Cerisano
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Cerisano | |||||||||
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Stato: | Italia | ||||||||
Regione: | Calabria | ||||||||
Provincia: | Cosenza | ||||||||
Coordinate: | |||||||||
Altitudine: | 650 m s.l.m. | ||||||||
Superficie: | 15,19 km² | ||||||||
Abitanti: |
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Densità: | 216 ab./km² | ||||||||
Frazioni: | Codicina, Cozzo del Monte, Manche, Pianetto, Valli | ||||||||
Comuni contigui: | Castrolibero, Falconara Albanese, Fiumefreddo Bruzio, Marano Principato, Mendicino | ||||||||
CAP: | 87044 | ||||||||
Pref. tel: | 0984 | ||||||||
Codice ISTAT: | 078037 | ||||||||
Codice catasto: | C515 | ||||||||
Nome abitanti: | cerisanesi | ||||||||
Santo patrono: | San Lorenzo | ||||||||
Giorno festivo: | 10 agosto | ||||||||
Sito istituzionale | |||||||||
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Cerisano è un comune di 3.275 abitanti della provincia di Cosenza.
Indice |
[modifica] Personaggi illustri
Simone Perrotta (Calciatore)
[modifica] Il Paese
Cerisano, come ogni paese, conserva la sua storia fatta da avvenimenti ed eventi che lo portano ad essere oltre un comune di valore storico e culturale, anche un paese ricco di un meraviglioso patrimonio ambientale. Posto ai piedi del monte cocuzzo domina la conca cosentina e dal 1984 Cerisano è stato dichiarato comune di interesse turistico e di grande prestigio. Interessante è il centro storico del paese e ancor più sono le escursioni in montangna con una distesa serie di altipiani con grandi boschi di faggio e castagno. A fine agosto e nei primi giorni di settembre vi si svolge il Festival delle Serre (arrivato alla XV edizione) con varie sezioni dedicate al cinema, jazz, teatro, musica classica, arti visive ed incontri culturali. Il Centro storico di Cerisano si sviluppa ai piedi del PALAZZO SERSALE e della piazza antistante, che domina in posizione acropolica tutto il borgo, formato da rilassanti strade facilmente percorribili.
[modifica] Storia e Tradizioni
CERISANO è l'antica Citerium di Ecateo di Mileto.
Le sue origini si perdono nella notte dei tempi. Certamente, assieme agli altri centri del "destro", ha origini preelleniche.
Il Barrio narra che non lontano da Pandosia, «sorge il luogo fortificato di Citerio che, mutate le lettere, il volgo chiama Cirisano, fondata dagli Enotri. Citerio, dice Ecateo in Stefano, è città degli Enotri lontana dal mare: gli abitanti sono detti citerini. È sita in luogo alto, alle pendici dell'Appennino; vi impende l'alto Monte Cacuzio, detto così dall'alta cima, pieno di erbe rinomate e salutari. Su questo monte nasce bolo non ignobile e ingente quantità di fragole»(1).
Lo stesso autore riporta: «...Enotrio, che si spingeva nel mare Ausonio ed occupava la parte occidentale della regione, vi fondò numerosissime città. Di alcune di queste è memoria in Stefano, dal quale sono trascritte: Arintha...Citerium...ecc.»(2).
Vincenzo Padula, nella sua "Protogea" riportava: che dicesi al presente Cerasano. E dove erano infatti gli Acherontini di Plinio ? - intus in peninsula, dentro terra, e sopra Cosenza. Or Cerasano è distante da questa città nove soli chilometri; e se gli acherontini avevano un ha-charon, cioè un'acqua termale simile a quella che sul Tirreno trovammo nel comune di Guardia, Cerasano al presente ci mostra acque sulfuree nella contrada Santo Ianni. Le quali acque cadendo, come fanno, nel fiume Campagnano gli comunicarono in antico il loro nome; sicché l'Acheronte di Plinio non è altro che Campagnano, il cui significato, come a luogo proprio vedremo, da quello di Acheronte non è punto diverso»(3).
