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Guerra del Kosovo - Wikipedia

Guerra del Kosovo

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

bussola Nota disambigua – Se stai cercando l'omonima battaglia del 1389, vedi Guerra di Kosovo Polje.


La Guerra del Kosovo fu un conflitto armato riguardante lo status del Kosovo, provincia autonoma della Serbia, allora compresa nella disciolta Repubblica federativa di Jugoslavia (Jugoslavia).

Il Kosovo, popolato in maggioranza da cittadini di etnia albanese, era entrato in tensione con la Serbia e contribuì al disfacimento della Federazione Jugoslava, già avviato con la fuoriuscita prima della Slovenia e poi della Croazia, nel quadro di nazionalismi contrapposti che ha segnato e segna le vicende balcaniche a cavallo tra il XX e il XXI secolo.

In quel clima l'insofferenza e con il nascere e crescere dei vari nazionalismi aveva cominciato a sfumare, in alcune frange, dalle rivendicazione autonomiste a quelle indipendentiste. Già dopo la concessione dello status di autonomia alla regione kosovara gli appartenenti all'etnia albanese (che si distinguono tra i musulmani e i cristiani) dimostrarono (inizi degli anni ottanta) che con questa autonomia non si sarebbero accontentati. A quell'epoca l'unica repubblica dell'allora Jugoslavia ad aver concesso una forma di autonomia alle proprie minoranze era appunto la Serbia; di preciso si trattava della regione Vojvodina al nord e della regine Kosovo e Metohija al sud. Nonostante questo lo slogan "Kosovo republika" cominciò a farsi sentire sempre di più nelle manifestazioni di piazza a Pristina e in altre parti del Kosovo. Gli Albanesi, infatti, chiedevano che Kosovo diventasse la settima repubblica della Jugoslavia socialista e quindi che si distaccasse dalla Serbia. Così facendo il Kosovo avrebbe potuto fare come la Slovenia e la Croazia, cioè al momento opportuno dichiarare l'indipendenza senza dover fare i conti con Belgrado.

Il conflitto precipitò alla fine degli anni ottanta: nel marzo del 1989 l'autonomia della provincia risalente alla costituzione della Repubblica Jugoslava di Tito (che era una repubblica federativa con diritto di secessione unilaterale delle varie repubbliche ma non anche delle regioni autonome) venne revocata su pressione del governo serbo guidato da Slobodan Milošević visto il precipitare della situazione. Fu, tra l'altro, revocato lo status paritario goduto dalla lingua albanese-kosovara (fino ad allora lingua co-ufficiale nel Kossovo accanto al serbo-croato), chiuse le scuole autonome, rimpiazzati funzionari amministrativi e insegnanti con serbi o persone fedeli (o ritenute tali) alla Serbia.

Dal 1989 al 1995 la maggioranza della popolazione d'etnia albanese del Kosovo mise in atto una campagna di resistenza non violenta sotto la guida del partito LDK e del suo leader Ibrahim Rugova. Dopo la fine della guerra in Bosnia-Erzegovina, tra i kosovari (in maggioranza musulmani) nacquero e si rafforzarono in breve tempo formazioni armate (sovente guidate da veterani di quella guerra) con dichiarati intenti indipendentisti.

La guerra del Kosovo si può dividere in due fasi distinte:

1. 1996 - 1999: furono i separatisti albanesi dell'UÇK (Ushtria Çlirimtare e Kosovës o KLA, Kosovo Liberation Army, "Esercito di liberazione del Kosovo") contro le postazioni militari e contro le entità statali. Successivamente ci fu una repressione sempre più dura da parte della polizia e, più tardi, da parte di forze paramilitari ispirate da estremisti serbi.

Edificio governativo distrutto a Belgrado.
Edificio governativo distrutto a Belgrado.

2. 1999: intervento NATO contro la Serbia. Per tutto il 1998, mentre la guerriglia sul terreno si espandeva e la repressione delle forze di sicurezza serbe si faceva via via più pesante e sanguinosa, la NATO adottò una politica di dissuasione e minaccia contro il governo della Repubblica federale jugoslava guidato da Slobodan Milošević.

