᾶλλον τὸ σκότος ἢ τὸ φῶς
E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce.
Giovanni, III, 19


Qui su l'arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null'altro allegra arbor né fiore,

Tuoi cespi solitari intorno spargi,

Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
De' tuoi steli abbellir l'erme contrade
Che cingon la cittade

La qual fu donna de' mortali un tempo,

E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi

Lochi e dal mondo abbandonati amante,

E d'afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell'impietrata lava,

Che sotto i passi al peregrin risona;

Dove s'annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,

E biondeggiàr di spiche, e risonaro

Di muggito d'armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi de' potenti
Gradito ospizio; e fur città famose

Che coi torrenti suoi l'altero monte

Dall'ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve,
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi

I danni altrui commiserando, al cielo

Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che d'esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto

È il gener nostro in cura

All'amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell'uman seme,
Cui la dura nutrice, ov'ei men teme,

Con lieve moto in un momento annulla

In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive

Son dell'umana gente

Le magnifiche sorti e progressive.

Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora

Dal risorto pensier segnato innanti

Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E procedere il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,

Di cui lor sorte rea padre ti fece,

Vanno adulando, ancora
Ch'a ludibrio talora
T'abbian fra sé. Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;

Ma il disprezzo piuttosto che si serra

Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch'io sappia che obblio
Preme chi troppo all'età propria increbbe.

Di questo mal, che teco

Mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di novo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo

Della barbarie in parte, e per cui solo

Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
Dell'aspra sorte e del depresso loco

Che natura ci diè. Per questo il tergo

Vigliaccamente rivolgesti al lume
Che il fe' palese: e, fuggitivo, appelli
Vil chi lui segue, e solo
Magnanimo colui

Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,

Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.

Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell'alma generoso ed alto,
Non chiama sé né stima

Ricco d'or né gagliardo,

E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma sé di forza e di tesor mendico

Lascia parer senza vergogna, e noma

Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto,

Quel che nato a perir, nutrito in pene,

Dice, a goder son fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,

Non pur quest'orbe, promettendo in terra

A popoli che un'onda
Di mar commosso, un fiato
D'aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, che avanza

A gran pena di lor la rimembranza.

Nobil natura è quella
Che a sollevar s'ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,

Nulla al ver detraendo,

Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire

Fraterne, ancor più gravi

D'ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l'uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che de' mortali

Madre è di parto e di voler matrigna.

Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L'umana compagnia,

Tutti fra sé confederati estima

Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce

Della guerra comune. Ed alle offese

Dell'uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,
Stolto crede così qual fora in campo
Cinto d'oste contraria, in sul più vivo

Incalzar degli assalti,

Gl'inimici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,
E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri.

Così fatti pensieri

Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quell'orror che primo
Contra l'empia natura
Strinse i mortali in social catena,

Fia ricondotto in parte

Da verace saper, l'onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,

Ove fondata probità del volgo

Così star suole in piede
Quale star può quel ch'ha in error la sede.

Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno

Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,

Seggo la notte; e su la mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio

Il mare, e tutto di scintille in giro

Per lo vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch'a lor sembrano un punto,
E sono immense, in guisa

Che un punto a petto a lor son terra e mare

Veracemente; a cui
L'uomo non pur, ma questo
Globo ove l'uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e quando miro

Quegli ancor più senz'alcun fin remoti

Nodi quasi di stelle,
Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole,

Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle

O sono ignote, o così paion come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole

Dell'uomo? E rimembrando

Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
Che te signora e fine
Credi tu data al Tutto, e quante volte

Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro

Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion, dell'universe cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Co' tuoi piacevolmente, e che i derisi

Sogni rinnovellando, ai saggi insulta

Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume
Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal prole infelice, o qual pensiero

Verso te finalmente il cor m'assale?

Non so se il riso o la pietà prevale.

Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
Cui là nel tardo autunno
Maturità senz'altra forza atterra,

D'un popol di formiche i dolci alberghi,

Cavati in molle gleba
Con gran lavoro, e l'opre
E le ricchezze che adunate a prova
Con lungo affaticar l'assidua gente

Avea provvidamente al tempo estivo,

Schiaccia, diserta e copre
In un punto; così d'alto piombando,
Dall'utero tonante
Scagliata al ciel profondo,

Di ceneri e di pomici e di sassi

Notte e ruina, infusa
Di bollenti ruscelli
O pel montano fianco
Furiosa tra l'erba

Di liquefatti massi

E di metalli e d'infocata arena
Scendendo immensa piena,
Le cittadi che il mar là su l'estremo
Lido aspergea, confuse

E infranse e ricoperse

In pochi istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e città nove
Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura

L'arduo monte al suo piè quasi calpesta.

