Giornata dell'Aspromonte
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Per approfondire, vedi la voce Giuseppe Garibaldi. |
« Oggi vuolsi sapere quale dei due abbia sovranità in Italia, se il Re, o Garibaldi, se la monarchia o la rivoluzione ... finché questa suprema quistione non si risolva, trattarne ogni altra diventa impossibile. » | |
La giornata dell'Aspromonte ebbe luogo il 29 agosto 1862, quando l'esercito regio fermò il tentativo di Garibaldi e dei suoi volontari di completare una marcia dalla Sicilia verso Roma e scacciarne il Papa Pio IX.
[modifica] Premesse: la questione romana
Quando Vittorio Emanuele II divenne re d'Italia il 17 marzo 1861, il nuovo Regno ancora non controllava né Venezia, né Roma. La situazioni delle terre irredente (come si sarebbe detto alcuni decenni più tardi) costituiva una fonte di tensione costante per la politica interna italiana e la principale priorità della sua politica estera.
Roma, in particolare, era stata proclamata capitale del regno d'Italia nella seduta del Parlamento del 27 marzo 1861, dopo un vibrante discorso del Cavour, morto poi il 6 giugno successivo. Tale obiettivo si scontrava, insuperabilmente, in Pio IX, convinto della necessità di conservare potere temporale quale garanzia di libero esercizio dell'azione spirituale. Né si comprende che altra posizione avrebbe potuto assumere.
La questione romana, in ogni caso, aveva spinto, nel 1862, alle dimissioni il successore di Cavour, il toscano Ricasoli, che aveva lasciato il posto a Rattazzi.
Il nuovo primo ministro non aveva certo particolari scrupoli nei confronti del Papa Re: negli anni '50, da ministro degli Interni del Regno di Sardegna, aveva ricostruita la propria carriera politica gestendo la soppressione delle corporazioni religiose.
Non si sa, però, se sia stata sua la decisione di temporeggiare quando giunse la notizia che Garibaldi, giunto in visita in Sicilia, aveva preso a radunare una schiera di volontari e muovere su Roma.
[modifica] L'arrivo di Garibaldi in Sicilia
Il 27 giugno 1862 Garibaldi si era imbarcato a Caprera per la Sicilia. Non vi sono certezze circa gli scopi del viaggio. Tra le diverse ipotesi, è possibile identificare una logica interpretativa comune:
- ipotesi politica: gli osservatori erano concordi nel riconoscere l'ascendente magnetico che esercita Garibaldi in Palermo e sulle popolazione dell'isola ... [ivi] il Governo del Re è sottoilveto ed il placet del Generale[1]. Scopo della visita sarebbe stata, quindi, rilanciare l'iniziativa del cosiddetto partito 'democratico'[2], valorizzando il ruolo del suo leader incontrastato.
- ipotesi militare: riguardo alla forma di tale rilancio, a nessuno sfuggiva la naturale tendenza del geniale uomo d'arme di declinare la propria azione attraverso la mobilitazione militare dei moltissimi disposti ad arruolarsi al suo comando. Restava da saggiare la praticabilità di tale iniziativa e l'atteggiamento del governo. Alla prova, la prima si rivelò fortissima, il secondo incertissimo. L'obiettivo di tale azione militare era, però, incerto. Era, infatti, irragionevole mirare Roma partendo da così lungi. Altri sostennero che Garibaldi fosse giunto in vista di una spedizione di volontari in Grecia, allora scossa da una forte instabilità interna. La spedizione sarebbe stata delineata in intesa (indiretta) con il Sovrano, senza giungere ad alcuna maturazione[3].
- ipotesi simbolica: l'unica circostanza certa era l'altissima simbolicità della presenza dei reduci della spedizione dei mille, a soli due anni di distanza, sui luoghi del loro trionfo, in presenza della stessa popolazione, per giunta giubilante.
In definitiva sembra possibile affermare che il generale fosse sbarcato sull'isola per saggiare di persona la popolarità della politica democratica e di una eventuale ripresa di inziativa rivoluzionaria. Le accoglienze a Palermo ed a Marsala furono talmente enormi, da deciderlo a guidare una nuova spedizione, partendo proprio da Marsala, come due anni prima. L'obiettivo maturò, forse, pervia: proprio nel corso di uno di questi festeggiamenti, pare a Marsala, dalla folla qualcuno gridò o Roma o morte. Garibaldi rimase colpito dall'immediatezza del messaggio e lo assunse a proprio motto.