Esercitando forti pressioni, l'Alleanza Atlantica ottenne l'avvio dei negoziati di Rambouillet, che si conclusero positivamente nonostante la resistenza dei rappresentanti dell'UÇK a firmare un documento nel quale era formalmente garantita l'autonomia del Kosovo, ma non la sua piena indipendenza. Tale resistenza fu superata grazie alle pressioni degli USA, che godevano di grande prestigio presso l'UÇK e la delegazione Kosovara grazie alla loro politica di sostegno. Alla ripresa di Parigi, di lì a pochi giorni dalla conclusione di Rambouillet - una sessione non politica che avrebbe dovuto occuparsi degli aspetti attuativi e organizzativi dell'accordo - la delegazione serba abbandonò sin dall'inizio la seduta rimettendo in discussione gli esiti politici di tutta la trattativa, dichiarando che non accettava più quella che considerava una indipendenza di fatto mascherata da autonomia. I Serbi si sentirono presi in giro e provocati.

Indice

[modifica] Kissinger: Rambouillet, una provocazione

Va tuttavia notato che -- in questo caso -- la parte Serba fu di fatto costretta ad abbandonare il negoziato[1] a seguito di due elementi-chiave introdotti, per impulso degli Stati Uniti, alla vigilia della firma dell'accordo. In primo luogo, il 22 febbraio, il Segretario di Stato USA, Madeleine Albright, si impegnò, verso la parte kosovara, a garantire, entro tre anni, il distacco del Kosovo dalla Federazione[2][3][4]; in secondo luogo, fu introdotta un'appendice (Appendice o Annex B [2]) alla parte militare dell'Accordo che prevedeva, di fatto, l'occupazione militare dell'intera Federazione Serbia da parte della NATO. Tale misura, inaccettabile per qualsiasi stato sovrano, era tanto più irricevibile, in quanto la Costituzione Federale vietava, sin dai primi anni '70, lo stazionamento di truppe straniere sul territorio Jugoslavo.[5] Particolarmente significativo fu il commento di Henry Kissinger, ex segretario di Stato americano, che definì il testo:

« Il testo di Rambouillet, che chiedeva alla Serbia di ammettere truppe NATO in tutta la Jugoslavia era una provocazione, una scusa per iniziare il bombardamento. Rambouillet non è un documento che un Serbo angelico avrebbe potuto accettare. Era un pessimo documento diplomatico che non avrebbe dovuto essere presentato in quella forma (The Rambouillet text, which called on Serbia to admit NATO troops throughout Yugoslavia, was a provocation, an excuse to start bombing. Rambouillet is not a document that an angelic Serb could have accepted. It was a terrible diplomatic document that should never have been presented in that form) »
(Henry Kissinger al Daily Telegraph, 28 giugno 1999)

Da Aviano e dalle altre basi NATO italiane presero il volo i caccia bombardieri. Dopo la decisione della NATO, il governo D'Alema autorizzò l'utilizzo dello spazio aereo italiano. Fu il secondo intervento militare italiano a carattere offensivo dalla fine della seconda guerra mondiale, dopo la prima guerra del golfo contro l'Iraq nel 1991; le precedenti missioni in cui era stata coinvolta l'Italia riguardavano l'ONU o l'UE, e non avevano impegnato l'aeronautica se non in funzione prevalentemente logistica e d'appoggio.

La stampa di quel periodo notò il ruolo di Madeleine Albright, Segretario di Stato USA sotto la presidenza di Bill Clinton. L'equivalente americano del nostro Ministro degli Esteri spingeva per un intervento militare, mentre l'amministrazione americana era propensa alla neutralità, vedendo il Kosovo più come una questione europea. La Albright, come alcuni giornali notarono, è ebrea di origine polacca e visse in prima persona l'esodo forzato di un popolo e le deportazioni naziste durante la Seconda Guerra Mondiale, fatti che furono paragonati a quelli compiuti dai serbi sulla popolazione albanese kosovara.

Una tesi che presenta la guerra in Kosovo come guerra mediatica, gonfiata dalle televisioni occidentali, è sostenuta da alcuni giornalisti, tra cui un articolo apparso sul quotidiano italiano La nazione. Secondo l'articolo, infatti, alla fine del 1989, la CNN, prima fra le TV occidentali, iniziò a trasmettere ogni giorno filmati di stragi compiute dai serbi sui kosovari. Si trattava di due episodi in cui rimasero uccisi 205 civili, mentre venivano messi in onda spezzoni sempre diversi dello stesso filmato, in modo che sembrasse che in Kosovo fosse in corso un genocidio. Se ciò fosse dimostrato, si ridimensionerebbe la proporzione tra un pericolo di genocidio da parte dei serbi e l'intervento armato sua conseguenza.

