Storia di Acri
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Le origini della città di Acri sono state a lungo dibattute tra gli studiosi, e in generale attribuite all'antico popolo degli Osci, sostituiti più tardi dai Bruzi e Lucani.
[modifica] Insediamenti preistorici
Scavi archeologici condotti a partire dal 1998 dalla Sovrintendenza Archeologica della Calabria e dalla cattedra di Protostoria Europea dell'Università La Sapienza di Roma, hanno permesso il rinvenimento, ad opera della locale associazione A.C.R.A., di un consistente insediamento umano alle pendici del Colle Dogna, proprio in prossimità dell'attuale centro storico. I più antichi tra i materiali rinvenuti sono stati datati alla fase più antica dell'Eneolitico (3500-2800 a.C.), con somiglianze alla facies di Laterza, mentre quelli più recenti sono riconoscibili quali manifestazioni dell'Età del bronzo antico (2800-2100 a.C.), simile per alcuni aspetti alla facies di Cessaniti-Capo Piccolo e quasi uguale alla facies di Palma Campania.
A tal proposito si propone un estratto dalla XXXVII Riunione scientifica della Preistoria e Protostoria in Calabria:
« L'evoluzione del deposito può essere così riassunta: al di sopra di una potente serie di livelli colluviali, con scarsissimi indizi di antropizzazione, compaiono chiare tracce di frequentazione e di insediamento (complesso inferiore); dopo l'abbandono dell'abitato si assiste ad un nuovo scorrimento dal monte, che con il degrado dei piani di occupazione formano Us 8. In Us 10 è riconoscibile una pausa dei piani di frequentazione e di occupazione non meglio definibile, quindi il sito in oggetto ad una nuova forma di frequentazione risultante in depositi secondari, di origine prossimale (complesso superiore), alcuni indizi fanno pensare a reperti di origine funeraria, ma non può essere esclusa la pertinenza abitativa continuativa » |
Gli archeologi cosi la evidenziano nella loro descrizione: 1)Essa ha messo in luce il primo abitato all'aperto del Bronzo antico nella provincia di Cosenza; 2) Nel 2002 venne identificato un secondo sito[1] nella località Policaretto del comune di Acri, a circa 10 km dall'attuale centro storico[2]. I due insediamenti erano in vista l'uno dell'altro e, sul vasto pianoro che si estende per varie decine di ettari sulla dorsale a Sud-Ovest del fiume Mucone, sono stati rinvenuti materiali identici a quelli di Colle Dogna ma in quantità enormemente superiore, e forse, secondo gli esperti, addirittura più antichi. L'estensione dell'insediamento doveva essere notevole, abbracciando varie cime collinari, in prossimità dei fiume Mucone e Cieracò di Acri.
A seguito della segnalazione, iniziò nel luglio 2002 una terza campagna di scavi nelle località Policaretto e Gastia, frazioni di Acri, finanziata dalla Fondazione culturale Vincenzo Padula.
Tra i rinvenimenti sul sito[3], nelle frazioni di Piano del Barone, Policaretto, Gastia e Valle del Mucone, tutte ubicate nel comune di Acri, si segnalano forni per la lavorazione della ceramica, di vasellame di tipo bruzio e i resti di una villa romana datati al II-I secolo a.C. Altri ritrovamenti nel territorio riguardano punte di freccia di ossidiana e di selce locali, frammenti di ceramica locale (osca o bruzia), resti di ceramica greca arcaica di tipo Kylix a vernice nera di stile protogeometrico, oggetti in bronzo di piccole dimensioni, e infine varie monete greche, (triobolo, dracme e semidracme) ora in custodia al Museo archeologico nazionale della Sibaritide. A tal proposito l'archeologo il prof. A. Vanzetti scrive sul sito di Colle Dogna
« ...Il secondo sito è un deposito, pluristratificato, con significativa stratigrafia comprentende livelli inferiori del tardo Neolitico, intermedi eneolitici (comprentendi resti di strutture abitative) e superiori del Bronzo Antico avanzato in graditura secondaria » | |
(Scavi condotti dalla Soprintendenza Archeologica della Calabria in collaborazione con l'Università La Sapienza di Roma, Cattedra di Protostotia Europea, anno di riferimento 2002)
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[modifica] Rinvenimenti numismatici
La quantità di materiale monetale rispetto agli altri reperti provenienti dagli scavi è esigua, si tratta, in totale, di una trentina di esemplari, abbraccianti tuttavia un ampio lasso di tempo.
Hubert Goltzius documentò nel Thesaurus rei antiquariae (Bruges, Olanda, circa il 1575-76) e nel Sicilia et Magna Graeciae. Historiae urbium et popolorum Graecia, et antiquae nummismatibus, il rinvenimento, alla confluenza degli attuali fiumi Mucone e Chàlamo, che scorrono ai piedi della città di Acri, di due monete bruzie con la scritta Acherontham e, in esergo, Niko.
A queste si aggiungono i ritrovamenti più recenti, con esemplari da Thurii (490 a.C.), da Metaponto (550 a.C.) e da Crotone (443-442 a.C.), oltre ad alcune monete provenienti dall'illirica Dyrrachium, alcuni trioboli ed uno statere del 590 a.C.) e molte monete romane: tra queste, esemplari della monetazione dei Gallieno, Giulia Domna, Uranio Antonino (253-254 d.C) e di Tiberio.
Nel settembre del 1997 si ebbe un ritrovamento di ulteriori 14 monete: una greca da Crotone con tripode e vittoria alata; due monete di Gallieno, una di Dyrrachium, due monete greche di Thurii ed altre, ancora da identificare, ma di quasi certa provenienza Alessandrina. Fu trovato inoltre un reperto metallico (probabile parte di corazza bruzia), un anello digitale in oro giallo di forma serpeggiante, di epoca imprecisata e di probabile origine semitica. (verbale di consegna del 5 novembre 1997, prot. n. 4088, collo n. 1, effettuato alla Soprintendenza archeologica della Calabria, deposito Museo archeologico nazionale della Sibaritide, (ritrovamento ad opera della sede dell'Archeoclub d'Italia di Acri.
Un terzo ritrovamento avvenne nel 2002 (consegna alla Sovrintendenza della Calabria in data 14 giugno): si tratta di svariati pezzi di ceramica Osco-Bruzia, una punta di freccia di ossidiana e di due monete romane.
I ritrovamenti numismatici attestano la continuità nella frequentazione del territorio fino al periodo dell'impero bizantino[4].