Lo studio del Padula rivolto ad individuare l'esatta ubicazione di Pandosia, forniva, invece, un utile strumento di indagine per scoprire che fine aveva fatto la enotra Citerium. Il Ricciardi ma con lui tanti altri, obiettavano che egli aveva sì stabilito dove erano gli acheruntini di Plinio ma non già l'antica Pandosia co' suoi pandosini o pandosiani. L'Acheronte scorreva accanto ad una città denominata Acherofanus dalla quale era derivata Cerisano. Ma vediamo come l'autore, commentando il Padula, fornisce tale ipotesi: «Intanto qui, senza entrare nella minuta disamina del detto articolo, dico soltanto, che lo scrittore ha sciolto bene il quesito, secondo però la sua proposta, con l'andar ricercando un fiume Acheronte e un popolo acherontino, che Plinio senza dubbio pone su quella penisola Brezia, ma non già Pandosia co' suoi Pandosini, ed un Acheronte che scorrevale al fianco: cosiché può stare che da Acherusanus sia forse veramente derivato Cerisano; ma deve ricordarsi però che gli Acherontini sono ben diversi dai Pandosini o Pandosiani... insomma anche se fosse evidentissimo che Cerasano è tale e quale il popolo Acherusano, o Acherontino, non potrà mai dirsi essere stato questo il Pandosino, o Pandosiano; né le acque termali, che cadono da Cerasano nel Campagnano faranno mai di questo fiume l'Acheronte, che scorreva presso Pandosia»(4).
Appare nei registri della tassazione angioina del 1276 come un centro già ampio assieme alla sua frazione Schiucchi (Scutium) ove sicuramente attorno all'omonima chiesetta, che si vuole bizantina, era un consistente agglomerato di case. Nel XIV secolo, dopo una parentesi di tempo durante la quale fu "università demaniale", venne infeudata assieme a Castelfranco a vari signori, dai Sersale ai De Martino, ai Sanseverino, agli Alarçon Mendoza, ai Telesio e, in ultimo, nuovamente ai Sersale che la tennero fino all'eversione della feudalità. In cima al paese sorge il palazzo Sersale che conserva ancora il primitivo giardino e chiostro, costruito alla fine del '500 dalla famiglia De Gaeta; passò poi ai Telesio e, quindi, ai Sersale.
Molto affascinante doveva essere il passaggio segreto che principiava a partire dalla seconda stanza sulla sinistra, dopo l'ingresso, e il sottostante carcere femminile; entrambi i locali erano completamente interrati. L'edificio, sebbene deturpato da una insensata sopraelevazione, mantiene ancora molte delle antiche linee; in ogni caso il chiostro ed il giardino superiore sono ancora intatti, così come è ancora visibile il passaggio segreto.
La chiesa di San Domenico inizialmente dedicata alla Madonna del Soccorso, risulta essere costruita nel 1484 ma ufficialmente, i padri Predicatori, meglio noti come Domenicani, vi si insediarono nel 1561. I Sersale, signori feudatari del paese, vi erano molto legati e ancor oggi si nota una traccia tangibile della loro devozione. La struttura, come si vede al presente, è frutto di manomissioni e ristrutturazioni avvenute nel corso dei secoli, soprattutto a causa dei terremoti del 1638 e del 1854. Ma ancora fino al secolo scorso, quella che comunemente è nota come cappella gentilizia e la chiesa stessa non erano collegate così come si vedono adesso. La cappella sinistra era adibita a cimitero e la stessa destinazione avevano i locali retrostanti dove è visibile una botola che introduce nei sotterranei ancor oggi pieni di scheletri. La facciata poi, venne completamente stravolta tra gli anni '30 e '40 del XX secolo.
