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Maxiprocesso di Palermo - Wikipedia

Maxiprocesso di Palermo

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Il Maxiprocesso è il nome sotto il quale viene ricordato un processo penale iniziato il 10 febbraio 1986 e terminato il 16 dicembre 1987 e tenuto a Palermo nell'aula bunker. Fu chiamato appunto maxi processo in quanto furono indagate più di 400 persone, per crimini legati alla criminalità organizzata. Esso fu considerata la prima reazione importante dello Stato a Cosa Nostra, Non mancò una forte e marcata ostilità di molti componenti della magistratura palermitana, che spesso manifestarono dubbi e critiche al maxiprocesso e ai suoi promotori.

Questo processo diede inizio ad un'ondata di contromosse da parte di altri personaggi importanti dell'organizzazione criminale che avrebbe portato alla fine di molti traffici di droga in atto, ma, soprattutto, avrebbe danneggiato in maniera significativa le alleanze tra le famiglie siciliane ed americane.

Indice

[modifica] Introduzione

L'esistenza ed i crimini della Mafia sono stati negati o, comunque, sottovalutati dalle autorità per decenni, nonostante vi fossero prove della sua attività criminale risalenti all'Ottocento. Ciò può essere attribuito, in parte, a tre metodi particolari usati dalla Mafia per fornire ai suoi componenti una condizione molto simile alla completa immunità:

  • chiusura dei conti in sospeso con individui importanti
  • uccisione di ogni possibile componente passibile di defezione
  • minaccia, o addirittura uccisione di detti individui prominenti (giudici, avvocati, testimoni, politici ecc.)

Questi tre fattori concorsero a stroncare sul nascere molti processi. In effetti, fu solo nel 1980 che venne suggerito in maniera seria che l'essere membro della Mafia avrebbe dovuto essere un reato specifico dal politico comunista Pio La Torre. La legge entrò in vigore due anni dopo - dopo che La Torre era stato ucciso proprio per aver avanzato quella proposta.

Durante i primi anni ottanta, la Seconda guerra di mafia aveva imperversato a tal punto che il boss dei Corleonesi Salvatore Riina decimò le altre famiglie mafiose, e centinaia di omicidi vennero commessi, inclusi quelli di diverse autorità di alto profilo come Carlo Alberto Dalla Chiesa, capo dell'antiterrorismo che aveva arrestato i fondatori delle Brigate Rosse nel 1978. Il suo omicidio è stato collegato all'assassinio di Aldo Moro e alla cosiddetta strategia della tensione perseguita dall'organizzazione segreta Gladio. Il crescente sdegno dell'opinione pubblica per questi omicidi diede la spinta necessaria a magistrati quali Giovanni Falcone e Paolo Borsellino a provare a colpire efficacemente un'organizzazione criminale più radicata nell'isola.

[modifica] Luoghi e imputati

Un totale di 474 imputati vennero rinviati a giudizio, ma 119 di loro dovettero essere processati in contumacia, dal momento che erano fuggitivi ancora latitanti (Salvatore Riina era uno di loro).

Tra gli imputati presenti vi era Luciano Liggio, il predecessore di Riina, che decise di assumere autonomamente la propria difesa, Giuseppe "Pippo" Calò e Michele Greco (quest'ultimo era lo zio del noto killer Pino Greco).

Atti del Maxiprocesso su Michele Greco
Atti del Maxiprocesso su Michele Greco

Il maxiprocesso ebbe luogo nelle vicinanze dell'Ucciardone (il carcere di Palermo), in un bunker progettato e costruito appositamente per il processo. L'edificio era ottagonale in cemento armato in grado di resistere ad attacchi da parte di armi terra-aria; all'interno vi erano delle celle ricavate all'interno dei muri verdi, ed in esse venivano ospitati i molti imputati, suddivisi in gruppi. Più di seicento giornalisti furono presenti, insieme a molti carabinieri armati con mitragliatori e una sistema di difesa contraereo che teneva d'occhio gli imputati ed eventuali malintenzionati che volessero minare gli sforzi del collegio giudicante.

[modifica] Il processo

Dopo diversi anni di pianificazione, il processo iniziò il 10 febbraio 1986. La corte era presieduta da Alfonso Giordano, affiancato da due altri giudici che erano i suoi "sostituti", in modo tale da assicurare la continuità del procedimento nel caso in cui a Giordano fosse accaduto qualcosa di irreparabile prima della fine dello stesso. Le accuse ascritte agli imputati includevano 120 omicidi, traffico di droga, estorsione, e, ovviamente, il nuovo reato di associazione mafiosa.

Il giudice Giordano si guadagnò grande fama per essere rimasto paziente e corretto durante un processo con così tanti imputati. Alcuni di essi si comportarono in maniera distruttiva e abbastanza pericolosa: uno si chiuse la bocca con delle graffette per segnalare il suo rifiuto di parlare, un altro mostrava segni di pazzia, urlava di continuo e ingaggiava lotte con le guardie anche quando indossava la camicia di forza, un altro ancora minacciava di tagliarsi la gola se una sua dichiarazione non fosse stata letta alla corte.

