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Hijab - Wikipedia

Hijab

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Una Tunisina con il suo hijāb
Una Tunisina con il suo hijāb

Il termine hijab (arabo حِجَاب, ḥijâb) deriva dalla radice h-j-b, «nascondere allo sguardo, celare», e indica «qualsiasi velo posto davanti a un essere o a un oggetto per sottrarlo alla vista o isolarlo». Acquista quindi parimenti il senso di «tenda», «cortina», «schermo». Il campo semantico corrispondente a questa parola è dunque più ampio dell'equivalente italiano «velo», che serve per proteggere o per nascondere, ma che non separa.

Indice

[modifica] Storia

Ciò che in Occidente viene chiamato "velo" e che si insiste erroneamente ad attribuire all'Islam esiste ben prima di esso. Una legge del XII secolo a.C. nella Mesopotamia assira sotto il regno del sovrano Tiglat-Pilesar I (1115 a.C. — 1077 a.C.) rendeva di già obbligatorio portare il velo all'esterno a ogni donna sposata. Esso appariva anche nel mondo greco, tant'è vero che Elena, moglie di Menelao, si velava per uscire.

Nel mondo greco la condizione della donna prese a deteriorarsi ed ella subisce la sua disfatta storica col "secolo d'oro" di Pericle. Solo le prostitute avevano all'epoca diritto all'educazione, mentre la donna "onesta" si vela per uscire. Questa situazione si riscontra in tutto il Mediterraneo .

Nella Penisola araba preislamica la situazione della donna è notevolmente contraddittoria. Non pare vi fossero forme istituzionalizzate in forza delle quali esse potessero reclamare precisi diritti, eppure troviamo donne imprenditrici e notevolmente attive in campo politico (in un remoto passato si parlava non episodicamente di "regine degli Arabi"). Le bambine potevano essere sotterrate vive ma le donne godevano nondimeno di vari privilegi in campo coniugale (poliandria mirante alla procreazione di fanciulli sani in caso d'incapacità maritale e possibilità di ripudio del marito).

A ridosso dell'Islam alcuni di questi istituti non risultano essere stati più validi: segno probabile di una rivalsa virile a discapito del ruolo muliebre ed è probabile che l'uso del velo, in questo periodo, fosse comunque abbastanza diffuso, sia pur non generalizzato.

Esso si generalizza con l'Islam, come simbolo d'una dignità muliebre ritrovata, dal momento che la donna - con tutti i distinguo che non è però storicamente serio giudicare col metro etico odierno - diventa soggetto di precisi e garantiti diritti (alla dote, ad esempio, obbligatoriamente versata dall'uomo a tutela dell'eventuale morte del marito, ovvero del suo stesso ripudio, come pure all'eredità, per quanto normalmente indicata nella metà della quota-parte riservata al maschio avente pari titolo parentale). La religione chiede alle donne che si convertono di velarsi per essere distinte dalle donne di condizione servile.

[modifica] Il ḥijāb nel Corano

I musulmani che sostengono l'obbligatorietà di portare il velo, si richiamano a due passaggi coranici. Il primo è quello di Cor., XXXIII:59

« O Profeta! Dì alle tue spose e alle tue figlie e alle donne dei credenti che si ricoprano dei loro mantelli (jalābīb); questo sarà più atto a distinguerle dalle altre e a che non vengano offese. Ma Dio è indulgente clemente! »

e Cor., XXIV:31

« E dì alle credenti che abbassino gli sguardi (yajḍuḍna min abṣārihinna) e coprano le loro pudenda (wa-yaḥfaẓna furūjahunna) e non mostrino troppo le loro parti belle (wa-lā yubḍīna zīnatahunna) eccetto ciò che di fuori appare (illā mā ẓahara minha) e pongano un velo sui loro seni (wa-li-aḍribna bi-khumurihinna ʿalà juyūbihinna) »

Sul primo passaggio si potrebbe dire che quanto scritto nel Corano è nient'altro che un'esortazione alla pudicizia. Una forte esortazione (ma non un obbligo sanzionabile dalla sharīʿa) e che comunque non si tratterebbe d'un velare il volto femminile ma di indossare una "ampia [non attillata] veste" o, meglio, un "mantello" ( jilbāb, pl. jalābīb). Di non trascurabile importanza è inoltre il fatto che l'indossare un mantello per distinguersi "dalle altre" non comporta alcuna condanna verso queste ultime che, ad ogni evidenza, potevano quindi del tutto legittimamente non coprirsi.