Aveva il campanile facente parte del prospetto principale il quale certamente, mostrava gli stessi elementi costruttivi originari. Il portale minore di sinistra, ad arco acuto goticheggiante, era sormontato da una monofora anch'essa ad arco acuto, mentre il portale maggiore e quello minore di destra, erano costituiti da archi a tutto sesto rappresentando la parte estrema di un porticato dal quale poi si accedeva alla chiesa vera e propria. Oggi si presenta con un rosone con vetri policromi su cui è istoriata la Madonna del Rosario, e due statue modellate recentemente da Salvatore Santelli che raffigurano San Domenico e Santa Caterina.
Internamente la chiesa è a tre navate. Entrando, a sinistra, si accede alla cappella gentilizia, meglio nota come la "congregazione". È probabile che essa rappresenti il primitivo nucleo intorno al quale si sviluppò, nel corso degli anni, il resto dell'edificio e del convento. È circondata da sedili di legno, probabile rifacimento di un più antico impianto secentesco che una volta coronava un pregevole trittico in legno intagliato andato purtroppo distrutto in seguito ad un incendio nel 1922. Ai lati sono poste 15 tele raffiguranti i Misteri cinque delle quali (Gesù nell'orto, Gesù alla colonna, Flagellazione, Gesù che porta la Croce e Crocifissione) appartengono sicuramente alla scuola napoletana di fine Seicento.
Sembra che nel 1714 la cappella fosse adornata dal pittore Pisanos che si occupò anche di dipingere le due pale poste ai lati dell'altare: la Maddalena e la Madonna con Santa Rosa. Più sicuro è l'intervento del De Dominicis che vi apportò un'impronta stile impero, e che erroneamente viene indicato come l'autore di tre dipinti del soffitto (Il duca Sersale con i confratelli del Rosario ai piedi della Madonna in atto devoto, Papa Pio V che benedice don Giovanni d'Austria in partenza per la battaglia di Lepanto, La Madonna del Rosario che appare a San Domenico e a Santa Caterina). Un'opera eccezionale e rara nel suo genere, è senz'altro un pannello in stucco realizzato nel '700 con tecnica a fuoco con motivi floreali ad intarsio che coronano un'immagine della Madonna del Rosario frutto di un mosaico in pietra, che riprende l'esatta iconografia così come venne indicata dalle autorità ecclesiastiche del tempo. Sull'altare soprastante, statua in cartapesta del santo titolare.
Lasciando la cappella e rientrando in chiesa, si notano, ai lati del portone centrale, a sinistra, una tela raffigurante il Battesimo di Cristo, e sulla destra una di E. Salfi raffigurante la Madonna del Rosario tra San Domenico e Santa Caterina. Nella cappella di sinistra è notevole una tela di artista anonimo raffigurante il Transito di Santa Rosa richiamante la produzione migliore di Rocco Ferrari che è autore delle opere successive: Santa Filomena, San Francesco di Paola e la Madonna del Soccorso.
In fondo alla navata vi è un crocifisso ligneo di anonimo statuario calabrese di fine Seicento. Cristoforo Santanna al quale erroneamente sono state attribuite tutte le tele dei misteri site nella cappella gentilizia, è, invece, degnamente rappresentato da un dipinto dedicato a San Tommaso d'Aquino siglato CSP e posto nella navata di destra. Secondo G. Leone non di Cristoforo si tratta, bensì del figlio Giuseppe. Ai lati del dipinto, due tele di buona fattura: un San Domenico, e un San Vincenzo Ferreri, entrambe di Rocco Ferrari da Montalto. In fondo alla navata, un'opera di ignoto dell'800, che ritrae la Madonna del Rosario tra San Domenico e Santa Rosa.