Il 24 marzo 1999 l'Alleanza Atlantica prese atto del fallimento dei negoziati ed iniziò (senza un provvedimento in questo senso da parte dell'ONU, a causa del minacciato veto di Russia e Cina) alcune operazioni militari di dissuasione nella speranza di ottenere una replica di quanto già avvenne per i negoziati per il conflitto Bosniaco, dove anche lì la delegazione serba abbandonò improvvisamente la trattativa riprendendo immediatamente le operazioni militari. In quella occasione poche operazioni militari di dissuasione sulle linee serbe convinsero il regime di Milosevic a ritornare al tavolo delle trattative e a firmare (e rispettare) la fine del conflitto. Tale circostanza non si ripeté nel caso del Kosovo, presumibilmente perché Milošević - che puntava in modo piuttosto trasparente ad una sua spartizione, tra Serbia e Albania - riteneva di potere contare su determinate alleanze, o semplicemente su di un mutato quadro internazionale che pensava avrebbe giocato a suo favore. La Cina aveva manifestato una netta contrarietà nei confronti della neonata repubblica di Macedonia (verso la quale l'esercito serbo cercò di spingere la popolazione del Kosovo in fuga) a causa del riconoscimento di Taiwan da parte di quest'ultima, circostanza che sembra essere stata la motivazione dominante della minaccia di veto cinese ad ogni intervento in sede ONU.

La Russia aveva iniziato un recupero della conflittualità con gli USA in chiave nazionalista, e inoltre tra Russi e Serbi esiste storicamente un legame particolare su base etnico-religiosa. La NATO iniziò quindi una escalation di bombardamenti aerei su tutto il paese che sono durati oltre due mesi (operazione Allied Force). I jet della NATO partivano soprattutto da basi militari italiane, come quella di Aviano, in Friuli-Venezia Giulia. In media, la Serbia subiva almeno 600 raid aerei al giorno. Il numero esatto di vittime della guerra, sia serbe che albanesi, militari e civili, non è ancora oggi conosciuto con esattezza, ma è presumibile sia dell'ordine di qualche migliaio. Si tratta di una ulteriore tragedia che si somma a quella dei dieci precedenti anni di conflitti balcanici, che hanno fatto circa 250.000 vittime, in gran parte civili.

Nel corso del conflitto ci sono stati diversi gravi episodi: in un'occasione un attacco aereo colpí un convoglio di civili in fuga facendo una strage. Un'altra volta, un missile finí per errore in Bulgaria, senza provocare danni. Tra le infrastrutture prese di mira anche alcuni ponti e centrali elettriche (bombardate con bombe alla grafite che non provocano danni permanenti, ma solo un black-out). Fu anche bombardata e distrutta la torre della televisione (gli oppositori di Milošević in Serbia sostenevano che il personale era stato avvisato dell'attacco, ma gli era stato ordinato di rimanere nell'edificio), con 16 vittime tra giornalisti, funzionari ed impiegati. In seguito venne bombardata l'ambasciata cinese a Belgrado, nel convincimento che in quell'edificio fosse stata spostata la trasmittente della radiotelevisione Serba dopo la distruzione della sua sede. La vicenda creò una notevole tensione con la nazione asiatica. L'esercito serbo, e truppe "irregolari" facenti capo a movimenti ultranazionalisti serbi (che già avevano operato in Bosnia Erzegovina distinguendosi in massacri di civili ed operazioni di cecchinaggio) non mancarono di compiere diverse esazioni sulla popolazione del Kosovo, per provocarne la fuga e creare quello stato di fatto necessario alla realizzazione dell'obiettivo della spartizione. L'operazione militare, chiamata "ferro di cavallo", sarebbe stata preparata prima ancora delle trattative di Rambouillet, anche se prove definitive al di là di ogni ragionevole dubbio in tal senso non sono state fornite, o la stampa internazionale non ne ha mai dato un resoconto esauriente. In ogni caso l'esercito serbo sotto attacco NATO aumentò progressivamente la pressione sulla popolazione albanese, che iniziò a spostarsi verso la Macedonia e l'Albania. Il numero dei rifugiati raggiunse gli 800.000.