[modifica] Ipotesi sull'origine della città
È indubbio che nel territorio di Acri vi fu un insediamento umano molto consistente, dal periodo che parte dall'Eneolitico al Bronzo Finale, da parte di popolazioni che possiamo identificare con le prime giunte su quelle terre, gli Enotri, soppiantati poi dagli Osco-Umbri, dal cui ceppo derivano i Sanniti, quindi dai Lucani ed infine dai Bruzi. Infatti, nell'elenco delle località bruzie esistenti già nell'anno 1240 a.C., lo storico Davide Andreotti Loria, nell'opera Storia dei cosentini, cita: Acrae, Albistria, Blanda, Besidie, Cerre, Lao, Nucria, Napezia, Tyllesion. Lo storico Giovanni Fiore (1641) cosi la descrive: "...essendo Terra della Iapigia, conviene dire che Iapigi ne fossero i primi fondatori...". Aristotele nel suo opuscolo De Mirabilis Auscult, scrive: "che in tutta l'Italia infiniti monumenti si vedevano di Ercole (Eracle) per tutte le vie battute, e che presso Pandosia nella Japigia si rispettavano ancora le sue orme,perché non si potevano calcare con i piedi"... «...Circa Japigiae Pandosia vestigia ejus apparere,quae naqueas pedibus calcare...». Si attribuisce ancora ad Aristotele «...Dicono che in Italia, fino alla terra celtica, dei Celti liguri e degli Ibrei c'è una via detta Heracleia, attraverso la quale qualunque viaggiatore, sia esso greco o indigeno, e protetto dagli abitanti del luogho, perché non gli sia fatta alcuna ingiustizia; infatti debbono pagare il fio quelli che nel cui territorio sia avvenuta un'ingiustizia...» F. Carona., G. Mezzarobba 2003.
Lo storico Luigi Caruso, nella sua opera Storia di Cosenza fra gli antichi nomi di alcuni comuni della Calabria cita: "Ocriculum - Auxo - Axia - Acrium - Acresium - Acrae - Acra", tralasciando evidentemente altri nomi, con i quali si ricordava in altri tempi. Acri così viene descritta "...antica città del popolo dei Coni, anzi la loro capitale, probabilmente dopo la distruzione di Cone..." (Francesco Grillo 1952). Lo storico Cantù, nella sua opera Storia Universale, al volume VIII, scrive: "Ne l'interno Acheruntia e Pandosia ne l'Acheronte". Davide Andreotti Loria scrive sulle origini di Acri: "Acri e l'antica Aciris, che declinava come metabo, vale a dire: Aciris, Aceruntis, Acherontis". Precisa poi che il nome non è di origine greca:
« chi la fa di origine greca, fu ingannato dal suo nome che ha radice greca, e chi lo ritiene di origine asiatica si appoggiò ai nomi di alcuni suoi monti e valli che sono simili ad alcune voci ebraiche, gli fece credere che ebraiche fossero le sue origini » |
«...Che Acri, adunque, fu l'antica Aciria o Acherontia lo prova uno de suoi fiumi detto ne' tempi Osci Acherante ed Acironti, ne' tempi greci Acheros, nei mezzani Cironti, ed oggi Caramo e Calamo. Del resto essendo Acri antichissima abitazione dei primitivi coloni Osci, che prendeva denominazione da' prossimi monti ove sorgeva, è chiaro che dovesse appellarsi Aciria ed Acherontia, quando il fiume che le scorreva presso, appellavasi Acironte ed Acheros...».
Lo storico L. Caruso, nella già citata Storia di Cosenza scrive: "...il rinvenimento di tracce del Neolitico superiore e della pietra levigata rinvenute ad Acri", ed è quindi probabile che i primi abitatori risalgano ad un periodo compreso tra il 6000 ed il 2800 a.C. (Mario Barberio 1989), caratterizzato dalla cultura megalitica (da mega=grande e lithos=pietra). Ne fa fede anche il graffito raffigurante un gigante, inciso su di una rupe nella parte più alta del Mucone come lo descrive, nella sua opera Memorie Storiche di Acri, anche il Raffaele Capalbo. Secondo Pseudo Scimno da Chio nella sua opera Periplo, Pandosia Bruzia era inclusa fra le città colonizzate dagli Achei del Peloponneso e la sua fondazione, secondo Eusebio di Cesarea, sarebbe stata contemporanea a quella di Metaponto. Ma, come giustamente fa notare Jean Bérard nel suo libro La Magna Grecia:
« [...] Pandosia secondo Strabone, fu dapprima la (Basileon) capitale del re degli Enotri, si trovava nell'alta valle del Crati e venne soppiantata da Cosenza nel IV secolo a.C. ( 356 a.C.) che divenne la nuova capitale [...] è chiaro che fu d'origine indigena e non greca [...] » |
Nella rivista mensile di numismatica Cronaca numismatica del 2002, nel servizio dedicato alla produzione delle ceramiche e della monetazione dei Bruzii, allestita dal Museo Civico di Milano e diretto dall'archeologo e numismatico di fama internazionale Ermanno Arslan, si descrivono le monete pandosiane precisando: «...Non è chiaro se questa città era di origine greca, oppure indigena o che poi di due se ne ebbe una...». Bertarelli scrive:
« Che Pandosia fosse presso Acri ed il fiume Moccone, lo si deduce anche da Strabone che ubica la città un po' sopra e cioè più a nord di Cosenza, presso il fiume Acheronte non molto distante dal confine Bruzio-Lucano segnato presso a poco all'istimo Thurii-Cerilli (VI,255_256); lo si deduce ancora da Livio (VIII,24 Cod.Med.,XXX,19)e da Giustino (XII,2), che ugualmente ubicano Pandosia tra Cosenza e Thurii, presso il fiume Acheronte ed il confine Bruzio-Lucano; da Plinio: "..Intus in peninsula fluvias Acheron, a quod oppidani Acherontini.." (nat.Hist.III,73) che nella penisola fluviale dell'Acheronte vide la natura difensiva di Pandosia, alleata dell'antica Sibari, e negli Acherontini la comunità Bruzia di Acrentinam od Ocriculum citata da Livio od. di Acra, qual'è detta da Stefano Bisantino ed è al presente. Questi dati sostanzialmente concordano con quelli di Pseudo Scilace e del Pseudo Scimno, in cui i peripli sono della seconda metà de lV secolo a.C. allorché Consentia era ancora ignota se non proprio inesistente, nel Periplo del Ps. Scilace vediamo Pandosia ubicata tra Thurii, Clampletia e Terina, ed in quella di Ps. Scimno semplicemente tra Crotone e Thurii (Scylax Periplus,12; Scymm Orbis descriptio verset.326 in Geographi Graeci Minores, Parisis 1882,I) » | |