Sul soffitto, oltre ad una Annunciazione eseguita dal pittore Settimio Tancredi di Pietrafitta, fanno spicco alcune opere di Rocco Ferrari del 1893: Pio V che prega la Madonna del Rosario per il buon esito della battaglia di Lepanto; Leone XIII tra angeli annuncianti e sullo sfondo la Madonna del Rosario con San Domenico e Santa Caterina; la Battaglia di Savigny; la Predica di San Domenico contro l'eresia degli Albigesi; la Consegna del Rosario da parte della Madonna a San Domenico. Alle pareti dell'abside fanno spicco due affreschi dello stesso Rocco Ferrari del 1895: la Fuga in Egitto e il Transito di San Luigi.
Nel locale retrostante l'altare maggiore, è murata la lapide funeraria di Porzia Sanseverino di Calvera, moglie del duca di Cerisano Gerolamo Sersale, che inizialmente era incisa a lettere d'oro. In sagrestia, ove è custodita una crocifissione di Salvatore Santelli del 1979, si possono ammirare degli eleganti armadi di legno frutto di maestranze locali di fine '800 - inizi '900. Interessanti le statue processionali: Santa Rita, Sacro Cuore (del Guacci), Gesù Risorto, San Francesco di Paola, tutte del sec. XIX.
La parrocchiale dedicata a San Lorenzo Martire, ha origini medievali, quasi sicuramente risale all'anno 1000 e fu costruita probabilmente su un edificio più antico. L'esterno risente dei già noti eventi tellurici che flagellarono queste terre, per cui è possibile scorgervi le linee degli interventi settecenteschi ed ottocenteschi. La facciata è dominata da una statua di San Lorenzo Martire e da altre due più piccole raffiguranti i SS. Pietro e Paolo. Gli ultimi lavori furono eseguiti in seguito al terremoto del 1905 che, tra l'altro, fece crollare la cuspide del campanile rimasto incompleto fino agli anni venti.
L'interno è a tre navate. I pilastri hanno subìto numerosi rifacimenti e, ancor oggi, nei pressi delle nicchie, è possibile scorgere la primitiva fattura ingrossata in seguito ai terremoti del 1783 e del 1854. Nel secondo pilastro di sinistra, ove è custodita la statua di San Lorenzo martire, durante un lavoro di stonacatura, agli inizi del secolo, è venuto fuori un affresco raffigurante San Rocco situato sulla parete dell'antica pilastratura. La chiesa è dominata dall'altare maggiore datato 1894, costruito da artisti locali in marmo e stucco, composto da 4 colonne sormontate da capitelli corinzi che reggono il frontone spezzato; tra gli esecutori fa spicco il noto Giovanni Ruffolo da Cerisano. Le colonne esterne poggiano su una base decorata con motivi fitomorfi molto stilizzati e con una cornicetta intrecciata. Nel paliotto sono scolpite scene della passione e della resurrezione di Cristo.
Alle pareti dell'abside sono raffigurati i quattro evangelisti in altrettante opere di Luigi Calcagno, composte nell'ultimo ventennio del XIX secolo. Nella volta, quattro affreschi di fine '800 attribuiti al Santoro del quale, a dire il vero, non si conosce una predilezione per la tecnica dell'affresco: l'Eterno Padre, il Sacrificio di Isacco, la Scelta di Ester, il Giudizio di Salomone. Nella navata sinistra primeggia un olio su raffigurante l'Assunta, opera di ignoto meridionale della fine del '600. Vi appare la Vergine avvolta in un ampio panneggio con le mani incrociate sul petto. Nella navata di destra, sopra la porta della sacrestia, una Deposizione dipinta da Raffaele Rinaldi da San Fili conservata per lungo tempo nel seminario cosentino di Piazza Parrasio e portata, poi, presso il palazzo Sersale di Cerisano, sede estiva del seminario; per tale motivo, molti sacerdoti ricordano quest'opera per averla vista ogni giorno nel corso dei loro studi giovanili. L'unico dipinto firmato da Giambattista Santoro e datato 1882, è un olio su tela raffigurante la Visita di Sant'Elisabetta, posto a sinistra dell'ingresso sotto la cantoria.
