Verbicaro
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Verbicaro | |||||||||
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Stato: | Italia | ||||||||
Regione: | Calabria | ||||||||
Provincia: | Cosenza | ||||||||
Coordinate: | |||||||||
Altitudine: | 420 m s.l.m. | ||||||||
Superficie: | 32 km² | ||||||||
Abitanti: |
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Densità: | 104 ab./km² | ||||||||
Comuni contigui: | Grisolia, Orsomarso, San Donato di Ninea, Santa Maria del Cedro | ||||||||
CAP: | 87020 | ||||||||
Pref. tel: | 0985 | ||||||||
Codice ISTAT: | 078153 | ||||||||
Codice catasto: | L747 | ||||||||
Nome abitanti: | verbicaresi | ||||||||
Santo patrono: | Madonna delle Grazie | ||||||||
Giorno festivo: | 2 luglio | ||||||||
Sito istituzionale | |||||||||
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Verbicaro è un comune di 3.354 abitanti della provincia di Cosenza.
Indice |
[modifica] Cenni Storici
Alcuni storici identificano Verbicaro con l'Aprustum dei Bruzi o con Vergae. Il nome del paese è di origine incerta per le varianti etimologiche; da Vernicaio, così denominato per la chiarezza dell'aria, " a vernante aere dictum", a Bernicaro e Berbicaro, in dialetto Vruvicaru, che potrebbe significare etimologicamente luogo di pastori, dal latino "berbicarius", pecoraio o per la derivazione etimologica dal latino vervex, pecora.
La denominazione di Verbicaro, quindi, potrebbe essere derivata, con fondatezza di ragione, secondo l'ipotesi etimologica, dai luoghi, dove il borgo sorse, brulli, impervi e selvosi, abitati e frequentati da pastori.
Il centro storico, ormai parzialmente disabitato costituisce per la sua configurazione caratteristica, topografica ed urbanistica, il primo e più significativo documento storico relativamente all'origine ed alla ragione stessa del paese, in difetto di particolari fonti di notizie.
In rapporto alla sua configurazione topografica ne deriva che Verbicaro sia sorto come "castello" che si estendeva dal palazzo antico baronale sino a Bonifanti. L'antico palazzo baronale conserva ancora il nome di Castello. Si vedono ancora le strutture di un paese rifugio: mura di difesa con tre porte d'accesso all'abitato. Le case sono tutte di un solo vano, una addossata all'altra edificate a difesa e protezione. Si può ritenere che il primo nucleo abitato sia sorto in funzione difensiva, quando in epoca medievale, le popolazioni rivierasche, per scampare alla malaria ed alla violenza delle incursioni piratesche e dei Saraceni, durante il periodo bizantino, erano costrette a ritirarsi nel retroterra, in luoghi alti ed impervi, più sicuri e più adatti alla difesa.
Il borgo, ristretto alle origini tra i naturali contrafforti rocciosi ed i muraglioni protettivi di cinta, cominciò gradualmente ad espandersi con il crescere della popolazione diramandosi in agglomerati rionali di case nella campagna circostante. Il paese si sviluppò da questo nucleo fino a raggiungere le dimensioni attuali. L'episodio più noto e studiato della storia di Verbicaro è l'epidemia di colera dell'estate del 1911 e la rivolta che causò. Molto spesso il fatto viene strumentalizzato per sottolineare l'arretratezza del paese agli inizi del Novecento, senza considerare che in quegli anni a vivere in condizioni di emarginazione non era solo Verbicaro ma tutta l'Italia meridionale, con gravi responsabilità del governo nazionale.
Ai verbicaresi erano tristemente note le conseguenze di un'epidemia, poiché già in passato il paese era stato colpito da simili calamità. La prima di cui si ha notizia risale al 1656, quando per il contagio che colpì il Regno di Napoli morirono a Verbicaro 1036 persone, l'altra nel 1844 che registrò 246 morti.
Il colera, implacabile, si abbatté ancora su Verbicaro nel 1855 e fu ancora più drammatico non solo per l'elevato numero di vittime, ma, soprattutto per la rivolta che questo causò, di gran lunga più cruenta e con lo stesso meccanismo di quella del 1911. Nel 1911, quando in Italia si celebravano i primi cinquant'anni di unità nazionale, si salutava questo avvenimento con grandi manifestazioni e cerimonie, da Verbicaro, da questo piccolo e sperduto paese della Calabria, del tutto sconosciuto alla gran parte degli italiani, cominciarono a giungere notizie inquietanti.