Quanto al secondo e più specifico passaggio, il testo sacro islamico afferma con precisione la necessità - oltre che della pudicizia dei comportamenti gestuali - di coprire gli organi della sessualità primaria ( farj, pl. furūj, ossia "vagina") e secondaria ( jayb, pl. juyūb, ossia "seno") con i khumur (sing. khimār), che erano veli atti non già a coprire il volto quanto il busto. Cosa per nulla strana, visto che in età preislamica, per attirare l'attenzione dei potenziali clienti, le prostitute usavano ostentare il loro seno nudo. Secondo l'esegeta Ṭabarī, vissuto nel IX secolo, quel passaggio raccomanda alle donne di «nascondere i loro capelli, il loro collo e i loro orecchini».
(arabo: وليلقين خمرهن , وهي جمع خمار , على جيوبهن , ليسترن بذلك شعورهن وأعناقهن وقرطهن.

La parola ḥijāb è usata sette volte nel Corano ma in nessun caso fa riferimento a un capo d'abbigliamento femminile, per ognuno dei quali è utilizzato un vocabolo specifico.

Per contro, la parola ḥijāb ha il senso di «cortina, tenda» per indicare l'isolamento delle mogli di Muhammad:

« E quando domandate un oggetto alle sue spose, domandatelo restando dietro una tenda [ḥijāb]: questo servirà meglio alla purità dei vostri e dei loro cuori.
sura XXXIII, 53;) »

Questa separazione, inizialmente riservata alle mogli del profeta Muhammad, in seguito sarebbe stata estesa alle donne musulmane libere.

Tuttavia, è importante precisare che l'uso del velo non è pratica esclusivamente e specificatamente musulmana, ma semmai araba e anteriore all'Islam, essendo diffuso anche in varie altre culture e religioni, come quella cristiana orientale e bizantina. Il suo scopo principale è quello di segnalare le differenze sociali, indica ciò che deve essere rispettato, ciò che è sacro.

Il testo sacro islamico invita quindi le donne (che secondo le abitudini beduine portavano vesti legate e svolazzanti), ad abbassare le loro ampie vesti sui loro petti e a non svelarsi se non davanti ai parenti e a non avere comportamenti provocatori - cosa valida anche per gli uomini - e questo perché il Corano mira innanzi tutto alla tranquillità sociale, invitando più alla buona educazione che al pudore con connotazioni sessuali, almeno quando si tratta di abbigliamento.

[modifica] Eliminazione del velo

Il hijāb portato da una donna di Dubaï.
Il hijāb portato da una donna di Dubaï.

In Egitto, si considera che la prima contestazione riguardante la pretesa obbligatorietà d'indossare un velo abbia avuto luogo verso la fine del XIX secolo : Qāsim Amīn, che apparteneva allora alla corrente di pensiero "modernista" (più correttamente, iṣlāḥī) che cercava d'interpretare l'Islam per renderlo compatibile con i processi di modernizzazione della società egiziana in particolare, si espresse a favore dell'evoluzione dello status della donna nella sua opera Taḥrīr al-marʾa (La liberazione della donna pubblicata nel 1899). Si dichiarò in particolare a favore dell'istruzione femminile, della riforma della procedura di divorzio (nel diritto islamico: talāq) e della fine dell'uso del velo e della segregazione muliebre. A quei tempi Qāsim Amīn si riferiva al velo facciale (burqu: velo di mussolina bianca che ricopre il naso e la bocca) che portano le donne di classe agiate urbane, fossero esse cristiane o musulmane. Il ḥijāb d'allora era effettivamente legato all'isolamento delle donne. Si considera generalmente che fu da quel momento che il ḥijāb cessò dall'essere il simbolo d'uno status sociale e di ricchezza per divenire simbolo di arretratezza e di posta in gioco sociale, politica e religiosa.

Nel 1923, Hōdā Shaʿrāwī, considerata come una delle prime femministe, ripudia il suo velo facciale tornando da un incontro femminista svoltosi a Roma, lanciando in tal modo, insieme a molte altre donne, un movimento di "svelamento" che sarà chiamato in arabo al-sufūr.

In Turchia e in Iran, l'abolizione del velo fu imposto all'inizio del XX secolo da Mustafa Kemal Atatürk e dallo Shah d'Iran, che videro l'adozione dell'abbigliamento occidentale come un segno di modernizzazione. In Tunisia, Habib Bourguiba vietò il velo nell'amministrazione pubblica e sconsigliò fortemente alle donne di portarlo in pubblico.

In Marocco all'avvento dell'indipendenza, il re Mohammed V, padre di Hassan II e nonno dell'attuale sovrano, chiese a sua figlia di togliersi il velo in pubblico, come simbolo della liberazione della donna. Tuttavia in presenza del re, i deputati donne si videro obbligati a coprire i capelli per rispetto della tradizione.