Vi è inoltre custodita una pregevole tela del Veltri, pittore napoletano che lavorò anche nella cattedrale di Cosenza, raffigurante il Beato Ugolino da Cerisano, uno dei sette martiri francescani uccisi a Ceuta e canonizzati da Leone X; si tratta di un olio su tela eseguito nel 1927. Vi si conservano ancora due opere di artisti contemporanei locali: la Deposizione composta nel 1981 da Marcello La Neve, e la Crocifissione di Salvatore Santelli del 1982. La Chiesa del Carmine venne costruita nei primi del Seicento nel posto ove sorgeva un oratorio corrispondente all'attuale sagrestia fatto costruire da una devota di casa Sersale (Anna Teresa ?), da maestranze locali che provvidero anche ad abbellire la facciata col tufo locale. Le due cupole di vetro particolarmente suggestive sono state costruite nell'800. Notevoli sono i lavori di decorazione sul tufo che incorniciano il portale d'ingresso e la nicchia soprastante. Il portone (eseguito dai fratelli Totera) e il tondo raffigurante la Madonna col Bambino sono opere di Salvatore Fiume del 1994. Con ogni probabilità, la chiesa nacque in contrapposizione a quella del Rosario. La storia locale è piena di manifestazioni di ostilità dell'una e dell'altra parte.
Ha una sola navata con eleganti decorazioni e con un cappellone a destra dedicato a Santa Teresa costruito nel 1951. Appena varcata la soglia d'ingresso, ci si trova di fronte ad una serie di porte decorate e lavorate sapientemente. Quella centrale, senza dubbio la più pregiata, è opera del cerisanese Francesco Paura alias Ciccillo di Mastru Carrinu. Si dice che, alla vigilia della Grande Guerra, durante un suo breve soggiorno romano, avesse disegnato a penna il palazzo del Quirinale con Vittorio Emanuele III sul balcone centrale. Data la mirabile esecuzione del bozzetto, fu presentato al re il quale, per premiarlo, gli propose di non partire per la guerra e di prestare servizio presso il palazzo reale. Pare che il giovane artista preferisse raggiungere i suoi compaesani al fronte là dove, nel primo giorno di battaglia fu ucciso dalla prima granata lanciata dagli Austriaci.
L'opera è in legno intarsiato, al centro dei riquadri sono state riprodotte le immagini di Santa Teresa, dell'Addolorata, di San Francesco d'Assisi e di San Francesco di Paola. A sinistra, in uno stretto locale, si trova un gruppo di 3 statue eseguite nella bottega leccese del Guacci. Si tratta del Cristo in Croce, dell'Addolorata e del Cristo nella bara, commissionate nel 1920 da Francesco Naccarato. All'inizio delle navate sono posti quattro scanni in ghisa - due per parte - provenienti, secondo la tradizione, dalla chiesa di Santa Chiara di Cosenza.
Per quanto riguarda le opere pittoriche, a partire dalla navata destra, posti sopra appositi altari, troviamo: il Rapimento di Elia, con Elia ed Eliseo. Elia è rapito dal carro di fuoco. È un olio su lamina. Segue un'opera raffigurante il Profeta Elia mentre spiega ad un confratello il significato di una nuvoletta sul monte Carmelo che sta a simboleggiare l'apparizione della Madonna.
Più avanti, la consegna dello scapolare da parte della Madonna a San Simone Stock il santo inglese dell'ordine carmelitano. Anche in questo caso si ha un dipinto ad olio su lamina. Segue un olio su tela eseguito da Giambattista Santoro nel 1884 che raffigura San Biagio e Sant'Antonio Abate. Sull'altare sottostante, fino ai primi decenni del secolo, ogni 17 gennaio si celebrava una messa dedicata al cosiddetto "Sant'Antonio du fuocu" voluta prevalentemente dai contadini devoti del santo. Sulla parete sinistra della chiesa, le prime tre opere, come per la corrispondente parete destra, sono degli oli su lamina di rame anch'essi attribuiti a Mazzia e datati al sec. XIX. Il primo dipinto che raffigura la Visita della Madonna a Santa Elisabetta è il solo che reca tale firma con la data 1859; sul secondo è effigiata la Madonna col Bambino, sul terzo, la Sacra Famiglia.