L'inevitabile capitolazione del governo serbo portò al dispiegamento della missione ONU KFOR, disposta dal Consiglio di sicurezza a seguito di un accordo "a posteriori" includente Russia e Cina, a guida NATO e con una significativa presenza di truppe russe, a garanzia della Serbia.

I rifugiati albanesi ritornarono ma cominciò un nuovo esodo, quello serbo. Migliaia di cittadini di etnia non albanese (serbi, montenegrini e gitani, in prevalenza) fuggirono dal Kosovo temendo -- e subendo -- rappresaglie albanesi (per altro protrattesi sino ai giorni nostri, a dispetto della presenza della KFOR), e si creò uno stato di fatto che perdura tuttora, con i serbi superstiti trincerati in gran parte nella Methokia (la parte serba del Kossovo) e gli albanesi nel Kosovo propriamente detto, impegnati a rendere "etnicamente pura" la provincia: basti pensare che, dopo la guerra, centinaia di chiese ortodosse vecchie più di cinquecento anni sono state distrutte (in diversi casi rase al suolo) e che non uno dei 40mila residenti d'etnia serba di Pristina ha potuto farvi ritorno. Milošević fu arrestato il (1 aprile 2001) su mandato del tribunale internazionale dell'Aja, dopo molte titubanze del nuovo regime democratico, come imputato per crimini contro l'umanità. Il processo si è interrotto a poca distanza dalla sua conclusione, a causa della morte dell'imputato l'11 marzo 2006 per presunto arresto cardiaco.

Nel 2006 sono iniziati a Vienna nuovi colloqui bilaterali tra il governo serbo e quello kosovaro per la definizione finale dello status della provincia del Kosovo.

