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Statuto albertino - Wikipedia

Statuto albertino

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

« Carlo Alberto

per la grazia di Dio

Re Di Sardegna, di Cipro e di Gerusalemme; Duca di Savoia, di Genova, di Monferrato, d'Aosta, del Chiablese, del Genevese e di Piacenza; Principe di Piemonte e di Oneglia; Marchese d'Italia, di Saluzzo, d'Ivrea, di Susa, di Ceva, del Maro, de Oristano, di Cesana e di Savona; Conte di Moriana, di Ginevra, di Nizza, di Tenda, di Romonte, di Asti, di Alessandria, di Goceano, di Novara, di Tortona, di Vigevano e di Bobbio; Barone di Vaud e di Faucigny; Signore di Vercelli, di Pinerolo, di Tarantasia, della Lomellina e della Valle di Sesia, ecc. ecc.

Con lealtà di Re e con affetto di Padre Noi veniamo oggi a compiere quanto avevamo annunziato ai Nostri amatissimi sudditi col Nostro proclama dell' 8 dell'ultimo scorso febbraio, con cui abbiamo voluto dimostrare, in mezzo agli eventi straordinarii che circondavano il paese, come la Nostra confidenza in loro crescesse colla gravità delle circostanze, e come prendendo unicamente consiglio dagli impulsi del Nostro cuore fosse ferma Nostra intenzione di conformare le loro sorti alla ragione dei tempi, agli interessi ed alla dignità della Nazione.

Considerando Noi le larghe e forti istituzioni rappresentative contenute nel presente Statuto Fondamentale come un mezzo il più sicuro di raddoppiare coi vincoli d'indissolubile affetto che stringono all'Italia Nostra Corona un Popolo, che tante prove Ci ha dato di fede, d'obbedienza e d'amore, abbiamo determinato di sancirlo e promulgarlo, nella fiducia che Iddio benedire le pure Nostre intenzioni, e che la Nazione libera, forte e felice si mostrerà sempre più degna dell'antica fama, e saprà meritarsi un glorioso avvenire. Perciò di Nostra certa scienza, Regia autorità, avuto il parere del Nostro Consiglio, abbiamo ordinato ed ordiniamo in forza di Statuto e Legge fondamentale, perpetua ed irrevocabile della Monarchia, quanto segue: »
(il Preambolo dello Statuto)

Lo Statuto fondamentale della Monarchia di Savoia 4 marzo 1848, noto come Statuto albertino dal nome del Re che lo promulgò Carlo Alberto di Savoia-Carignano, fu adottato dal Regno sardo-piemontese il 4 marzo 1848 e fu definito, nel Preambolo autografo dello stesso Carlo Alberto, «Legge fondamentale perpetua ed irrevocabile della Monarchia» sabauda.

Il 17 marzo 1861, con la fondazione del Regno d'Italia, divenne la Carta costituzionale della nuova Italia unita e rimase formalmente tale fino al biennio 1944/46 quando, con successivi decreti legislativi, fu adottato un regime costituzionale transitorio valido fino all'entrata in vigore della Costituzione della Repubblica italiana, il I gennaio 1948.

Indice

[modifica] I precedenti e la decisione di adottare lo Statuto albertino

In seguito ai moti promossi dalle classi borghesi, cui talora partecipò anche l'aristocrazia, nelle principali città del Regno di Sardegna, Carlo Alberto prese una serie di provvedimenti di stampo liberale: nel 1837 emanò il Codice Civile cui seguì il codice penale nel 1839 , nel 1847 riformò la disciplina della censura (imposta da Vittorio Emanuele I) permettendo la pubblicazione di giornali politici; creò, poi, una Corte di Revisione (ossia di Cassazione) per assicurare una certa qual uniformità della giurisdizione nello Stato, riducendo le competenze dei vecchi Senati e pubblicando il codice di procedura penale basato sulla pubblicità del dibattimento. Su ispirazione austriaca, aggiornò anche la composizione del Consiglio di Stato creato nel 1831 nel quale sarebbe venuto a chiamare due rappresentanti per ogni Divisione territoriale fra i Consiglieri delle Province componenti la Divisione, consiglieri provinciali che a loro volta erano scelti fra quelli comunali. Gli avvenimenti dei primi mesi del 1848 sembravano comunque ancora confermare la resistenza ad ipotesi costituzionali del re di Sardegna .