L'epidemia di colera, che nell'estate del 1911 aveva toccato altre regioni italiane, ebbe a Verbicaro, per le precarie condizioni igieniche e sanitarie, effetti devastanti. Provocò la violenta reazione della popolazione di Verbicaro che insorse contro le autorità locali, i "galantuomini" del paese, considerati responsabili dell'epidemia, giudicati alla stregua di "untori". Il popolo, terrorizzato dall'epidemia, e dovendo nella sua ignoranza, spiegare quella tragedia, giustificava il colera con la "polverella": un veleno messo dalle autorità locali nelle fontana pubblica per uccidere gli abitanti.
La causa dell'epidemia era la mancanza di igiene. L'acqua della "fontana vecchia", l'unica fontana pubblica, la cui sorgente era nel sottosuolo, era inquinata dagli stessi cittadini, che di notte soddisfacevano i loro bisogni per le vie. Nel tumulto furono uccise tre persone, ritenute responsabili dell'avvelenamento.
Verbicaro, diventa, in quell'estate del 1911, quasi un monito per la coscienza di un paese e di uno Stato che sembrava aver dimenticato antichi e non risolti problemi sociali. L'episodio distruttivo e desolante del 1855, che si ripeté con inalterata intensità nel 1911, segnò i cittadini con il marchio infamante della ferocia e della criminalità. In realtà erano solo dei poveri contadini abbandonati a sé, abituati a sopportare i soprusi dei "galantuomini" e che avevano una sola fede in cui credere e sperare: la famiglia.
E quando un'epidemia senza scampo li privò degli affetti più cari, improvvisamente e senza nessuno capace di dare spiegazioni plausibili a ciò che stava accadendo, impazzirono di dolore, divenendo collettività incontrollabile, feroce e devastante. Furono, dunque, l'eccesso di dolore e l'ignoranza a causare le rivolte. Sono storie cariche di sofferenze e meritano tutto il nostro rispetto; e se non un minimo di comprensione, neanche un giudizio frettoloso o distratto. Sono avvenimenti spiacevoli ma, anch'essi, purtroppo, ci appartengono, sono parte integrante della nostra vita, da non dimenticare.
Il palazzo marchesale fu costruito nella seconda metà del '700, in aderenza all'ala di accesso al vecchio castello, dove probabilmente alloggiavano i precedenti feudatari durante la loro permanenza in paese. Di scarso valore architettonico, abbastanza modesto in confronto ad alcuni fastosi palazzi gentilizi, costruiti altrove da altri feudatari, attualmente, proprietà di privati cittadini, è stata sede per lungo tempo della caserma dei carabinieri. Una scritta dipinta sotto il cornicione: "Nicollaus Cavalcanti, de marchionibus terrae Verbicarii, sibi suisque fecit " ci ricorda che fu costruito da Nicola Cavalcanti, marchese di Verbicaro.
[modifica] Morfologia e Geologia
Verbicaro, estende il suo territorio sui rilievi collinari e premontani che si affacciano verso il Tirreno a sud della foce del fiume Lao, nella Calabria settentrionale. L'abitato è in un pendìo sul versante idrografico destro della valle del fiume Abatemarco. Il territorio è interessato da fenomeni sorgentizi e da una serie di impulvi e corsi d'acqua a carattere torrentizio; è caratterizzato dal medio corso del fiume Abatemarco che lo limita all'incirca in direzione W-E e la cui valle fluviale ne definisce per grosse linee i limiti amministrativi e ne caratterizza la fitta rete idrografica minore. Questo corso d'acqua partendo dal versante occidentale del Cozzo del Pellegrino, sfocia in mare tra Scalea e Cirella, poco a sud del fiume Lao. Scorre in modo quasi lineare per circa 10 Km in un ambiente ricco di vegetazione su entrambi i lati; nello stesso fiume confluiscono altri corsi d'acqua di minore entita'.