(da L.Bertarelli 1938)
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Stando a quanto afferma il famoso archeologo e numismatico Ermanno Arslanm ed i ricercatori Giovanni e Vincenzo Gatti, nella località di Roccelleta di Borgia in Calabria sarebbe esistita la mitica Sheria, descritta da Omero, nei libri VI-VII dell'Odissea. Là regnava il capo della confederazione dei dodici stati, il re Alcinoo, padre di Nausicaa, che alla foce di un fiume (Corace?) soccorre il naufrago Ulisse. In base alla descrizione del dott. Arslan e dei fratelli Gatti, il nome Alcinoo deriverebbe da Alcinale, termine con cui viene denominato l'odierno Ancinale. Così pare i nomi di alcuni dei dodici re della confederazione sarebbero stati mutuati da altrettante località calabresi: Ladomante, re di Laos e di Amantea; Acroneo, re di Acri; Dimanto, re di Diamante. Infine gli stessi fratelli di Alcinoo, Croton e Rethium, altro non sarebbero che quelli delle più fiorenti città della Magna Grecia, Crotone e Reggio[5]. Un antichissimo riferimento storico per una localizzazione della città è quello dello storico Catone, vissuto tra 234 e il 148 a.C., che la dice fondata, o meglio edificata, da coloni provenienti dalla Beozia che, stabilitisi nella regione dei Lucani, fondarono Tebe Lucana, Platea e Tanagra. Diodoro Siculo scrive che Tebe Lucana fu fondata dai Tespiadi della Tespia nella Beozia, coloni condotti da Jolao nella Sardegna. Eustazio aggiunge che vi erano anche dei Tebani, e che questi popoli passarono a stabilirsi in Enotria e fondarono varie città ai tempi di Jolao, prima della grande emigrazione Jonia, avvenuta nel 1130 a.C.[6] ed in quel tempo furono fondate tre città, nella confinante regione dei Bruzi, cui diedero gli stessi nomi delle città di origine: Sifeo, Temesa, Platea. Scilace di Carianda, vissuto tra il VI e il V secolo a.C., nel suo Periplo non fa alcuna menzione di Tebe Lucana (Luzzi), Tanagra e Sifeo, citando invece la sola Platea. Lo storico Plinio il vecchio (23-79 d.C.) nella sua Storia Naturale (Naturalis historia, 3, 98) cita gli Aprustani come l'unico popolo che abitava l'entroterra thurino e che non si affacciava sul mare, oltre ad altre due città nell'entroterra enotrio, Tebe di Lucania e Mardonia[7]. Altre descrizioni di città enotrie da storici come (Diodoro Siculo 21,3) sono: Ethai, Arinthe (Rende), Artemision, Erimont(Altomonte), Ixias, Kossa(Castiglione di Paludi), Kiterion, Menekine(Mendicino), Malanios, Ninaia (San Donato di Nineia)
Stefano bizantino (VI secolo) cita a più riprese testi estrapolati da Ecateo di Mileto e considerati perciò pertinenti a città enotrie quali: Brystakia, Drys, Patycos, Sestion, Siberine (Santa Severina).
Per ultimo Servio, vissuto nel IV secolo, nel commento alle Georgiche (1,103) (Commentarii in Vergilii Georgiche) scrive che fondata da i Troiani nell'entroterra di Thurio la città di "Gargara" (San Demetrio Corone?)[8].
Da testi degli antichi storici quali Catone e Plinio e tradotte recentemente da Gabriele Barrio, lo storico riteneva che Tebe Italica (lucana) sia vicinissima a Pandosia e scrive:
« Et Plinius cum de Thebis mentionem facit,statim subdit de Pandosia,quam Theutopompus Lucanorum ubem fuisse ait... » |
Lo storico P. Marafioti nella sua opera a pag. 288 scrive:
« Appresso il castello la Rosa (attuale Rose di Luzzi in provincia di Cosenza) si incontra l'antica città di Tebe, in luogo in alto edificata, che oggi e chiamata li Luzzi; di questa ne fa menzione Plinio e Teutopompo, che dice essere città dei Lucani, non perché fosse dentro la sua provincia di Lucania, ma perché in questi convicini luoghi negli antichi tempi ebbero i lucani, molte colonie,... » |
Il Fiore nel suo nel suo libro capitolo IV pag.79-89 scrive "Tebe, città senza certezza di primo fondatore detta altresì Lucana perché abitata dai Lucani, cioè sanniti, venuti sotto il loro capo chiamato Lucio.." e nelle tavole dei nomi moderni mette Tebe a Luzzi. Lo storico F.Firrao nel suo Lessico scrive:
« Thebes Lucaniae, cognonime li Luzzi, oppidum Bruttiorum mediterreneum in Calabria Cireriori apud Cratim fluvium, Acrae olim finitimun ab eo 8 m.p. Consentiam versus, intininter illum et Bisinianum... » |
L'unica città attigua a Luzzi è l'odierna Acri, sul versante a sud che guarda sul fiume Crati, poco più nord di Cosenza.
Un altro riferimento importante per una localizzazione e la testimonianza di Aristotele (384-322 a.C.), che ubicava la città di Pandosia a "sei ore di marcia a cavallo dalla costa nell'entroterra"[citazione necessaria] (altrimenti avrebbe detto sulla costa!). L'andatura media di un cavallo in buone condizioni è di circa 6-10 km/h, quindi, secondo un calcolo approssimato, la distanza citata da Aristotele equivale a circa 35-40 km, all'incirca la distanza che separa Acri dal mare Ionio e poco più dal mare Tirreno, seguendo l'istmo delle vie fluviali del cosentino. Secondo gli studi condotti dal prof. J. De la Geniere e dal prof. C. Sabbione, ai tempi dell'imperatore Augusto (Roma 63 a.C.-14 d.C.) scomparvero completamente Pandosia e Terina, e decaddero centri come "Locri, Caulonia, Petelia, Brystaccia, Syberina", importante piazzaforte per la sua posizione sul Neto.
[modifica] Acri in epoca romana
Ripercorrendo a ritroso la storia di Acri, bisogna considerare la posizione strategica di Acri, situata tra Rossano Calabro e Sibari, e quindi viene da chiedersi se, prima della caduta della potente Sibari, non fosse sotto la sua influenza, per poi passare sotto l'egida della vicina Crotone. Nella sua lunga storia la città di Acri si oppose strenuamente al dominio di Roma ma, dopo la battaglia di Canne, si schierò a fianco del duce cartaginese Annibale, per poi doversi arrendere nel 203 a.C. e conoscere uno dei tanti saccheggi della sua storia.