La quarta opera sulla parete sinistra è un olio su tela dedicato a Santa Lucia, ne segue un altro raffigurante l'Annunciazione, opera di Giambattista Santoro del 1884. Più avanti, l'una di fronte all'altra, due opere di Enrico Salfi: quella posta sulla parete destra, commissionata da Pietro Greco nel 1884, raffigura San Pietro; nella corrispondente parete destra, è collocato, invece il dipinto che ritrae San Paolo voluto nello stesso anno dal più volte priore Paolo Greco. La cornice di sinistra è una mirabile opera in marmo, quella di destra, è frutto dell'abilità del bravissimo stuccatore cerisanese Giovanni Ruffolo (Juvieddru). Sulle pareti dell'abside sono poste le tele del profeta Elia e di Sant'Eliseo. Una di queste, nasconde una nicchia che ospita un gruppo scultoreo in legno dell'Annunciazione, opera ottocentesca di artista meridionale. L'altare completamente rifatto al posto di quello che proveniva da Santa Chiara (che al giorno d'oggi è posto nel cappellone di Santa Teresa) presenta lo stemma dell'ordine carmelitano, sulla nicchia in alto, è posta la statua acrolito della Madonna del Carmine (sec. XIX).
Dalla stessa chiesa proveniva un pulpito in legno dipinto in verde ed oro comprato insieme con le altre opere citate nel 1890, distrutto nei primi anni cinquanta per costruire la cappella di Santa Teresa recentemente affrescata da Saverio Presta con scene della vita della santa. In una nicchia posta nell'abside è collocata una statua di Santa Lucia, opera spagnola del '600. In sagrestia è custodito un olio su tela raffigurante San Pietro, eseguito da Giambattista Santoro nel 1884, accanto una Madonna del Carmine con San Simone, e, sulla destra, un dipinto di Santa Teresa opera di Josef Fusaro del 1939. Lo stesso artista è autore di un dipinto del 1936 avente per tema la Discesa dello Spirito Santo, e di una Maddalena dipinta nel 1939. Sulla cantoria oltre ad un affresco di Saverio Presta, è conservato un olio su tela che presenta la Madonna del Carmine con quattro confratelli particolarmente devoti: Magliarano (che appariva anche in una preghiera popolare), Percetti, Paolo Greco e altro personaggio ignoto. La statua di Santa Teresa, posta in fondo alla cappella omonima, è la riproduzione di un'opera del Canova che si trova a Roma in San Pietro. La chiesa di Santa Maria degli Angeli (Oasi Sant'Antonio) e l'annesso convento di frati Riformati di San Francesco d'Assisi vennero fondati nel 1609 e finanziati da Annibale Sersale, feudatario del comprensorio. Questi monaci costituivano l'altra realtà del paese, vale a dire l'esempio della povertà francescana in contrapposizione alle floride condizioni economiche e patrimoniali delle altre chiese. Nella metà del Settecento vi dimoravano dodici religiosi esemplari per carità e dottrina. Aveva un cappellone laterale ceduto negli anni '20 dall'amministrazione comunale alla congregazione del Carmine per adibirla a cappella cimiteriale. Il convento fu soppresso con decreti del governo Murat del 7.7.1809 e del 10.1.1811, e ripristinato il 1812.
La definitiva chiusura avvenne dopo l'unità d'Italia. La facciata rifatta nel 1949, presentava un porticato dal quale si accedeva al convento e al chiostro. Sulla parte corrispondente alla chiesa vera e propria sono poste tre statue (attualmente ve ne sono due a causa di un fulmine che ha distrutto la prima): a destra San Pasquale di Baylon, al centro San Francesco d'Assisi e a sinistra Sant'Ugolino da Cerisano. Sia le statue che gran parte degli arredi furono dovuti alla grande solerzia di Giovanni Ruffolo e Domenico Santelli (Scarola).