Questo fiume rappresenta una risorsa fondamentale e indispensabile per il territorio, un patrimonio da salvare e da valorizzare; negli ultimi anni ha subito una forte riduzione della sua portata per effetto della canalizzazione di gran parte delle acque che servono per l'approvvigionamento degli abitanti del cosentino. Ultimamente a questo si è aggiunto il pericolo dell'assorbimento completo delle acque per un progetto in atto ma temporaneamente sospeso. La topografia del territorio comunale presenta evidenti contrasti nel passaggio tra una zona e l'altra. In genere si nota una diminuzione delle quote da Est a Ovest. La geomorfologia, comunque, è caratterizzata da una netta distinzione tra le aree a monte dell'abitato dove affiorano i sedimenti a prevalente composizione calcareo-dolomitica e le fasce a valle dell'abitato dove si rilevano esclusivamente formazioni argillitiche. Le prime sono caratterizzate da un paesaggio collinare con profonde incisioni vallive a "V" stretta e ripidi versanti che a tratti divengono scarpate subverticali, a queste si accostano aree a morfologia più dolce determinate dalla copertura detritica eluvio-colluviale e argillo-scistosa che sovrappostisi sui fianchi di questi rilievi ne ha smorzato le notevoli pendenze; le seconde sono caratterizzate da pendenze meno accentuate. Nell'ambito del territorio del Comune di Verbicaro affiorano terreni litologicamente molto diversi tra loro ma che per le loro caratteristiche possono essere raggruppati in: terreni scistoso-filladici, Rocce ignee basiche, terreni calcarei e dolomitici e Brecce calcaree. Il territorio presenta condizioni climatiche intermedie tra quelle della fascia costiera e quelle della zona più interna con escursioni termiche moderate e precipitazioni meteorologiche maggiormente concentrate nel periodo autunno-inverno. Esso è naturalmente difeso dai venti freddi dalla conformazione montuosa. La zona è interessata dai venti occidentali, ricchi di umidità e causa di precipitazioni di notevole intensità. Fra i venti variabili, molto temuto per gli effetti dannosi sulla vegetazione, è lo scirocco africano: vento torrido e asciutto che trasporta polvere proveniente dal deserto. Patrimonio non ancora contaminato grazie anche alla ancora scarsa rete di comunicazione che ha creato una naturale barriera alla deturpazione dell'ambiente naturale.
[modifica] Agricoltura
Le produzioni sono varie, dalle colture cerealicole a quelle ortive, a quelle della vite e dell'ulivo; nella conservazione dei prodotti, largamente diffuse sono: la lavorazione delle olive trattate in vari modi, le melanzane sott'olio, i fichi secchi, l'uva passita, ecc...
La maggior parte dei verbicaresi sono proprietari di modesti appezzamenti di terreno, quasi tutti vi praticano un'agricoltura di sussistenza, nella maggior parte dei casi integrata con altre attivita'.
La principale risorsa del settore agricolo resta la coltivazione delle viti da cui si ricavano vini di gran pregio, rossi e bianchi. Le viti coltivate sono Greco nero e bianco, Gaglioppo, Malvasia, Guarnaccia e Zibibbo.
Il vino, riconosciuto DOC nel 1995, rinomato in tutta la regione, era conosciuto ed apprezzato fin dai tempi dei Romani. Ha conservato negli anni la sua bontà e genuinità; i famosi "catuvi" (cantine) custodiscono ancora il segreto della sua fermentazione e conservazione. Nelle sue qualità rosso e bianco rallegra le tavole di estimatori e buongustai.
[modifica] Artigianato
Esiste una forma di artigianato artistico e di tradizione che testimonia ancora oggi la storia e la cultura delle nostre genti. In passato hanno dato lustro al paese, la lavorazione delle pietre grigie e molari, quella del legno, la costruzione di strumenti musicali, ma soprattutto l'arte della tessitura e la lavorazione della seta, esportata in tutta Europa fino alla seconda metà del sec. XVII. Si coltivava, inoltre, il lino per confezionare i capi di biancheria più fine e si macerava e lavorava la ginestra per i capi di biancheria più dozzinale; le stoffe venivano tessute a casa con i telai artigianali. Pregevoli i lavori a ricamo ed uncinetto.
Le produzioni in giunco, canne, salici ed i lavori di intreccio per creare cesti, "panari", "cannizze", così come gli intagli in legno e la stessa tessitura, sono attività ancora integrate nella vita e nel costume del paese.