La sua voglia di libertà si rianimò nel 73-71 a.C. quando, insieme ai comuni limitrofi, sostenne la rivolta di Spartaco, accampatosi nei territori detti Campo Vile nei pressi del comune di Bisignano, durante la terza guerra servile[9]. Lo storico Davide Andreotti Loria, a pag. 259 della sua Storia dei cosentini, così scrive:
« ...della spaventosa eruzione del Vesuvio, che distrusse Pompei, Ercolano e Stabia, e che il fumo e le ceneri coprirono Roma e buona parte del Bruzio ... narra Dione (155-239 d.C.) che per i tremuoti, ne andò sossopra Cosenza, che danneggiatissimi come nelle altre città, ne andarono gli edifici i templi, che per essere isolati, presentarono una resistenza minore alle ondulazioni del spaventoso flagello... Lessi in Napoli in una cronistoria manoscritta, che sin dal quel tempo, caddero tutti i templi di Cosentia (Cosenza), Menechine (Mendicino), Besidiae (Bisignano), Mamerto (Oppido Mamertino), Acrae (Acri), e che dai cristiani tali tremuoti si attribuissero a i divini voleri che per essi desideravano volere abbattuti, i templi dell'idolatria, correa l'anno 79 dell'era volgare » |
Tito Livio, Orazio e nel Medioevo lo storico Procopio la citano come "Fortezza da Guerra" e "Presidio". Procopio scrive:
« avendo preso un certo presidio presso i Lucani....che gli abitanti chiamano Acerenza o Acheruntha, vi pose un presidio di 300 uomini... » |
lo storico ci dice inoltre che il presidio era comandato dal capitano Morra, e che lo stesso presidio passò poi all'Imperatore Giustiniano. Nel 542 abbiamo le notizie della strenua resistenza che la città di Acri oppose ai Ostrogoti, guidati da Totila, che riuscì infine a prendere la città per la fame e la sete, e la saccheggiò, distruggendone gran parte, e perpetrando orribili violenze. Così scrive lo storico Procopio (500-565 d.C.) designando la posizione di Aciria o Acheruntia:
« Totilas cum apud Lucanos quoddam praesidium coepisset, et id munitissimun, in Calabriae fines proxime situm quod quidam Acerunta incola vocant, in eo imposuit custodiam ecc. virorum » |
Infatti Procopio così descriveva le condizioni disastrose in cui versava l'Italia nel 551 nel" De Bello Gotico":<< città distrutte,popolazioni decimate ed affamate,campi devastati e sterili,miseria spaventosa e falcidia di uomini e bestie,per carestie e pestilenze..>>
Viene di nuovo citata nei documenti della divisione dei Gastaldati dei principati di Benevento e nei pricipati di Salerno e nel trattato di divisione e di pace fra Radelchiso e Siconulfo avvenuto nel 851, parte IX <<In parte vestra,quorum supra Siconulfo Principi,sint ista Gastaldata et loca integra cum omnibus habitatoribus suls: Tarantum,Latiniamun,Cassanum,Cusentia,Lainus,Lucania,Consia,Montella,Rota,Salernum,Sarnum,Cimiterium,Furculum,Capua,Teanus,Sora et medius Gastaldatus Acerentinus,qua parte coniunctus est cum Latiniano et Consia..>> (Camillo Pellegrino annotazione da F.M:Pratillo,volume III. pagina 214 anno 1751)
[modifica] Acri in epoca medievale e moderna
Nella prima metà del 650 e alla fine del 670, per sfuggire ad un intensa epidemia di malaria, gli abitanti ancora rimasti nella vicina Thurii si riversarono ad Acri. L'incremento demografico comportò un netto miglioramento delle attività produttive e fu un periodo di generale benessere.
[modifica] Dai Longobardi ai normanni
Con l'arrivo dei longobardi nella val di Crati, Acri divenne subito un loro Gastaldato, di notevole importanza economica, questo almeno fino al 896, quando venne occupata dai Bizantini prima e poi dai Saraceni; liberata, si documentano altre tre incursioni saracene nel 945, nel 1009 e nel 1200. Nel primo periodo dell'arrivo dei Normanni, guidati da Roberto il Guiscardo, che aveva scelto come sua base San Marco Argentano, Acri e la città di Bisignano, le due città più forti in val di Crati furono ripetutamente attaccate e poi saccheggiate, come la maggior parte delle città e comuni del cosentino; alla fine della guerra il Guiscardo, per mantenere e consolidare il potere, elargì ai nobili larghi privilegi. E nell'anno 1074-1075 concesse al conte Simone Cofone di Acri, conte di Acri e di Pàdia[10], larghe estensioni di territorio della Sila nella vicina Luzzi, all'epoca in parte antica possessione dei monaci cistercensi del monastero detto dei Menna, e in parte del conte Cofone.
Nel 1084-1086 il conflitto di interessi sfociò in una guerra sanguinosa, cui presero parte anche il duca di Rossano Calabro e il conte di Bisignano, uniti a spalleggiare gli acresi, contro l'abbate di Montecassino inviato dal papa a supporto dell'abbate Ugolino. La tregua, che prevedeva che il conte di Acri conservasse il possesso delle terre, ma con l'obbligo di versare un tributo ai monaci, risultò una chimera. Si susseguirono altre dispute ed il convento fu assaltato ed anche quelli limitrofi, e continuò in maniera così cruenta, che il papa Urbano II scomunicò tutti i partecipanti, e la magistratura normanna condannò a cinque anni di carcere e al versamento di cinquemila libbre d'oro e d'argento agli avversari dei monaci, i quali riebbero le terre (ad onor del vero le terre appartenevano veramente al conte della città di Acri, e furono donate ai frati, con la somma per realizzare un romitoio adiacente al convento dai fratelli Urso Polite di Acri, fattisi frati in quel cenobio, e avendo donato parte del loro patrimonio alla chiesa, ma senza regio assenso dei regnanti del tempo i quali ne rivendicavano il diritto).