Con la concessione borbonica del febbraio, però, Carlo Alberto cedette e, in fretta e furia, fece preparare una dichiarazione di principi che saranno alla base dello Statuto (termine ripreso dalla tradizione di Amedeo VIII di Savoia) e che vennero proclamati al popolo l’8 febbraio 1848, tre giorni prima che il Granduca di Toscana prendesse la stessa decisione. Tali basi indicate in quattordici punti vennero concesse per la benevola generosità del sovrano, il quale unì al paternalismo una velata minaccia di non procedere oltre se i “popoli” non fossero stati “degni” delle magnanime concessioni regie. In questo modo, comunque, Carlo Alberto aveva tranquillizzato tanto i liberali quanto i democratici .

Il Consiglio di Conferenza, incaricato di redigere lo Statuto, ebbe come principale obiettivo quello di individuare, tra i modelli costituzionali europei, quello maggiormente congeniale al Regno di Sardegna, e che producesse il minor cambiamento possibile all'interno degli assetti istituzionali. Questo modello venne individuato nella Costituzione orleanista del 1830 e in quella belga del 1831. Pochi giorni dopo, tra il 23 e il 24 Febbraio la Rivoluzione spazzava via da Parigi sia la monarchia sia la Costituzione . La sommossa parigina, che portò poi al potere Napoleone III, eccitò gli animi anche in Italia e fece balenare nella mente dei liberali più accesi e rivoluzionari l’idea di una Repubblica tale che quindi la promessa delle “basi” di Carlo Alberto sembrava ormai troppo limitata. Tuttavia ciò non mutò le posizioni del Re che il 4 marzo promulgò lo Statuto.

[modifica] Il suo significato

Essendo lo Statuto albertino una carta ottriata (dal francese octroyée: concessa dal sovrano), riveste una particolare importanza il suo preambolo. L'assolutismo illuminato, ultima evoluzione dello Stato di polizia, è estremamente evidente: «con lealtà di Re e con affetto di padre Noi veniamo a compiere quanto avevamo annunziato ai nostri amatissimi Sudditi», così come è evidente la riserva mentale con cui lo Statuto viene concesso, laddove - celando le forti motivazioni sociali che hanno indotto Carlo Alberto ad emanare questo atto - si afferma «di Nostra certa scienza, Regia autorità, avuto il parere del Nostro Consiglio, abbiamo ordinato ed ordiniamo in forza di Statuto e Legge fondamentale perpetua ed irrevocabile della Monarchia, quanto segue».

È inoltre da notare come lo Statuto non sia mai qualificato con il termine costituzione, ritenuto ancora pregno di significati assiologici e non meramente descrittivi, e come dalle intenzioni espresse dal sovrano esso dovesse intendersi come una costituzione rigida, «perpetua ed irrevocabile». La storia si incaricò però di smentire questa affermazione: fin dall'inizio, lo Statuto - che definiva una forma di monarchia costituzionale pura - tese ad evolversi verso la differente forma di monarchia parlamentare, rivelando quindi una natura di costituzione flessibile (e infatti era modificabile con legge ordinaria). Il sistema costituzionale italiano, quindi, subì un'evoluzione molto particolare, dettata, in parte, da una scelta costituente compiuta formalmente dal monarca, ma in buona parte legata al concreto divenire del sistema politico. La prima modificazione che lo Statuto subirà sarà quella relativa alla bandiera, da quella con la coccarda azzurra a quella con la coccarda tricolore, in occasione della ribellione del Lombardo-Veneto contro il dominio austriaco nel 1848. Il fatto che il testo si sia poi rivelato lacunoso, ambiguo e generico può certamente apparire come un difetto, ma, nei fatti, poi, si rivelò essere invece un vantaggio, perché ne permise un pacifico adeguamento a mutate esigenze e situazioni. Tale elasticità dello Statuto fece dire ad Arturo Carlo Jemolo che esso “visse di vita propria” per quasi cent'anni. Per lungo tempo, in effetti, non ci furono vere modifiche formali del testo statutario, almeno fino al periodo fascista. L’elasticità de testo permetteva infatti di piegarlo ad una certa interpretazione (invocando certe espressioni a danno di altre), sottolineando un punto o un articolo piuttosto che un altro. Lo Statuto acquistò così, da subito, un certo aspetto di intangibilità, proprio mentre nei decenni ne mutavano i contenuti effettivi.