[modifica] Gastronomia
È sempre più sentita l'esigenza di recuperare sapori, profumi e tradizioni ormai in continua scomparsa. In questa zona dell'Alto Tirreno Cosentino, così ricca di storia e tradizioni culinarie, molte pietanze tradizionali continuano ad essere preparate con la stessa meticolosità di un tempo. Ricca ed abbondante si presenta la varietà dei primi piatti: i "fusuiddi" (pasta fresca condita con sugo di carne di capra); "lagani e fasuoli" (tagliolini fatti in casa con fagioli); "rasckatieddi" gnocchi di patate conditi con formaggio fresco grattugiato; "laganieddi ccu luattu" tagliatelle cotte nel latte, preparate il giorno dell'Ascensione; "laghini e ciciri' tagliolini fatti in casa conditi con ceci e pepe rosso con aglio e olio, preparati il giorno di San Giuseppe da devoti e donati a parenti e vicini di casa, chiamato "u mmuit' i San Giseppi". Tra i secondi abbiamo le "vrasciole" (involtini di carne di maiale), "baccala' e pipi siccati" (baccala' con peperoni secchi), "pipi mpajanati" (peperoni secchi mescolati con una pastella di farina, acqua e lievito e poi fritti), "vruocculi ca' savuzuizza" (cime di rapa fritti con olio, aglio e salsiccia) "mijini" (pane con farina di mais), pane bianco e integrale fatto in casa.
Buonissimi anche i formaggi e i salumi: tra i primi la ricotta di latte di pecora nei "custigni" (contenitori di giunco intrecciato a mano ed essiccato, che vengono ricoperti con foglie di felce, tenute insieme da un legaccio fatto di steli di ginestra), il "ricottale" (ricotta che viene salata e poi affumicata); tra i secondi il capicollo, le salsicce, il prosciutto, la "vrina" (pancetta). Da assaggiare anche le melanzane, le zucchine e i pomodori sott'olio, i "cosi siccati" (zucchine tagliate a spirale e fatte essiccare al sole, gustate durante l'inverno con patate e peperoni rossi macinati), i "pipi arrusckuati" (peperoni rossi essiccati passati nell'olio caldo), le olive nere, infornate e poi condite con pepe rosso macinato, olio, peperoncino. Tra i dolci ricordiamo "i vuciddati" di Pasqua; i dolci preparati nelle feste natalizie "i cannariculi" e "i chinuli" (con ripieno di castagne, cioccolato, liquore e ricoperti di miele); "i visquotti" (biscotti caserecci fatti a forma di taralli cotti nel forno a legna), "i grispeddi" (preparati con farina, sale, patate e lievito), "i priccochi siccati" (pesche tagliate a listarelle e fatte essiccare al sole, poi legate a mazzetti ed infornate). Fichi secchi nelle varie specialità: "crucetti, spannapisci, cuddurieddi" ; "panacieddi" (uva passa confezionata in involtini di foglie di cedro).
[modifica] Festività e Folklore
Verbicaro conserva ancora oggi e per certi aspetti intatti, usanze, costumi, tradizioni, feste, che ci riportano indietro negli anni. Caratteristica è la processione figurativa e drammatica del Venerdì Santo. Questa tradizione si ripete fin dal 1751 anche se le statue dei misteri vennero acquistate negli anni che seguirono. La processione che ha inizio prima dell'alba, alle ore 3.00, è ispirata alla Via Crucis e alla Passione di Gesù; si tratta di una vera e propria rappresentazione in costume del corteo che accompagnò Gesù fino al luogo della sua crocifissione. Lungo il percorso alcuni fanciulli vestiti da angeli, alternandosi, recitano dei versi, che rievocano la Passione e preannunciano la Resurrezione; alle pendici del colle ha luogo la rappresentazione al vivo dell'incontro di Gesù con la Veronica, che gli asciuga il volto intriso di sudore e di sangue, e , sulla via del calvario l'incontro di Gesù con il Cireneo che , per l'ultimo tratto, lo solleva dal peso della croce. La processione è accompagnata da canti tradizionali e da suggestive marce suonate dalla banda musicale.
Resiste al tempo la stessa tradizione dei "battenti", che fra religiosità e paganesimo, si autoflagellano ogni anno il giovedì santo, precedendo la processione della Passione di Cristo. Sono uomini vestiti di rosso, portano in testa un fazzoletto dello stesso colore e con "u cardiddu", un pezzo di sughero in cui sono conficcate delle schegge di vetro, si percuotono le gambe fino a farle sanguinare. Compiono per tre volte lo stesso giro che percorre la processione, fermandosi davanti alle chiese che incontrano; infine, vanno a lavarsi nella fontana vecchia del paese. Probabilmente tale tradizione muove le sue origini dalle antiche confraternite del medioevo, ma i "battenti" di oggi si flagellano per devozione alla Madonna Addolorata e per la morte di Cristo. Varietà e ricchezza di ornamenti caratterizzano i costumi che si usavano indossare. A Verbicaro, il vestito delle donne, il "cammisuotto" interamente filato e tessuto a mano, era di colore rosso porpora, con gonna di panno plessata ad organetto, corpetto di velluto con le maniche attaccate da nastrini che dalla scollatura abbondante lasciava intravedere la camicia di lino finemente ricamata. Della vecchia tradizione oggi sopravvive, nell'uso comune, "u mallieddu", copricapo di seta, di colore blu a forma di una lunga e larga sciarpa con frangia, che, ripiegato sulla testa in una forma caratteristica, cade sulle spalle fino ai fianchi; una gonna di colore blu o marrone con una camicia bianca ricamata e corpetto di velluto. Il costume maschile, non più in uso da molto tempo, era costituito da un giaccone di velluto o di panno nero e da calzoni corti pure di panno nero, completato da calzettoni di lana e caratterizzato dal cappello di pelle a punta conica, ornato da un nastro. I costumi venivano confezionati da sarti locali e le stoffe di lana o di seta erano generalmente manufatti artigianali pure locali.