La maggior parte delle prove più significative provenne da Tommaso Buscetta, un mafioso catturato nel 1982 in Brasile, paese in cui si era rifugiato due anni prima, da evaso, dopo essere sfuggito a una condanna per due omicidi. Costui aveva perso diversi parenti durante la guerra di mafia, tra cui due figli, e molti alleati, tra cui Stefano Bontade e Salvatore Inzerillo, ed aveva, perciò, deciso di collaborare con i magistrati siciliani. I Corleonesi continuarono la propria vendetta contro Buscetta uccidendo diversi altri suoi parenti. La testimonianza contro i Corleonesi era l'unico modo che gli era rimasto per vendicare la sua famiglia ed i suoi amici.

Tommaso Buscetta (con gli occhiali) viene portato in aula durante il maxiprocesso.
Tommaso Buscetta (con gli occhiali) viene portato in aula durante il maxiprocesso.

Alcune prove vennero presentate postume da Leonardo Vitale. Sebbene Buscetta sia considerato il primo pentito (e certamente fu il primo ad essere preso sul serio), nel 1973 il trentaduenne Leonardo Vitale si era presentato spontaneamente in una stazione di polizia di Palermo ed aveva confessato di far parte della mafia. Disse di aver commesso molti crimini durante la sua militanza, tra cui due omicidi. Disse anche di essere in una "crisi spirituale" e di provare rimorso. Tuttavia, le sue informazioni furono in larga parte ignorate per i suoi comportamenti inusuali, tra cui l'automutilazione come forma di penitenza personale, lo portarono ad essere considerato un malato di mente, e le sue dettagliate confessioni furono quindi ritenute prive di seri fondamenti. Gli unici mafiosi coinvolti dalla sua testimonianza erano Vitale stesso e suo zio. Vitale venne internato in un manicomio, e fu quindi rilasciato nel Giugno del 1984; sei mesi dopo fu ucciso a colpi di pistola.

Molti assunsero un atteggiamento critico nei riguardi del maxiprocesso. Alcuni ritenettero che gli imputati venivano vittimizzati, come se si trattasse di una vendetta dei magistrati. Lo scrittore siciliano Leonardo Sciascia disse che

« Non c'è niente di meglio per farsi strada nella magistratura che prendere parte ai processi per Mafia »

Il Cardinale Salvatore Pappalardo della Chiesa Cattolica rilasciò una controversa intervista in cui disse che il maxiprocesso era "uno spettacolo oppressivo" e in cui affermava che l'aborto uccideva più persone che non la Mafia.

Altri critici suggerirono che la parola degli informatori - in primis Buscetta - non fosse la maniera ideale per giudicare altri individui, dal momento che anche un informatore che si fosse sinceramente pentito era comunque un criminale, uno spergiuro ed un omicida, e poteva avere ancora un velato interesse a modificare la propria testimonianza per adattarla alle proprie necessità, se non per portare a termine le proprie vendette. Si disse anche che un processo così imponente con così tanti imputati non dava sufficienti garanzie a ciascuno di essi come individui, e si trattava di un tentativo di "fare giustizia in serie", come scrisse un giornalista.

Le informazioni che Buscetta fornì ai giudici Falcone e Borsellino furono molto importanti; prese nel loro complesso esse andavano a formare il cosiddetto "teorema Buscetta", nel senso che ritenere vere le sue affermazioni era fondamentale per l'intero caso. Buscetta fornì una nuova consapevolezza del funzionamento della mafia, e di come i gruppi clandestini di potere della Cupola Siciliana (la Commissione della Mafia Siciliana) si mettessero d'accordo sulle politiche da adottare e sugli affari da intraprendere. Per la prima volta la Mafia veniva perseguita come entità, piuttosto che come insieme di crimini separati.

[modifica] I verdetti

Il processo terminò il 16 dicembre 1987, circa due anni dopo il suo inizio. I verdetti furono letti alle 19:30, e ci volle un'ora perché venissero letti in dettaglio.

Dei 474 imputati - presenti e non - 360 vennero condannati.

2 665 anni di condanne al carcere vennero divisi fra i colpevoli, non includedo gli ergastoli comminati ai diciannove boss di punta della Mafia e ai killer, tra cui Michele Greco, Giuseppe Marchese e - in absentia - Salvatore Riina, Giuseppe Lucchese e Bernardo Provenzano.

La corte era all'oscuro del fatto che alcuni tra quelli che erano stati condannati in absentia fossero già morti al momento della lettura della sentenza. Tra di essi si annoverano Filippo Marchese, Rosario Riccobono e Giuseppe Greco. Mario Prestifilippo, invece, fu trovato morto ammazzato nelle strade della città mentre il procedimento penale era ancora in corso.

