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Inferno - Canto ventiquattresimo - Wikipedia

Inferno - Canto ventiquattresimo

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La bolgia dei ladri circondata da quella degli ipocriti, illustrazione di Alessandro Vellutello
La bolgia dei ladri circondata da quella degli ipocriti, illustrazione di Alessandro Vellutello

Il canto ventiquattresimo dell'Inferno di Dante Alighieri si svolge nella settima bolgia dell'ottavo cerchio, ove sono puniti i ladri; siamo nel mattino del 9 aprile 1300, o secondo altri commentatori del 26 marzo 1300 (Sabato Santo).

Indice

[modifica] Incipit

Canto XXIV, nel quale tratta de le pene che puniscono li furti, dove trattando de' ladroni sgrida contro a' Pistolesi sotto il vocabulo di Vanni Fucci, per la cui lingua antidice del tempo futuro; ed è la settima bolgia.

[modifica] Analisi del canto

[modifica] L'argine della settima bolgia - versi 1-63

Priamo della Quercia (XV secolo)
Priamo della Quercia (XV secolo)

Le prime cinque terzine di questo Canto sono tutte dedicate a una similitudine tra le più ampie del poema, che si ricollega direttamente al finale del canto precedente, dove Virgilio si è arrabbiato in silenzio per aver scoperto di essere stato beffato da un diavolo.

La similitudine inizia descrivendo il periodo dell'anno nel quale, secondo un linguaggio metaforico il giovane sole tempra i raggi sotto l'Acquario, cioè circa febbraio, quando la brina sulla terra fa immagine che somiglia la sua sorella bianca cioè la neve. Un pastorello (villanello) al quale manca la roba da mangiare alzandosi vede allora la campagna tutta coperta di bianco e si batte la mano sull'anca per la disperazione, lamentandosi e rientrando in casa, come un derelitto che non sa che fare, e poi però ritorna a rivedere e ritira fuori la speranza perché il mondo in quel frangente ha cambiato faccia; egli allora esce con le pecorelle a pascolare: così Dante si sentiva dopo che ha scoperto che il cruccio di Virgilio è già sparito e che è tornata sul suo viso la dolce espressione come quando egli lo incontrò nella "selva oscura" all'inizio del viaggio (in particolare, ai piedi del "dilettoso monte").

Inizia quindi la risalita della quinta bolgia, con Virgilio che indica a Dante le rocce dove mettere i piedi per la scalata, facendogli prima provare se esse reggono il suo passo. Non era certa una strada, dice Dante, da fare con un vestito di cappa, cioè da fare con vestiti scomodi (o forse si riferisce alle cappe degli ipocriti della bolgia appena lasciata?), che a mala pena ce la facevano a salire di roccia in roccia (di chiappa in chiappa), Virgilio lieve e Dante sospinto da lui, inoltre per fortuna le Malebolge digradano leggermente verso il centro, per cui l'argine destro è sempre un po' più basso del sinistro.

Arrivati in cima Dante ha il fiato corto e si siede sul primo masso che trova perché non ce la fa più ("i' non poeta più oltre", v. 44), ma Virgilio ha subito riprende Dante e con solenni suggerimenti e incoraggiamenti lo incita a riniziare subito la marcia.

Le parole di Virgilio sono famose per il loro rigore e importanza, anche se lette nel contesto della situazione suonano un po' troppo forti. Non bisogna comunque dimenticare il loro valore soprattutto simbolico, non legato cioè solo allo spiccio avvenimento di Dante che riprende fiato dopo una salita.

Egli dice al discepolo che sedendo sulle piume o sotto le coperte non si guadagna fama durante la vita; chi fa così sulla terra lascia la stessa traccia che fa il fumo nell'aria o la schiuma sull'acqua; quindi è bene che Dante si alzi e vinca la fiacchezza (l'ambascia), che l'animo ha il potere di vincere ogni battaglia se il corpo pesante non si accascia; ben più ripida sarà la salita che li attende (sottinteso al Purgatorio) perché non basta separarsi dai dannati. Quest'ultima frase racchiude tutto il senso del viaggio simbolico nell'Inferno: Dante sta compiendo un percorso iniziatico verso il bene e la conoscenza del divino, ma prima di tutto egli deve avere la consapevolezza di tutti i peccati (l'espiazione, compiuta attraverso l'Inferno), poi compiere un percorso di purificazione attraverso il Purgatorio, perché il solo conoscere il male e evitare di usarlo non è sufficiente per la beatitudine.