Nel corso degli ultimi anni della guerra d'Algeria, i francesi organizzarono cerimonie di "svelamento" collettivo, miranti a dimostrare l'opera civilizzatrice della Francia in Algeria, a favore dell'emancipazione delle donne algerine (si veda l'opera di Todd Shepard, La bataille du voile pendant la guerre d'Algérie, in Le foulard islamique en questions, sotto la direzione di Charlotte Nordmann, Parigi, éditions Amsterdam, 2004).

Negli anni Sessanta, portare il velo divenne un fenomeno estremamente minoritario nella maggior parte dei paesi arabi (con l'eccezione dei paesi che si rifacevano al pensiero del wahhabismo).

[modifica] Senso contemporaneo

Attualmente la maggior parte degli autori per renderlo equivalente a zay al-sharʿī o «vestito islamico». Esso indica, in prima battuta, l'abbigliamento che i fondamentalisti musulmani hanno preso adottano a partire dagli anni Settanta e che consiste in una tenuta lunga e ampia, (jilbāb), di colore sobrio e d'un velo, khimāra, del pari di colore sobrio, che ricopre interamente i capelli, il collo, le spalle e il petto, in modo tale che - conformemente alla pretesa legge islamica - non appaiano altro che le mani e il viso delle donne.

L'obbligo di velarsi è oggi controverso, ma generalmente dedotto da un insieme di versetti già esposti del Corano e di ḥadīth del profeta Muḥammad. Non si trova traccia d'una tale controversia nei testi degli ʿulamāʾ e degli esegeti ( mufassirūn ) antichi. Il soggetto del loro disaccordo era piuttosto quello di appurare se il velo fosse obbligatorio per coprire o meno il volto delle donne. L'obbligo di nascondere le altre parti del corpo (escluso il viso, le mani e i piedi per alcuni) è del pari riportato nei libri consacrati al tema del consenso ( ijmāʿ), come quello di Ibn Ḥazm (|XI secolo), i Marātib al-ijmāʿ (I gradi del consenso).

Ragazza irachena col velo
Ragazza irachena col velo

Il ḥijāb indica dunque una tenuta conforme alle pretese descrizioni coraniche e implica modestia e pietà, ma designa anche, e soprattutto, una nuova maniera di coprirsi la testa e si distingue da forme utilizzate tradizionalmente o in ambiente rurale. Per questo viene chiamato anche new veiling, il «nuovo velarsi».

A tutto ciò si potrebbero aggiungere considerazioni politico-ideologiche di contrasto ai modelli proposti da un Occidente globalizzante che, non senza motivi, è visto come cancellatore delle differenze e delle specificità identitarie, in modo tale che il ḥijāb non designa solo obbligatoriamente l'abbigliamento delle "fondamentaliste" musulmane, ma l'insieme dei nuovi usi di velarsi adottato, principalmente dalle classi medie nel corso degli anni Settanta e Ottanta del XX secolo, sulla falsariga dell'abolizione della cravatta in ambito iranico post-rivoluzionario.

[modifica] Galleria fotografica

[modifica] Note


[modifica] Voci correlate

[modifica] Collegamenti esterni

  • Velo a scuola in Belgio (in francese)
  • [1] Anne Collet, « Le voile islamique se déploie sur l'Europe », in Courrier international del 19/10/2006 (in francese)

[modifica] Bibliografia

  • Le citazioni del Corano sono prese dalla traduzione curata da Alessandro Bausani (Firenze, Sansoni, 1961 e succ. ried.);
  • Lemma «Hidjâb» (J. Chelhod), Encyclopédie de l'Islam, Leiden-Parigi, E.J. Brill-G.P. Maisonneuve & Larose, 1975, t. III, p 370.
  • Arlene Elowe Mac Leod, Accommodating Protest, New Veiling and Social Change in Cairo, 1992 (interpretazione del fenomeno del nuovo velarsi da parte della classe media urbana egiziana).
  • Leïla Djiti, Lettre à ma fille qui veut porter le voile, Parigi, La Martinière, 2004 ISBN 2-84675-136-6
  • Leïla Babès, Le voile démystifié, Parigi, Bayard, 2004.
  • Chahdortt Djavann, Bas les voiles!, Parigi, Gallimard, 2003.
  • Le foulard islamique en question (Parigi, Éditions Amsterdam, 2004), pubblicato sotto la direzione di Charlotte Nordmann, con i contributi di Etienne Balibar, Saïd Bouamama, Dounia Bouzar, Christine Delphy, Françoise Gaspard, Nilufer Göle, Nacira Guénif-Souilamas, Farhad Khosrokhavar, Emmanuel Terray e Pierre Tournemire.
  • Monica Lanfranco e Maria G. Di Rienzo (a cura di), Senza velo: donne nell’Islam contro l’integralismo, Intra moenia, Napoli 2005


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