Intanto in quel periodo continuava il lento ma progressivo lavoro di latinizzazione voluto dai normanni, ma in un ambiente fortemente legato al culto bizantino, infatti è da ricordare che San Nilo da Rossano tra il 982 e il 987 fondò nel territorio di Acri il monastero dei Santi Adriano, Natalia e Demetrio, il più consistente centro dei Basiliani in Calabria. Nei pressi del monastero sorsero i quartieri Picitti, Schifo e Poggio, assorbiti poi in processo di tempo dal casale albanese di San Demetrio Corone. Presso il colle Sant'Angelo in Acri antico (Sant'Antonio Abbate) sorsero Garlatia, oggi scomparso, che presumibilmente doveva trovarsi presso l'attuale fiume Galatrella, nelle terre di giurisdizione del Patire Rossano Calabro, e San Giorgio Martire, che fu poi abbandonato (forse per l'editto per l'espulsione degli Ebrei) e appresso fu rioccupato dai profughi Albanesi verso la fine del 1400[11]. Pure l'ordine monastico dei Cistercensi svolse un ruolo importante nella vita spiritule del tempo nel territorio di Acri, realizzarono il monastero detto della SS.Trinità de Lignos Crucis, così denominato perché possedevano un piccolissimo frammento della Croce di Cristo, custodito in un'apposita teca. Questo monastero fu costruito tra il 1053 e il 1085 e ospitò l'Abbate Gioacchino da Fiore, che lo descrisse ampiamente nelle sue memorie, e fu distrutto durante l'ultima incursione dei saraceni nel territorio intorno al 1210-1220. Il monastero fu importante insieme ad altri per lo sviluppo della coltura del baco da seta e in diverse altre attività artiginali, come per esempio la conceria delle pelli.
Tra il X e il XII secolo vengono censite e costruite nel territorio della città di Acri molte chiese e conventi; così come descritto in Storia della Calabria (D. Ficarra), tra il 1054 e il 1100 sorsero in Acri l'abbazia cirtecense ed il monastero insieme a quello di Corazzo, della Sambucina in Luzzi, e di Nicotera. E dall'instrumento diocesano del Vescovo Ruffino da Bisignano perviene l'elenco di chiese e conventi già esestenti in data 1200:
« In Castro de Acri et tienimento suo, San Nicola de Carlatta, San Domenica, Santo Nicola di Domna Milania, San Giorgio, Santa Croce, San Nicola quod est ante Castillum, Santo Antonio Abbate, Santa Mariae Annunciata, San Nicola delle Serre, San Pietrus, Santae Mariae de Padiae, Santa Venere, San Nicola de Fierula, in terra de Acri e tienimento suo il Monasterio de Santo Adriano, in castro de Acri i monasterii San Zaccaria, santa Mariae Maddalena, Santa Mariae de Lignos Crucis, de ospitali cum casalinis in casale dicta Santa Venerii » |
Durante il regno di Re Manfredi,in Calabria,si acuisce la lotta tra i diversi Ordini religiosi,lotta che in origine era nei paesi cattolici dell'Europa,ma che in Itala assume un carettere politico,mettento in luce i contrasti e i dissidii fra papato ed impero. Fra le diverse fazioni politiche,tra guelfi e ghibellini e sopratutto in alcuni conventi di rito bizantino in decadenza,erano divenuti da tempo ritrovi e rifugio di agitatori e mistificatori. Papa Alessandro IV informato di ciò che stava avvenendo per evitare pericolose eresie scismatiche,istituì un collegio di inquisitori,che inviò in Europa ed in Italia. In Calabria investì di pieni poteri i vescovi latini di Cosenza,Bisignano,San Marco e Cassano,affinchè indagassero su alcuni monasteri Basiliani quali: (Il monastero Il Patire di Rossano,il monastero di San Adriano di Acri,il Monastero di S.Maria di Matina detto della Maddalena di Acri e San Pietro dei Greci, inclusi anche alcuni monasteri latini come la Sambucina di Luzzi e di San Benedetto) che dipendevano dalla Diocesi di Bisignano. Il processo contro i monaci accusati di misfatti contro la morale,fu presieduto dal vescovo francescano di Bisignano,Ranuccio dei Frati Minori, tutto fa pensare che fece primeggiare il suo ordine e nella condanna di eresie degli altri...,ma per fortuna il canonico Leone da Rossano,in veste di giudice dello stesso tribunale,difendendo la causa di alcuni malcapitati,caduti nell'errore,sopratutto per l'abbandono in cui in cui erano stati lasciati,in quei momenti difficili e tristi,riuscì a convincere l'uditorio a salvare molti dalla sicura condanna a morte..mentre per alcuni conventi rimasti sperduti tra i monti,che che nulla ormai avevano di sacro,furono chiusi ed interdetti.da (Pirro,Sic.sac., Archivio nazionale di Napoli,reparto angioino,Regia Sicilae,facicolo 46,foglio 104-105).
[modifica] Il terremoto del 1185
Un indizio su quello che la città e il suo territorio potevano essere in passato, si legge attraverso gli scritti dello storico R. Curia in Storia di Bisignano, che descrive il terremoto avvenuto nella diocesi di Bisignano, e cita che sotto il governo di Guglielmo II tra il 1184 e il 1186 la Calabria fu scossa da terribili terremoti e diversi centri della presila furono danneggiati o completamente distrutti, e che nel 1185 Acri fu quasi completamente distrutta dal terremoto. A ciò si aggiunse la devastazione fatta dalla fame e dal colera a seguito di una lunga siccità, che aggravò la situazione dei superstiti. Solo dopo parecchi mesi di lavoro, a causa soprattutto delle frane, si riuscì ad aprire una via di comunicazione per poter portare dei carriaggi e raggiungere le zone più isolate del territorio. Altri terremoti documentati furono quelli del 908; 10 dicembre 968; 990; 24 maggio 1184; 24 ottobre 1186; 27 marzo 1638; 1712; 1738; 14 luglio 1767; 5 febbraio 1783; 1787; 10 dicembre 1824; 8 marzo 1832; 12 ottobre 1835; 24 aprile 1836[12].
[modifica] La peste nel territorio
Oltre al colera del 1184-1186, si sa per certo che la Calabria e soprattutto il cosentino fu preda di varie epidemie che più che dimezzarono la popolazione allora esistente. È documentata la peste del 1348, le successive del 1422, 1528, 1575, 1656, 1638, 1738 e per ultima la Spagnola avvenuta nei primi del secolo, che secondo il censimento costò la vita a circa un migliaio di cittadini[13].