Lo Statuto albertino corrisponde a ciò che si definisce una costituzione breve: si limita ad enunciare i diritti (che sono per lo più libertà dallo Stato) e ad individuare la forma di governo, ma non si pone il fine di raggiungere obiettivi di convivenza, né di prefigurare i rapporti dei consociati (Stato-comunità) tra di loro e tra questi e lo Stato-apparato. Riconosce il principio di eguaglianza (art. 24: «tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi alla Legge. // Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammessi alle cariche civili e militari, salve le eccezioni determinate dalle leggi»), ma si limita ad affermare un'eguaglianza formale. Riconosce formalmente la libertà individuale (art. 26), l'inviolabilità del domicilio (art. 27), la libertà di stampa (art. 28), la libertà di riunione (art. 32), ma le riserve di legge ivi previste si risolvono nel ben più blando e meno garantista principio di legalità, mentre è sconosciuto l'istituto della riserva di giurisdizione: in definitiva, il vero cardine del sistema dei diritti statutari è costituito dal diritto di proprietà (art. 29).Per quanto riguardava la libertà religiosa il Regno di Sardegna era (art.1) uno Stato confessionale. La religione, si scrisse, "è quella Cattolica, Apostolica e Romana" e gli altri culti esistenti erano unicamente tollerati, come sotto Vittorio Amedeo II. Tale prospettiva muta ben presto e verrà l’emancipazione prima dei Valdesi (17 marzo) e poi degli Ebrei (29 marzo) con il riconoscimento dei loro diritti civili e politici, infine con l’abolizione dei “privilegi” ecclesiastici a partire dal 2 marzo successivo con un decreto regio che cacciava i Gesuiti dallo Stato. Una legge di poco posteriore (del giugno del 1848) aggiungeva che la differenza di culto non formava eccezione al godimento dei diritti civili e politici e all’ammissibilità alle cariche civili e militari.

[modifica] Il Re e il Governo

Il Re mentre firma lo Statuto.
Il Re mentre firma lo Statuto.