All'interno sono poste alcune opere che a tutt'oggi (dicembre 1995) sono restaurate e giacciono presso i locali della Soprintendenza. Si tratta di: un olio su tela del sec. XVIII che ritrae l'Immacolata, un olio su tela del XVIII sec. raffigurante S. Gaetano da Padova fra Santa Lucia e San Francesco di Paola attribuito a Cristoforo Santanna; dello stesso artista un San Giuseppe col bambino con San Francesco d'Assisi e San Biagio, e un dipinto di forma tonda sempre del XVIII secolo e con la stessa tecnica ad olio su tela che ritrae Sant'Antonio da Padova. Degno ancora di nota è l'altare in stucchi policromi dal disegno simile al mosaico in pietra della cappella della congregazione di San Domenico. Belli anche una statua in legno raffigurante l'Immacolata (sec. XVIII), e un crocifisso ligneo del '600.
Notevole il Palazzo Zupi e l'omonima Villa ove vegetano piante secolari. La chiesetta degli Schiucchi, secondo la tradizione, ha origini bizantine, così come bizantina era la tavola della Madonna di Costantinopoli che vi era custodita e che andò perduta. Al suo posto tra il '500 e il '600 venne fatta dipingere una tela con lo stesso soggetto. Misteriosa e piena di incognite è la storia del Monte Castellaccio che si erge a pochi chilometri da Cerisano in direzione Caritello e Monte Cocuzzo. Una volta recatisi sulle sommità, si resta incantati dalla vastità della veduta di cui si può godere. Nella zona più alta, pochi resti di mura di cinta e le torri angolari del castello, testimoniano la presenza di qualcosa di molto importante. La località, posta ad una altitudine media di 1000 metri, era nota nel '700 come Santa Maria delle Castelle e nell'800 come Timpa del Forte. Da un'analisi sommaria sui materiali di costruzione, è emerso che si tratta di un impianto sorto verso il 1050 ma, considerata la superficie sulla quale si sviluppava l'insediamento, viene da pensare a qualcosa di più antico, riutilizzato in epoca bizantina e, successivamente, dai Normanni.
In ogni caso un'adeguata campagna di scavi consentirebbe non solo di riportare alla luce degli elementi che svelino la storia del castello - perché non è stato possibile averne notizia da alcun documento scritto - quanto di arrestare il degrado dei pochi ruderi rimasti e destinati a deteriorarsi con rapidità, per evitare che rimanga solo la leggenda della gallina dalle uova d'oro, o quella di re Corvolante e della sfortunata figlia Angelina il cui tesoro si trova solo se si cerca la notte di Natale. Di questi abitanti spesso si dice che sono dei ladri e si dilettano a «fare na cerisanise». In questo paese, come altrove, da tantissimo tempo, nelle cantine per i ceti meno abbienti, nei bar per quelli più elevati socialmente, si gioca la "passatella" ovvero il patrune e sutta. Si tratta di un gioco fatto con le carte napoletane tramite il quale i due vincitori (patrune e sutta patrune) decidono chi, tra i partecipanti, ha diritto a bere (prevalentemente vino) e chi, invece, resta all'umbra, cioè all'asciutto. L'abilità, nel corso del patteggiamento e della disputa, consiste nell'imbrogliare l'altro (il "patrune" cercherà di favorire con arte e raggiri, proprio il "nemico" del "suttapatrune" e viceversa) . Alcuni giocatori sono così abili da far rimanere qualcuno senza bere e senza che lo stesso abbia capito di chi sia veramente la colpa. Insomma il gioco si ingarbuglia in modo tale che non sono infrequenti i casi di litigi e risse. Fare na cerisanise significa che, se nell'allegra combriccola c'è un forestiero che vi partecipa per la prima volta, resterà sicuramente senza bere, e assisterà attonito ad una discussione che lo vedrà protagonista per lungo tempo, però infruttuosamente. Nelle riunioni successive, sarà considerato uno del gruppo con parità di diritti rispetto agli altri.