[modifica] Acri e Bisignano nel 1300
I Sangineto e i Sanseverino pretendevano la restituzione dei territori aquisiti dalla Diocesi di Bisignano, secondo loro usurpati dai vescovi e dagli abati, e tra queste terre e questi feudi erano sopratutto in discussione alcuni feudi di Corigliano, il casale di Roggiano, terre e Castelli di Rossano, terre e Castelli di Acri e di Luzzi, incamerati dalla chiese e dai monasteri di quelle località e sotto giurisdizione perciò del Vescovo di Bisignano Federico Pappatelli, a cui veniva imposto il divieto di considerarli feudi della Chiesa, poiché per i precedenti disposti da Carlo I d'Angiò i menzionati territori e i relativi castelli già da tempo erano inclusi e ricadevano nella sfera di competenza e di pertinenza del baronato laico istituito ed organizzato dallo stesso sovrano. L'ostinato rifiuto del vescovo a non cedere le terre e non volere rinuciare ai presunti diritti feudali scatenò la vendetta del potentissimo barone. I tumulti, le rappresaglie e gli scontri violenti e sanguinosi tra i vari pretendenti erano continui, il più significativo e drammatico fu quello del 1339. Il potente Barone Ruggero II Sangineto, approfittando del marasma che affliggeva Bisignano, potè portare a termine il suo disegno: da Corigliano un gruppo di armati a cavallo raggiunse Acri, e trascinando a sé popolani affamati e bisognosi e desiderosi di saccheggi e bottino, si diressero a Bisignano. Ruggero Sangineto era forte della benevolenza di Re Roberto verso la sua casata e sopratutto del fatto che era figlio del Gran Giustiziere del Regno, Filippo I di Sangineto, che lo rendeva il personaggio di maggiore prestigio del baronato del Meridione. Il 28 giugno del 1339, vigilia della festa di San Pietro e Paolo, penetrati in città di Bisignano, si diressero verso il palazzo del Vescovo, e sgominate le guardie e bloccate le uscite penetrarono all'interno e trafissero le guardie personali del Vescovo e i familiari e tutti coloro che difendevano il vescovo; in quel giorno morirono circa 20 persone tra familiari, diaconi e guardie. Poi il vescovo agonizzante fu impietosamente trascinato legato alla coda del cavallo del Sangineto, e con altri condannati furono portati in luogo detto Scannaturu, che doveva trovarsi dietro l'attuale chiesa di san Domenico; lo sciagurato vescovo ormai esanime fu condannato alla decapitazione, subito eseguita, come per tutti gli altri condannati che subirono la stessa sorte. Benedetto XII, con una bolla pontificia del 10 giugno 1340 dalla sede di Avignone, per punire le Chiese di Bisignano nell'ambito delle loro attribuzioni e prerogrative, voleva scioglierne il capitolo delle famiglie più ricche e facoltose che non si ribellarono per impedire il massacro. Però poco dopo anche la stessa interdizione pontificia passò con l'intervento di vescovi laici, per evitare altri problemi in cui già navigava la chiesa di Pietro. Il Pagano riporta parte di questa bolla che inizia: "Bulla horrendum scelus, Avignone 10 Kal. A.D.MCCCXL"[14].
[modifica] Federico II, gli angioini e gli aragonesi
Durante il regno di Federico II la città godette di un periodo di relativa tranquillità e di notevole prosperità economica, divenne un centro importante nel commercio della seta, fino all'arrivo degli Angioini e poi degli Aragonesi, che con i loro pesanti tributi inbebolirono notevolmento l'economia della città. Nel 1462 il duca di San Marco Argentano, Luca Sanseverino, acquistò dal fisco, per concessione di re Ferrante I d'Aragona, la città di Acri e di Bisignano, per la cifra di 20.000 ducati d'oro e d'argento. Nello stesso anno la città di Acri, rimasta fedele agli Angioini subì un terribile assedio da parte delle truppe Aragonesi, che non riuscendo a conquistare la città, usarono un traditore, un certo Milano, che indicò alle truppe nemiche i segnali delle guardie degli avamposti, e che all'ora convenuta a notte fonda aprì le porte della città. Gli aragonesi con inaudita ferocia attaccarono la città, sapendo che in Acri si trovava nascosto il viceré Grimaldi, e perpetrarono terribili violenze; lo storico Capalbo, che a sua volta riportò le notizie del Pagano, descrive la strenua battaglia all'interno delle mura, e il disperato tentativo da parte di ogni cittadino valido di salvare donne e bambini, che vennero fatti rifugiare nella parte più alta di Padia, nella chiesa matrice di Santa Maria Maggiore (che allora si chiamava Santa Maria de Pandia). Ma la crudeltà dell'esercito inferocito non risparmiò neppure la chiesa, che fu arsa insieme a donne e bambini, e l'eroico comandante delle guardie della città Nicolò Clancioffo, nella piazzetta del castello, fu segato vivo per i lombi, ed il suo corpo diviso in quattro pezzi fu esposto sulle quattro torri del castello. Da un documento del notaio Marsilio Aliprandi del 1479-80 è dichirato che molte proprietà nei quartieri Parrieti, Padia, Picitti e Castello, furono vendute come orti, perché le case erano bruciate, ormai in rovina, e non vi erano abbastanza uomini per ricostruire i detti quartieri; non abbiamo attualmente notizie complete del 1462, ma si suppone che in quella guerra la città perse più di duemila abitanti, comprese parte delle armate che seguivano il viceré Grimaldi, che insieme a pochi dei suoi riuscì a salvarsi dalle segrete del Castello di Acri per poi rifugiarsi nella vicina Longobucco.
Alla discesa di Carlo VIII la città di Acri si schierò con il re Federico d'Aragona, e la sua fedeldà agli aragonesi costò alla città un altro assedio e il saccheggio della città dalla parte dei francesi, nel 1496-97, e la distruzione quasi completa del castello, e i capi popolo i nobili Placido e Sebastiano della potente famiglia Salvidio furono uccisi e fatti a pezzi e i loro corpi buttati nel letame[15].
[modifica] L'espulsione degli ebrei
Nel 1511 per decreto di re Ferdinando di Castiglia vennero espulsi gli ebrei, figure importanti dell'economia della città, che abitavano l'antico ghetto (Judeica); l'economia locale peggiorò notevolmente. Il luogo dove si trovava il ghetto ancora oggi viene chiamato Judeica, situato presso il fiume Chalamo, al di fuori della cinta fortificata; la presenza del ghetto in Acri è documentata prima dell'anno mille.