Dante allora salta in piedi convinto, mostrando più lena di quella che si sente addosso, dicendo "Va, ch'i' son forte e ardito" (v. 60). I due allora trovano il nuovo ponte sulla bolgia successiva, che è più irto di rocce (ronchioso), stretto e malagevole di quelli passati finora.

[modifica] La bolgia dei ladri - vv. 64-96

La bolgia dei ladri, illustrazione di Gustave Doré
La bolgia dei ladri, illustrazione di Gustave Doré

Mentre Dante sta ancora parlando per nascondere la sua stanchezza, i due poeti sono nel frattempo saliti sul ponte sulla prossima bolgia, la settima, e Dante sente una voce disconvenevole che non capisce cosa dica, ma sembra molto arrabbiata: il poeta si sporge per guardare in giù, ma per il buio non riesce a vedervi niente, quindi propone a Virgilio di scendere anche sul fondo di questo bolgia, al quale il poeta acconsente con una perifrasi retorica (in parafrasi "Altro non ti rispondo se non con l'agire, perché a una domanda onesta si deve rispondere tacendo ed eseguendo l'opera richiesta").

Essi scendono dalla testa di ponte successiva, dell'ottavo argine e Dante vede uno scenario raccapricciante che a differenza della dolente staticità del precedente, è dominato da un frenetico movimento, causato dalla terribile stipa di serpenti (in realtà si scopre presto che piuttosto sono rettili vari), tutti diversi, la cui memoria guasta (scipa) ancora il sangue al Dante-scrittore.

E Dante attacca citando abbastanza fedelmente La Pharsalia Lucano: vi erano chelidri (che Lucano, non Dante, descrive come striscianti su una scia di fumo), iaculi (che volano come giavellotti), faree (che strisciano contorcendosi con la testa eretta), cencri (con il ventre punteggiato, che strisciano dritti) e anfisbene (che ha due teste, una per estremità). Libia (intesa genericamente come deserto del Sahara), Etiopia e Arabia (ciò che sta sopra al Mar Rosso) non possono vantare altrettanta ricchezza di serprenti, che Dante si compiace di elencare con fare dotto.

Tra i rettili corrono "genti nude e spaventate", che non hanno speranza di trovare né un nascondiglio né l'elitropia, pietra miracolosa contro i veleni dei serpenti (e per garantire l'invisibilità). Essi hanno le mani legate dai serpenti, che legavano la coda e il capo mordendo le reni dei dannati, cingendo loro il ventre.

Poco più avanti Dante dirà che si tratta di ladri, coloro che, a differenza dei predoni che erano puniti un cerchio e ben dodici canti fa nel sangue bollente del Flegetonte, non sono violenti, ma con l'inganno e l'astuzia hanno depredato gli altri, una colpa ben più grave dei rapinatori secondo la logica che a strati più bassi corrispondono peccati più gravi.

[modifica] Metamorfosi dei ladri - vv. 97-120

I ladri, dipinto di William Blake
I ladri, dipinto di William Blake

A questo punto Dante assiste a una sorprendente metamorfosi, quando un serpente morde una dannato tra il collo e la spalla e nel tempo di tracciare una "O" oppure una "I" (lettere di una tratto solo) il dannato cade a terra come cenere e rinasce da essa, come fenice, che rinasce ogni 500 anni dopo essersi costruita un letto di nardo e mirra (citazione quasi letterale da Ovidio, Metamorfosi XV) o come un epilettico, che all'epoca si riteneva posseduto temporaneamente da un demone.