114 imputati vennero assolti, tra cui Luciano Liggio, che era stato accusato di aver contribuito a gestire la famiglia mafiosa dei Corleonesi dall'interno del carcere, e per avere ordinato l'omicidio di Cesare Terranova, che l'aveva inquisito nel 1970. Il collegio giudicante decise che non vi erano prove sufficienti. Tuttavia, questo non cambiava di molto la posizione di Liggio, dal momento che era stato condannato all'ergastolo per omicidio - infatti, Leggio morì in carcere sei anni dopo.

Tra gli assolti, diciotto vennero in seguito uccisi dalla Mafia, tra cui Antonino Ciulla, che fu colpito a morte un'ora dopo il rilascio, mentre tornava a casa per partecipare a una festa in onore della sua liberazione.

[modifica] Gli appelli

Tuttavia, il rapido inizio dei processi d'appello rivelarono come lo stesso fosse stato condotto con un rispetto della procedura poco accorto e poco prudente da parte dei magistrati di primo grado[citazione necessaria]. In Cassazione ulteriori sentenze di condanna furono annullate ad opera di una Sezione della Corte presieduta dal giudice Corrado Carnevale. Le ipotesi che questo giudice fosse colluso con la mafia risultarono prive di fondamento, ed egli fu prosciolto da ogni accusa in questo senso[citazione necessaria]. La tesi dell'accusa era che fosse sul libro paga della Mafia, ed alla Sezione da lui presieduta sarebbe stato dato il controllo della maggior parte dei ricorsi grazie all'influenza del politico Salvatore Lima. Ipotesi che non trovò alcuna conferma.[citazione necessaria]

Carnevale fu soprannominato dai suoi detrattori come l'ammazza-sentenze per via della sua tendenza a cancellare le condanne per Mafia anche per piccoli vizi di forma. Carnevale cancellò alcune condanne per traffico di droga, ad esempio, perché le conversazioni intercettate presentate come prova si riferivano allo spostamento di "camicie" e "completi" invece che a narcotici; sebbene fosse noto che talvolta alcuni trafficanti utilizzassero tali nomi in codice per riferirsi allo stupefacente, nel caso concreto, tuttavia, non vi erano prove ulteriori (come ad es. il sequestro di una partita di sostanza) che permettessero di affermare che gli interlocutori non stessero parlando di capi d'abbigliamento.[citazione necessaria]

Nel 1989, solo 60 imputati rimanevano dietro le sbarre. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino si lamentarono dell'annullamento di diverse delle condanne inflitte in primo grado, ma non furono ascoltati: sembrava che la crociata dello stato contro la Mafia avesse perso vigore, e le loro opinioni rimasero in gran parte inascoltate.

Un pentito disse, più tardi, che la Mafia tollerò i maxiprocessi perché si riteneva che i condannati sarebbero stati silenziosamente rilasciati nel momento in cui il pubblico avrebbe perso interesse, e che la Mafia potesse continuare i propri affari come al solito. Sembrò, per un po', che i mafiosi avessero avuto ragione a pensarlo. [citazione necessaria]

[modifica] Epilogo

Nel Gennaio 1992, Falcone e Borsellino riuscirono a prendere in mano i rimanenti appelli del maxiprocesso. Non soltanto riuscirono a far rigettare molte richieste di appello, ma riuscirono ad agire anche su quelli che avevano avuto successo, così che molti Mafiosi che erano stati da poco fatti uscire di prigione vennero riportati senza troppe cerimonie di nuovo dietro le sbarre, in molti casi per il resto della loro vita. Naturalmente, tutto ciò fece imbestialire i boss della Mafia, in particolare Salvatore Riina, che sperava che la sua condanna in absentia per omicidio sarebbe stata annullata, così che gli fosse permesso di ritirarsi in pace con la sua immensa fortuna criminale.

In quell'estate, Falcone e Borsellino vennero uccisi in audaci attacchi con bombe. Ciò portò ad un pubblico sdegno e ad un riacutizzarsi della lotta alla Mafia che indebolì pesantemente l'organizzazione.

Salvatore Riina fu, infine, catturato nel 1993; altri mafiosi, come Giovanni Brusca, subirono la stessa sorte. Salvatore Lima avrebbe, probabilmente, affrontato un destino simile, ma venne ucciso nel 1992 per non aver impedito il rigetto degli appelli all'inizio dell'anno.

Il giudice Corrado Carnevale, che fu soprannominato l'ammazza-sentenze, venne catturato ed imprigionato per associazione mafiosa, per essere poi assolto con formula piena nel 2000.

È impossibile giudicare se il maxiprocesso sia stato o meno un successo senza considerare gli eventi successivi. Il successo più importante del processo fu il fatto di prendere in considerazione la Mafia come organizzazione con le proprie attività, piuttosto che i suoi singoli membri per crimini isolati (quest'approccio venne incarnato negli USA dal RICO Act). Alcuni potrebbero affermare che i processi d'appello corrotti annullarono in larga parte l'esito del processo, ma, sebbene ci siano voluti diversi anni e la vita di due giudici, il maxiprocesso generò, alla fine, una reazione a catena che portò a un importante indebolimento della Mafia, e alla cattura di coloro che erano sfuggiti alla rete del processo, come Riina e Brusca.

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