[modifica] L'evoluzione demografica in epoca moderna
L'evoluzione demografica della città di Acri è in parte documentata dai registri delle imposte regie. Nel 1561 vengono iscritti 1175 fuochi (famiglie) e nel 1595 si arriva a 1453[16]. Nel 1615, dal cartografo Mario Cartaro, abbiamo una descrizione assai più completa del territorio della città di Acri e delle sue frazioni: Acri 1910 fuochi, i casali di Acri: San Demetrio 266 fuochi, Santa Sofia 187, San Giorgio M. 40, Baccarizzo di Acri 133, Macchia d'Orto 52, San Cosmo 46, per un totale di 2843 fuochi. Nello stesso periodo Cosenza, il capoluogo, contava 2503 fuochi, e Bisignano 1239 fuochi. Dalla Platea del Vescovo Lorenzo Varano (1792-1809), Bisignano sede diocesana, risulta: Santa Maria delle Grazie, con anime 540; San Pietro, 500; San Giovanni, 660; San Tommaso, 180; San Andrea, 150; San Nicola, 190; San Bartolomeo, 71; Santo Stefano, 1100; per un totale di 4000 anime. Acri: Santa Maria Maggiore, con 3.363 anime; Arcipretura (San Nicola de Myra) 2500; San Nicola da Belvedere, 2000; San Pietro, 535; Santa Chiara, 2100; San Giorgio Martire, 500; San Giacomo, 800; San Domenico ?; per un totale 11.798 anime[17]. Acri nel 1894 ab.13.306 [18]; Acri nel 1902 ab. 16000[19]. Nel 1798 Acri contava 9969 abitanti; Corigliano Calabro 8486;Cosenza 9210;Castelfranco 829;Luzzi 3000;Mendicino 2900; Rossano Calabro 7310; da Giuseppe Maria Alfano "Descrizione Istorica del Regno di Napoli", Napoli 1798.
[modifica] Il Brigantaggio in Acri
[modifica] L'incursione della banda Jaccapitta
Nel 1806 Acri dovette subire l'incursione di una selvaggia orda di briganti che, intenzionati a dirigersi verso la vicina Bisignano, si fermarono in città. Si trattava di un gruppo forte di ben tremila uomini che, al seguito di Jacapitta, erano discesi con l'intenzione di distruggere la città di Bisignano, provenendo perlopiù dalle selve cosentine e dai casali intorno Cosenza. Depredata Acri, e macchiatisi di di terribili atti di crudeltà, si diressero verso la loro meta. Ma giunti nei pressi di S.Domenico di Bisignano, si ritrovarono fra due fuochi: le forze del Bagnanich e quelle del Benincasa, appoggiate da tutta la popolazione, comprese alcune donne spinte dall'esempio di donna Rachele Benincasa che si schierò al fianco del fratrello Giuseppe. Si ritirarono così verso i monti acresi. Il Misasi così descrisse nel Giornale d'Italia il 3 ottobre 1909: «Così la nobile città di Bisignano si coprì di gloria, così come quando scese nei piedi del Crati ed arrestare col suo valore la furia dell'esercito dei Saraceni», rifacendosi a una sollevazione in armi (secoli X-XI) dei bisignanensi e degli acresi grazie ai cui eserciti - scrive sempre il Misasi - «i quali si sollevarono in armi contro i Saraceni, facendo argine alla loro invasione, questi non avrebbero proceduto oltre alla conquista dell'Italia!». Gli esuli acresi Vincenzo Astorino, Luigi Sprovieri, Filiberto Parvolo, che con le loro famiglie avevano trovato riparo ed ospitalità in Bisignano, sotto la scorta armata del distaccamento di Bisignano, partirono alla volta di Cosenza per informare le autorità dei luttuosi eventi nella loro disgraziata terra. Il 30 agosto parti il generale Verdier al comando di un distaccamento di 1500 uomini, a cui si affiancò la guarnigione di Bisignano. Il generale Verdier decretò l'assedio e la distruzione della città, il cannoneggiamento iniziò dal monte di Serravuda, verso Padia ma la catastrofe fu scongiurata grazie al provvidenziale intervento del comandante Giacomo Berligieri e di altri acresi che, al seguito del Verdier, militavano nelle armate napoleoniche. Alcuni briganti, confusi nella enorme folla degli acresi, furono individuati, catturati e giustiziati per impiccagione dal Generale Verdier nella piazza antistante la chiesa di San Domenico in Acri. I briganti Tommaso Padula, Domenico Ofrias e Jaccapitta nascostisi nelle campagne di circostanti, furono scovati e giustiziati dalla compagnia di Bisignano, nel luogo chiamato "largo dell'olmo". Il Padula e l'Ofrias furono squartati e spaccati a metà, quindi caricati su due asini e portati ad Acri e portati i lombi dove i briganti avevano saccheggiato e barbaramente ucciso molti cittadini. Ad Acri, in catene, fece il suo ingresso Jacapitta, il feroce brutale e sanguinario brigante che aveva crudelmente infierito contro i corpi martoriati delle vittime di Acri, macchiandosi perfino di efferati atti di cannibalismo... Legato e trascinato nella piazza,(oggi piazza Monumento, Gianbattista Falcone) fu posto in mezzo a quattro roghi. Il Jaccapitta, imprecando e bestemmiando, saltava dall'uno all'altro rogo, tentando di sottrarsi al supplizio, mentre gli astanti lo colpivano alle gambe con delle scoppiettate. Stremato, alla fine, con un grido selvaggio s'accasciò tra le fiamme che lo ridussero in cenere. (Capalbo. Memorie Storiche di Acri - Rosario Curia, Bisignano).
[modifica] La banda di Re Coremme
Nell'agosto dello stesso anno, scendendo dalle montagne di Acri, tentò di impossessarsi di Bisignano il capo brigante Antonio Santoro detto Re Coremme. Era un contadino analfabeta, ma scaltro ed estremamente coraggioso. Cessata la resistenza borbonica in Calabria, aveva organizzato una formidabile banda con la quale intendeva continuare, a modo suo, la guerra ai francesi, in nome del re legittimo Ferdinando di Borbone che da Palermo lo aveva nominato tenente colonnello. Il Santoro, come primo atto della campagna militare, occupo Longobucco, il suo paese natale, e ne fece la sua roccaforte, autoproclamandosi Re Coremme. Assaltata Acri durante la notte e piegati gli amministratori alla sua volontà, si mosse da questa nuova base per seminare morte e terrore e sbaragliare i suoi nemici "i rivoluzionari antiborbonici", fiancheggiatori dei francesi. Per conquistarsi lo sbocco al mare, progettò la presa di Rossano e Corigliano, all'epoca, insieme ad Acri, le città più popolose del cosentino. Nel suo tentativo fu colto di sorpresa dalle truppe del generale Verdier che riuscirono a disperderne la banda. Il Santoro, ormai in precipitosa fuga, perduto ogni contatto col grosso dei suoi uomini, si imbatté, nei pressi di Pagliaspito, dalla squadra civica di Santa Sofia d'Epiro comandata da Giorgio Ferriolo. Era il 13 agosto 1806 e Santoro fu catturato, insieme al suo piccolo stato maggiore, composto dal fratello e da alcuni uomini fidati. Rinchiuso in una celletta isolata, il Santoro riuscì ad evadere, raggiungendo nottetempo Acri. Intanto, quello stesso giorno, il fratello ed altri quattro briganti, rimasti in carcere, evitare altre evasioni, furono condotti sotto buona scorta a Bisignano dove furono giustiziati. La notizia dell'esecuzione scatenò la rabbia estrema del Santoro che si decise ad infliggere la sua feroce vendetta ai paesi di Santa Sofia D'Epiro e Bisignano. Riorganizzata la sua banda, il 18 agosto si risolse a marciare su Santa Sofia, seminando morte e distruzione. Vittima illustre del suo sterminio fu il Vescovo Francesco Bugliari rettore del collegio Italo-Albanese.