Non ha natura al seme
Dell'uom più stima o cura
Che alla formica: e se più rara in quello
Che nell'altra è la strage,

Non avvien ciò d'altronde

Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.

Ben mille ed ottocento
Anni varcàr poi che spariro, oppressi
Dall'ignea forza, i popolati seggi,

E il villanello intento

Ai vigneti, che a stento in questi campi
Nutre la morta zolla e incenerita,
Ancor leva lo sguardo
Sospettoso alla vetta

Fatal, che nulla mai fatta più mite

Ancor siede tremenda, ancor minaccia
A lui strage ed ai figli ed agli averi
Lor poverelli. E spesso
Il meschino in sul tetto

Dell'ostel villereccio, alla vagante

Aura giacendo tutta notte insonne,
E balzando più volte, esplora il corso
Del temuto bollor, che si riversa
Dall'inesausto grembo

Su l'arenoso dorso, a cui riluce

Di Capri la marina
E di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
Del domestico pozzo ode mai l'acqua

Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,

Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
Di lor cose rapir posson, fuggendo,
Vede lontan l'usato
Suo nido, e il picciol campo,

Che gli fu dalla fame unico schermo,

Preda al flutto rovente,
Che crepitando giunge, e inesorato
Durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio

Dopo l'antica obblivion l'estinta

Pompei, come sepolto
Scheletro, cui di terra
Avarizia o pietà rende all'aperto;
E dal deserto foro

Diritto infra le file

Dei mozzi colonnati il peregrino
Lunge contempla il bipartito giogo
E la cresta fumante,
Che alla sparsa ruina ancor minaccia.

E nell'orror della secreta notte

Per li vacui teatri,
Per li templi deformi e per le rotte
Case, ove i parti il pipistrello asconde,
Come sinistra face

Che per vòti palagi atra s'aggiri,

Corre il baglior della funerea lava,
Che di lontan per l'ombre
Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Così, dell'uomo ignara e dell'etadi

Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno

Dopo gli avi i nepoti,
Sta natura ognor verde, anzi procede
Per sì lungo cammino
Che sembra star. Caggiono i regni intanto,

Passan genti e linguaggi: ella nol vede:

E l'uom d'eternità s'arroga il vanto.

E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,

Anche tu presto alla crudel possanza

Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l'avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai

Sotto il fascio mortal non renitente

Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto

Con forsennato orgoglio inver le stelle,

Né sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto

Meno inferma dell'uom, quanto le frali

Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.

 »
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[modifica] Luoghi

  1. Necropoli dei bambini di Lugnano
  2. Mansio
  3. Geografia (Strabone)

[modifica] Gallia

[modifica] Personaggi

  1. Gaio Trebazio Testa
  2. Vercingetorige
  3. Lucio Minucio Basilo
  4. Tasgezio
  5. Galba dei Suessioni
  6. Viridomaro
  7. Eporedorige
  8. Camulogeno
  9. Catuvolco
  10. Celtillo
  11. Viridovice
  12. Teutomato
  13. Lucterio
  14. Coto
  15. Convictolitave

[modifica] Popoli gallici

  1. Nitiobrogi
  2. Gabali
  3. Garonni
  4. Ceresi
  5. Pemani
  6. Vasati
  7. Lemovici
  8. Catalauni
  9. Gati
  10. Tarbelli
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  13. Ausci
  14. Manapi
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  32. Tolosati
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  40. Abrincati
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  44. Geidunni
  45. Leuci

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  1. Noviodunum
  2. Admagetobriga
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  1. Tabula Traiana
  2. Ponte di Traiano
  3. Porte di Ferro
  4. Căpâlna (Săsciori)‎
  5. Piatra Craivii
  6. Tilişca‎
Contributi vari
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Formule TEX / Prontuario TEX

|\mathbf x - \mathbf y|, \|\mathbf x - \mathbf y\|, {\begin{Vmatrix} {\mathbf x -\mathbf y} \end{Vmatrix}}, {\begin{vmatrix} {\mathbf x -\mathbf y} \end{vmatrix}}, \sup_{\mathbf \xi \in \Omega} \{f(\mathbf \xi) \},  f(\mathbf y) - f(\mathbf x) = Df(\mathbf x)(\mathbf y -\mathbf x) +
\omega( \mathbf x, \mathbf x - \mathbf y)

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[modifica] Un Geko sornione

(LA)
« Leo Gekus vere Calancus, sed ut ipse vult Tigolus, quasi sit gecum esse quam italum »
(IT)
«  \mathbf Il Geco Leonzio (è) in realtà Calanco, ma come egli stesso vuol definirsi, è Tigolo, quasi fosse geco piuttosto che italiano. »


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