Il contrappasso di questi dannati non è completamente chiaro, comunque il serpente che striscia potrebbe simboleggiare la natura subdola di questi dannati. Inoltre il fatto di avere mani legate è l'opposto di quella "sveltezza" di mano che contraddistinse la loro mala opera. La metamorfosi animalesca è sempre un fatto gravemente degradante per Dante, che nella sua concezione dell'universo strettamente gerarchica attribuiva a animali e piante una forma di vita molto meno nobile di quella umana, creata a somiglianza di Dio (si pensi ai suicidi la cui pena è quella di essere trasformati in sterpi, o alle similitudini animalesche così frequenti nelle Malebolge). Nel caso poi del dannato che si polverizza e rinasce è un'aggiunta perché il suo peccato è avvenuto in luogo consacrato (lo si legge tra poco), quindi il ritornare alla polvere, come prima della Genesi, è una severa vendetta divina di chi ha osato sfidarlo.

[modifica] Vanni Fucci e la sua profezia - vv. 121-151

Metamorfosi, illustrazione di Gustave Doré
Metamorfosi, illustrazione di Gustave Doré

Virgilio chiede dunque il nome al dannato, e quello risponde con tutta l'arroganza e rozzezza che può: dice che piovuto in questa bolgia dalla Toscana da poco tempo; gli piacque la "vita bestial e non umana", ed era un mulo, cioè un bastardo, un figlio illegittimo, di nome Vanni Fucci bestia (forse il suo grottesco soprannome, secondo altri commentatori affibbiato invece da Dante nel ritratto degradato che il dannato fa di se stesso), che ebbe in Pistoia la sua degna tana.

In pratica il dannato si è presentato come un animale, un violento (era infatti predone e assassino), tanto da attaccare al suo nome l'epiteto di "bestia", ma Dante non è soddisfatto della sua risposta, perché in verità ha già riconosciuto di chi si tratta, un terribile pistoiese che compì efferate e inutili crudeltà durante l'assedio di Caprona (un'azione militare conseguente la battaglia di Campaldino, alla quale Dante partecipò come cavaliere). Allora Dante dice sprona Virgilio perché non si faccia scappare il dannato, perché la sua colpa è ben più umiliante e grave (almeno secondo lo schema etico dantesco, citato nel paragrafo precedente) di quelle che ha voluto dire loro. Allora Vanni Fucci, colpito nel debole, si gira direttamente su Dante guardandolo negli occhi senza la frapposizione di Virgilio e controvoglia gli confessa quello che gli duole in questa sua misera condizione più di quando gli dolse morire. Non può negare la risposta alla domanda dei due inviati in missione divina: si trova quaggiù perché fu ladro dei begli arredi di sacrestia (notare la piena confessione, con l'accento posto sulla sua colpa in maniera così diretta), per il reato del quale stava per venire ucciso qualcun altro.

Dopo l'umiliazione però Vanni Fucci prepara anche la vendetta. "Ma perché di tal vista tu non godi, se uscirai mai dall'Inferno, apri li orecchi al mio annunzio, e odi. Il dannato si rivolge con arroganza verso Dante e, assieme a quello che farà dopo, la sua figura è tratteggiata come una delle più nere e indomabili dell'Inferno. Profetizza allora notizie spiacevoli per Dante: Pistoia è spopolata per la cacciata dei Neri, ma presto Firenze si rinnoverà di gente, intendendo che il successo attuale dei Bianchi è fugace perché presto con l'arrivo di Carlo Valois le sorti si ribalteranno. Marte (divinità) trae vapore igneo di fulmini in Lunigiana (Val di Magra) e con la tempesta forte si combatterà sul campo di Pistoia (Campo Piceno, da un'errata interpretazione di Sallustio che fraintesero anche altri autori); qui il dio della guerra spezzerà la nebbia con questi fulmini "sì ch'ogne Bianco ne sarà feruto. / E detto l' ho perché doler ti debbia!" (vv. 150-151).

Il canto si chiude con questi versi pieni d'odio, e ancora più negativa sarà l'apertura del prossimo canto con la bestemmia di Vanni Fucci, così terribile che farà pronunciare a Dante un'invettiva contro Pistoia.

[modifica] Bibliografia

  • Vittorio Sermonti, Inferno, Rizzoli 2001.
  • Umberto Bosco e Giovanni Reggio, La Divina Commedia - Inferno, Le Monnier 1988.

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