[modifica] Note
- ^ L'identificazione del sito fu dovuta ad una segnalazione dell'Archeoclub d'Italia. Dal verbale di consegna, prot. n° 2 modulo 3, si legge: «In data 14/06/02 La sottoscritta (...), I° Assistente Tecnico Scientifico presso L'ufficio Scavi di Sibari della Sovrintendenza per i Beni Archeologici della Calabria, prende in consegna dal Sig. (...), presidente dell'Archeoclub d'Italia, e residente in Acri (Cs), n° 1 scatola di cartone contenente svariati reperti archeologici ed alcune monete, recuperati sul sito Policaretto in Acri (Cs), durante ricognizioni sul territorio.»
- ^ La frazione Policaretto, nel medioevo veniva chiamata Policastrio, come è dichiarato nel documento delle "Capitolazioni" dell'antico casale di Acri di San Demetrio redatto il 3 novembre 1471 da Paolo Greco da Terranova, Archimandrita del convento di San Adriano, che annota i testimoni della confraternita (tra cui i monaci Iacopo de Pulicastrio de Acrio, Basilio, Nicodemo, Attanasio da Montealto e Andrea), a cui gli albanesi chiedevano di essere accolti nelle terre del monastero. Se ne riporta uno stralcio tratto da Emanuele Giordano e D. Cassiano, Note per una storia delle popolazioni albanesi nel feudo di San Adriano, 2001, Eianina, Cosenza: "(...) Ipsi Albanenses, una voce et pari voto asseruerunt, quod propter sinistram et infelicem victoriam Turcorum expoliati ex exule sunt a patriles mansionibus, gratles et aequitanibus necessaries in eurum vita ipsa amplectari et caros haberi", vengono accolti come vassalli ne a titolo di vassallagio, ma sotto titolo di tutela paterna a "Dimitri de Malasca, Petrus Brescia, Theodorus Lopes, et nonnulli Albanenses".
- ^ Saggi di scavo del luglio 2002
- ^ Moneta dell'imperatore Leone VI di Bisanzio detto il saggio 886-912 d.C., rinvenuta nel fiume Chàlamo nel 1995)
- ^ da Francesco Pitaro
- ^ Giuseppe Gioia 1883
- ^ Pier Giovanni Guzzo, 1990
- ^ Pier Giovanni Guzzo, 1990
- ^ da Pier Giovanni Guzzo
- ^ Il popoloso rione di Pàdia viene documentato nel varie Platee della Diocesi di Cosenza-Bisignano "inventario del Vescovo Ruffino da Bisignano del 1269, Registro Diocesano n°5081 e n°5090 "Ecclesia Sactae Mariae de Pandia" nel documento del De Leo viene confusa con la Chiesa SS.ma. Annunciata e ricordata come chiesa censuale, nel registro Diocesano del 1271 e che apparteneva come giurisdizione al vescovo di Bisignano, per diritti feudali, dallo stesso Carlo d'Angiò, la Decima su alcuni castelli ed università, compresa la stessa Bisignano "Episcopo bisiniani provisio pro decimis bujuliationis Bisiniani"(Reg.1277) "Pro decimis bujuliationis castrorum Acrii, Nucis et Castellionios"(reg.1277) "Et pro decimis Lutii"(Reg.1279), e nella successiva Platea del 1324 del D.Vendola viene censita nelle chiese (Rationes Decimarum) e chiamata "Sanctae Mariae dictae terrae (scl. Acrii) "Maior ecclesiae, quam tenet D.Scipio De Bernaudo, D. Hyeronimus Pertinimus, e Jacobus Grecus" citata fra le 14 chiese censite e poi documentata nella Platea cinquecentesca e così descritta: "ecclesiae Sanctae Mariae de Pàdia quam tenet D. Franciscus Casalibus de civitate Bisiniani"(c.62v.). Dal De Leo "Un Feudo Vescovile nel Mezzogiorno Svevo", p.48, Platea del 1324, da D.Vendola "Rationes decimarum italiae" nei secoli XIII e XV, Apulia, Lucania, Calabria, studii e testi 197, Città del Vaticano 1939 n°5081.
- ^ Francesco Capalbo
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- ^ da Rosario Curia, Storia di Bisignano; O. Dito, La storia e le dimore degli Ebrei in Calabria
- ^ . Nel XIII secolo,Carlo I d'Angio riconfermo la Platea della Diocesi di Bisignano che il colto e saggio vescovo ruffino(1264-1269) aveva stesa,dopo la restituzione dei beni e dei feudi effettuata dal d'Angiò,comprentende anche i rioni di Cucumazzo,San Tommaso e Umale in Bisignano,con la giurisdizione feudale e baronale sugli abitanti di questi quartieri che divennero sudditi della corte vescovile.similmente fu fatto per i Casali di San Lorenzo di Acri,di S. Benedetto Ullulano,Mosto(Santa Sofia), Appio(San Demetrio),Pedalato,Sellattano e Pietramala.A questi si aggiungevano le terre si aggiungevano il Castello di Acri,con i Casali di Macchia,Pietramorella,di Duglia,San Giacomo d'Acri,San Lorenzo,San Benedetto di Acri,San Nicola del Campo(san Nicola da belvedere);il Castello della Noce(Luzzi e Acri),con i Casali di Noce Maggiore e Minore;il Castello di Luzzi con il Casale di San Elia ed il Monastero della Sambucina;ed il Castello di Rose...(Rosario Curia ) F.Grillo, sulla successione della Contea di Corigliano, registri cancelleria di Carlo III di Durazzo, napoli 1887; reg.Angioino, 5.F. 107.
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