La monarchia era costituzionale ed ereditaria secondo la legge salica; il Re era e restava capo supremo dello Stato e la sua persona rimaneva sacra ed inviolabile, anche se questo non significava che non dovesse rispettare le leggi (come previsto dal suo giuramento all’articolo 22), ma solo che non poteva essere oggetto di sanzioni penali. Il Re manteneva una certa preminenza ed esercitava il potere esecutivo attraverso i ministri; convocava e scioglieva le Camere e aveva il potere di sanzione delle leggi, istituto diverso dalla promulgazione presidenziale, attualmente prevista dalla Costituzione italiana del 1948, perché con essa il Re valutava il merito dell’atto e poteva rifiutarlo se riteneva la legge non rispondente all’indirizzo politico perseguito dalla Corona. La sovranità non apparteneva alla Nazione (benché all'articolo 41 si faccia espresso riferimento ai deputati come "rappresentanti della Nazione) ma al Re, il quale, tuttavia, da sovrano assoluto, si trasformava in principe costituzionale per sua esplicita volontà e concessione. Si usciva così dal regime assoluto e si entrava nell’epoca in cui il Re vedeva i suoi poteri limitati dalla Costituzione. Il testo statutario rimase comunque piuttosto sibillino in merito al rapporto tra Re, Governo e Camere; di qui la difficoltà di valutazione sulla purezza della monarchia costituzionale o sulla sua “parlamentarità”, a seconda che il Governo dovesse godere della sola fiducia del Re o di quella del Parlamento. Di fatto il Re decideva automaticamente circa il Governo ed il Parlamento si limitava a fare le leggi (collettivamente, con l’apporto del Re e la sua sanzione). Nella prassi Carlo Alberto cercò di far in modo che il proprio Governo avesse la fiducia del Parlamento, sostituendolo quando questa fosse venuta meno. Questo portò nel giro di un anno alla formazione di quattro gabinetti diversi, senza alcun voto di fiducia. A partire dal 1852, però, con l’avvento di Camillo Cavour, fu lui il capo della maggioranza parlamentare e, nei periodi di crisi, fu il sostegno della Camera dei Deputati a imporre il reincarico a Cavour rispetto all’aspirazione del Re a sostituirlo. Ecco, così, che venne prevalendo nella prassi applicativa un sostanziale riconoscimento da parte le Re che il “suo” Governo doveva godere della fiducia parlamentare e si passò quindi ad un sistema di governo di tipo parlamentare. Il re fu considerato più quale rappresentante dell’unità statale che come capo dell’esecutivo. Inizialmente, però, i Ministri erano considerati come singoli collaboratori del Re, senza riconoscimenti ufficiali di loro riunioni in organi collegiali. Non era nemmeno prevista la figura del Presidente del Consiglio dei Ministri. I ministri (che potevano essere parlamentari e non) rispondevano per gli atti regi, essendo la persona del re sacra ed inviolabile, non politicamente verso le Camere, ma giuridicamente per il contenuto dei provvedimenti. Ciascuno dei ministri poteva essere sostituito se veniva meno il rapporto fiduciario con il Re.

[modifica] Il Parlamento

Il Parlamento era invece composto di due Camere. Quella di nomina regia (Senato), vitalizia, non poteva sciogliersi e quella elettiva, la Camera dei Deputati, eletta su base censitaria e maschile, a collegio uninominale ed a doppio turno di elezione. Il bicameralismo, previsto perfetto, si sviluppò in realtà come "zoppo", con prevalenza politica della Camera bassa. I progetti di legge potevano essere promossi dai Ministri, dal Governo, dai parlamentari, oltre che dal Re. Per diventare legge dovevano essere approvati nello stesso testo da entrambe le Camere, senza ordine di precedenza (a parte quelle tributarie e di bilancio che dovevano passare prima per la Camera dei Deputati) e dovevano essere munite di sanzione regia. Le due Camere ed il Re rappresentavano perciò per lo Statuto i “tre poteri legislativi”: bastava che uno fosse contrario per quella sessione il progetto non poteva più essere riprodotto.

[modifica] Il potere giudiziario

Per quanto riguardava la Giustizia, essa “emana dal Re”, che nominava i giudici (senza il rispetto della distinzione montesquieuiana) ed aveva il potere di grazia. A garanzia del cittadino stava il rispetto del giudice naturale e il divieto del tribunale straordinario, la pubblicità delle udienze e dei dibattimenti. Prima dello Statuto il Re aveva il potere discrezionale di nominare, promuovere, spostare e sospendere i suoi giudici. Ora venivano introdotte qualche garanzia in più per i cittadini e per i giudici, che dopo tre anni di esercizio, avevano garantita l’inamovibilità. L’articolo 73 esclude poi la possibilità di prendere in considerazione il precedente giurisprudenziale per le decisioni nei supremi tribunali statali. L’interpretazione del giudice con rilievo direttamente normativo cadde così definitivamente e ad esso si sostituì il potere legislativo statale. La magistratura rappresentava quindi non un potere, ma un ordine direttamente soggetto al Ministero della Giustizia. Il controllo sull’attività del singolo giudice non doveva mancare, ma sembrava da affidare soprattutto ad altri giudici: il Siccardi con visione gerarchico-piramidale trovò ragionevole che ciò facesse capo soprattutto all’organo più elevato, la Corte di Cassazione.


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