[modifica] Note

  1. ^ Tale giudizio è stato sostenuto da molteplici osservatori, anche di parte occidentale, vedere ad esempio Noam Chomsky: "Lessons of War - Another way for Kosovo?" (richiede iscrizione)(lo stesso articolo, lettura gratuita) ed è sostanziata anche dalle note successive. Chomsky cita anche Robert Fisk, il quale è più volte tornato sullo stesso tema, citandolo come precedente per la "promozione" di conflitti, vedere ad esempio Robert Fisk, Iraq: a year of war - The invasion of Iraq would, we were told, rid the world of mortal danger. One year on, the only people who feel safer are those who prefer not to think for themselves.
  2. ^ Vedi anche: Quarta Relazione del Comitato Ristretto per gli Affari esteri del Parlamento Britannico; si occupa della crisi del Kosovo, in inglese. Molto significative sono le note e le testimonianze relative agli sviluppi che portarono al fallimento dell'Accordo di Rambouillet, che confermano come numerosi osservatori - anche autorevoli e terzi rispetto al conflitto serbo-albanese - abbiano individuato nelle promesse della Albright di tenere un referendum per l'indipendenza del Kosovo e nell'Allegato Militare B aggiunto agli accordi, le ragioni che resero impossibile la firma alla parte serba. Alcuni estratti (enfasi e commenti in italiano aggiunti) significativi dal documento: ...However, according to the FCO, "the US sent a letter to the Kosovo Albanian delegation, noting that the US regarded the agreement as confirming the right of the people of Kosovo to hold a referendum, consistent with the provisions of the Rambouillet agreement, on Kosovo's final status." Tim Judah reproduced the text of this letter as follows:
    "Rambouillet, 22 February 1999
    This letter concerns the formulation (attached) proposed for Chapter 8, Article 1 (3) of the interim Framework Agreement. We will regard this proposal, or any other formulation, of that Article that may be agreed at Rambouillet, as confirming a right for the people of Kosovo to hold a referendum on the final status of Kosovo after three years.
    Sincerely,
    Madeleine Albright, Secretary of State."
    This letter offers a different interpretation from that provided by the FCO: it appears that the US Secretary of State was offering US support for a referendum regardless of what was agreed at Rambouillet, rather than "consistent with the provisions of...Rambouillet." It is difficult to envisage a situation where a referendum would be held and then disregarded by the international community. Thus even if the words of the agreement did not specifically provide for a binding referendum on independence, there was a ground for suspicion for the Serb side on this point. Certainly, the Albanian side continue to believe that the Albright letter represents a commitment by the USA to a binding referendum. Overall, it is clear that consistency among the allies would have helped the negotiations, and that there were occasions where unilateralism harmed progress. Al di là del linguaggio, ovviamente cauto, è evidente la denuncia dell'unilateralismo USA e la valutazione britannica, che riconosce esplicitamente alla parte serba ragioni sufficientemente solide per sospettare seriamente della promessa di referendum inclusa all'ultimo minuto negli accordi. Ancora più sostanziali sono le testimonianze relative all'inaccettabilità dell'Allegato B: Another controversial area of the Rambouillet negotiations was the so-called Military Annex to the Rambouillet Accords, actually Appendix B to the Military Chapter... Controversy has focussed in particular on the broadly drafted provision which permitted NATO and affiliated forces transit through Yugoslav territory: "NATO personnel shall enjoy, together with their vehicles, vessels, aircraft, and equipment, free and unrestricted passage and unimpeded access throughout the FRY including associated airspace and territorial waters." Many observers have blamed the Military Annex for the unwillingness of the Serb side to sign Rambouillet: for example, the Serbian Information Centre states that the terms of the annex "were only proper for a signature by a country defeated in war." The former Canadian Ambassador to Yugoslavia told the Canadian Committee on Foreign Affairs and International Trade that "the insistence of allowing access to all of Yugoslavia by NATO forces...guaranteed a Serbian rejection." Mr Hopkinson assesses that the entrance of NATO forces into Serbia proper could not be accepted by Milosevic, and notes that this was "in fact omitted from the post-campaign settlement." Professor Roberts told us that the Military Annex was: "on one level a complete scandal, and it shows an absence of any understanding whatever of Serbian society, because to write into a military agreement that the Yugoslav Government had to accept NATO troop rights, not merely in transit but manoeuvre and goodness knows what else, was outrageous, bearing in mind that Yugoslavia is a country where it had been a constitutional offence, under the Tito constitution, and since 1971 actually, to accept the presence of foreign forces on Yugoslav soil. And it is not correct to say, as has been commonly done, including still today by Wes Clark, that the military agreement was simply a carbon copy of the Dayton Agreement in respect of Yugoslavia. There are provisions in there that were not in the Dayton Agreement." NATO is guilty of a serious oversight in failing to estimate the political significance of what might have appeared to be a military technicality. We conclude that, whatever the actual impact of the Military Annex of the Rambouillet proposals on the negotiations, NATO was guilty of a serious blunder in allowing a Status of Forces Agreement into the package which would never have been acceptable to the Yugoslav side, since it was a significant infringement of its sovereignty.
  3. ^ Vedi anche: Briefing di Madelaine Albright sui colloqui relativi al Kosovo, 23 febbraio 1999
  4. ^ Vedi anche: Articolo dello "Irish Examiner" sulla Crisi del Kosovo (War looms closer in Kosovo), in inglese, del 22 febbraio 1999 nel quale si afferma, tra l'altro, citando testualmente la Albright: In an attempt to assuage ethnic Albanian demands for a referendum on self-determination after three years of self-rule, Albright said: "The word referendum is not in the agreement but we recognise that it is important after the three-year period to consider the voice of the people among other considerations that have to be taken into regard. (In un tentativo di attenuare le esigenze albanesi di un referendum sull'autodeterminazione dopo tre anni di autogoverno, la Albright ha detto: "la parola referendum non è [inclusa] nell'accordo [Accordi di Rambouillet], ma noi riconosciamo sia importante, dopo il periodo di tre anni, considerare la voce del popolo tra le altre considerazioni che debbono essere tenute presenti").
  5. ^ Vedi anche: Articolo dello "Irish Examiner" sulla Crisi del Kosovo (War looms closer in Kosovo), in inglese, del 22 febbraio 1999 nel quale si afferma, tra l'altro, citando testualmente la Albright: Albright said the Kosovo Albanians "are working very hard and I think moving towards a 'yes'. The Serbs on the other hand are refusing to engage on a basic part of the agreement, which is the military aspect". (La Albright ha detto che i Kosovari albanesi "stanno sforzandosi molto e penso si muovano verso un sì [agli Accordi di Ramboullet]. I Serbi, dall'altra parte, stanno rifiutando d'impegnarsi su una parte fondamentale dell'Accordo, che è l'aspetto militare [contenuto nell'Appendice o Annex B [1])]")].

[modifica] Bibliografia

  • Scotto, Giovanni / Arielli, Emanuele, La guerra del Kosovo, Roma: Editori Riuniti 1999.
  • Joze Pirijevec Le guerre jugoslave, Torino, Giulio Einaudi editore. 2001 e 2002

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