La festa patronale della Madonna delle Grazie si svolge il 2 luglio con la processione per le vie del paese, le luminarie e i fuochi d'artificio.
La sera della vigilia lungo lo stesso percorso della processione ha luogo la suggestiva fiaccolata dei "zigni", ceppi di legno resinoso portati da devoti VERBICARO NELLA MERAVIGLIOSA NATURA DEL PARCO DEL POLLINO
Verbicaro è uno dei 56 paesi del Parco (comune parzialmente nel Parco con centro abitato interno al Parco); fresco e accogliente d'estate, quando accoglie sui suoi pianori e nei suoi boschi visitatori fuggiti per qualche ora dalle spiagge, merita una visita in ogni momento dell'anno: l'autunno, quando i boschi si tingono di rosso e d'oro, l'inverno che rende le vette remote e severe, la primavera in cui l'acqua è la protagonista assoluta.
Il Parco Nazionale del Pollino, 196 mila ettari di patrimonio naturale e culturale sottoposto "ad uno speciale regime di tutela e di gestione", è uno dei nuovi parchi istituito con D.P.R. 15.11.93 in attuazione della legge quadro n. 394/91 sulle aree protette; si estende per circa 200.000 ettari. Ne fanno parte 56 comuni, 32 dei quali appartenenti alla Regione Calabria e 24 alla Basilicata. Costituisce quadri di vita unici nella loro bellezza e autenticità, nel valore della loro storia, delle loro memorie, delle loro tradizioni, della loro cultura autoctona. È un componimento di beni, che si possono godere come servizi resi dalla natura conservata, tutelata e valorizzata; che si possono fruire con rispetto, educazione e sensibilità e con profonda conoscenza della loro qualità. A chi lo raggiunge con un viaggio a volte un po' faticoso, offre selvaggi paesaggi rocciosi, forre e canyon di straordinaria suggestione, ovattate faggete e pini loricati abbarbicati ai pendii più impervi, il volo elegante dell'aquila e le tracce del lupo.
Il simbolo del Parco Nazionale del Pollino è un albero: un grande, secolare e contorto Pino loricato (Pinus leucodermis), pianta di straordinario interesse e fascino. Il suo nome scientifico, "Pinus leucodermis" significa letteralmente "pelle bianca" per il caratteristico colore bianco argenteo che assume il tronco degli alberi ormai morti. La corteccia degli alberi più vecchi che è spessa, scura e fessurata costituita da grandi placche romboidali, quadrangolari o pentagonali ricorda la lorica, l'antica corazza a scaglie dei legionari romani; da questa è tratto il nome volgare della pianta "Pino loricato". Cio' che più colpisce in questo straordinario vegetale è il tronco: tozzo, massiccio, contorto; mostra orgoglioso i segni delle continue furiose battaglie con i venti feroci delle cime, con le nevi e le folgori. Il portamento delle piante isolate è plasmato dalle intemperie, si presenta spesso "a bandiera" con la chioma tutta da un lato nella direzione prevalente del vento, col risultato che i pini sembrano emergere, forti e possenti, ma contorti e tormentati, dalle rupi impervie su cui sono abbarbicati. È estremamente longevo: molti esemplari superano i 900 anni. Da secoli sostiene una lotta titanica contro il "Faggio", albero forte e invadente che lentamente ha spinto il pino sempre più in alto. Gli alberi ormai privi di vita, senza corteccia, con tronchi chiari quasi bianchi non sono solo resti inanimati e suggestivi di alberi in qualche caso millenari, ma rimangono vere e proprie sculture, testimoni muti della storia naturale del Parco.
[modifica] Evoluzione demografica
Abitanti censiti