Famosa la rivalità con la vicina Mendicino i cui abitanti spesso invocavano: «Madonna du Rusariu 'e Mennicinu, manna na pestilenza a Cerisano, mannala forte cumu na quartana, ca 'un ci restassi na persuna sana» (Madonna del Rosario di Mendicino, manda una pestilenza a Cerisano, mandala forte come una febbre quartana, in modo che non rimanga una sola persona sana). Non si digeriva neanche il fatto che, in dialetto gli abitanti dei due centri venissero chiamati, Cerisanisi e Mennicinari. Questi ultimi, ritenendo quasi dispregiativa la loro denominazione, cercarono in tutti i modi di mutare anche quella dei convicini in Cerisanari. Ma anche se con toni molto meno aspri, pure con l'altro paese confinante, Marano Principato, ci si beffeggiava al punto che nacque l'altro epiteto: «Vucchi larghi 'e Cerisanu e latracchiuni de Maranu» (Bocche larghe di Cerisano e ladruncoli di Marano). Ma l'elemento maggiormente caratterizzante di questa comunità è l'accesa, costante e singolare contrapposizione delle due confraternite: Carmine e Rosario. Ecco il perché dell'altro appellativo: «'U paìse de due Madonne» (Il paese delle due Madonne). Il dualismo ha radici lontane e se ne ha notizia a partire dalla fine del '500; nel corso della storia di questo paese, le manifestazioni di ostilità non hanno mai avuto sosta e, a volte, hanno raggiunto livelli paradossali. Tuttavia è quantomeno superficiale non capire che tutto ciò ormai costituisce l'essenza stessa della vita culturale paesana, e che proprio questa rivalità spesso spinge a migliorarsi e ad elevarsi. Ma, per tornare agli aspetti più pittoreschi della contrapposizione di questi sodalizi, si pensi che, si è contenti se durante lo svolgimento della festa avversaria che vedrà manifestazioni religiose e spettacolari, il cattivo tempo e la pioggia ne impediranno la buona riuscita; per favorire questi eventi, non vengono risparmiati rituali para-magici quali quello di immergere la crozza (un teschio umano) in un bacile colmo di acqua e aceto.
In tutta la Calabria, si crede che la notte dell'Epifania gli animali parlino, a Cerisano, si pensa anche che essi vadano trattati in maniera speciale, e che deve essere offerta loro ogni pietanza che adorna la mensa del padrone che, com'è noto, deve comprendere "tredici cose". Qualora ci si dimenticasse di comportarsi in questo modo, gli animali lamenterebbero: «'U patrune miu è muortu» causando la reale scomparsa del malaccorto capofamiglia. Alla fine del secolo scorso Giovanni De Giacomo descriveva un rituale davvero singolare al quale egli giurava di avere assistito senza essere visto nei pressi di Monte Cocuzzo. La "farchinoria", questo è il nome, consisteva in una sorta di orgia tra pastori ubriachi ed animali, il tutto accompagnato da danze sfrenate e con la complicità delle donne.
Il fantasma presente da queste parti si chiamava a donna e fore. Lo si incontrava lungo sentieri stretti e lunghi e, come dicono gli anziani del luogo, quando si era "sinceri" cioè soprappensiero. All'inizio appariva una giovanetta sorridente dal colorito bianco e rosso e con un abito tradizionale (denominato ara luzzitana). Man mano che ci si avvicinava a questa figura, però, si notava che essa si ingrandiva fino a diventare una gigante che cercava di prenderti e di rapirti.
[modifica] Evoluzione demografica
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