Le autorità, terrorizzate e prive di ordini, lasciarono che egli facesse avanzare indisturbate tre colonne sino a Catania, raccogliendo volontari.
[modifica] L'eventualità di ripetere la spedizione dei Mille
Quando le notizie giunsero a Torino, Rattazzi e il Re dovettero valutare attentamente la opportunità di ripetere, appena due anni dopo, il successo ottenuto da Cavour con la spedizione dei Mille.
Si trattava, in effetti, di uno schema simile a quello del 1860: l'Italia era piena di volonterosi, vogliosi di mettersi sotto la guida di Garibaldi. L'armamento ed i quadri attinti dalle vecchie Camicie Rosse. I finanziamenti sarebbero giunti dal governo. Il successo della spedizione avrebbe provato l'incapacità del Papato di garantire, in forme accettabili, l'ordine pubblico nei propri domini.
Vi erano, tuttavia, due differenze che, nel corso delle settimane, si sarebbero dimostrate insuperabili: mentre la caduta del Borbone era apparsa come lo sviluppo di una sollevazione interna (la rivolta siciliana), la caduta del Papato sarebbe senz'altro apparsa come una aggressione esterna: un'aggressione italiana.
Il governo italiano, inoltre, non poteva godere dell'appoggio della Francia di Napoleone III la quale, anzi, si era eretta a potenza protettrice del Papato. Pio IX, d'altra parte, non aveva commesso l'errore del Borbone di appoggiarsi all'Austria, anzi faceva totale affidamento, sin dal 1849, sulle armi francesi.
Il nuovo Regno, infine, era duramente impegnato nella repressione del brigantaggio che, in quella prima fase, aveva assunto le forme di una guerriglia capillare e diffusa un po' su tutte le antiche province continentali delle Due Sicilie: nessun governante responsabile avrebbe mai potuto immaginare di riprendere la politica di espansione, prima di aver messo sotto controllo l'ordine pubblico nel Mezzogiorno.
[modifica] La crescente ostilità del governo italiano
La risposta del governo di Torino fu, alla prova dei fatti, assai ferma e (abbastanza) tempestiva.
Il prefetto di Palermo, Pallavicino venne destituito per aver assistito, senza reagire, all'infuocato discorso tenuto da Garibaldi il 15 luglio, quando aveva attaccato Napoleone III (il principale alleato del Regno d'Italia) e invocato la liberazione di Roma.
Il 3 agosto il Re pubblicò un proclama in cui sconfessava “giovani … dimentichi … della gratitudine verso i nostri migliori alleati” e ne condannava le “colpevoli impazienze”.
Negli stessi giorni Rattazzi proclamava in tutta la Sicilia lo stato d'assedio.
Pallavicino venne sostituito il 12 agosto dal generale Cugia eppoi, il 21 agosto, da Cialdini, mentre il 15 agosto il Mezzogiorno continentale veniva affidato a La Marmora e messo sotto stato d'assedio: Cialdini e La Marmora erano i due più importanti militari italiani, e il loro incarico è un chiaro indice dell'importanza che il governo attribuiva alla faccenda.
Una squadra navale (affidata ad Albini) fu incaricata di impedire il passaggio di Garibaldi in Calabria.
Le truppe dislocate in Calabria, numerose in quanto impegnate nella lotta al brigantaggio, vennero allertate (e proprio ad esse appartenevano i bersaglieri che avrebbero dato il maggior contributo a bloccare la marcia di Garibaldi).
Non che il regno d'Italia mancasse delle necessaria credibilità patriottica. Basti pensare che il generale che avrebbe fermato Garibaldi di lì ad un mese in Aspromonte, il colonnello Emilio Pallavicini era medaglia d'oro per l'assedio di Civitella del Tronto (l'ultima fortezza presa al Borbone il 20 marzo 1861), veterano di Crimea e della liberazione di Perugina, ferito a San Martino; Luigi Ferrari, l'ufficiale che sarebbe stato ferito dai garibaldini negli scontri, era veterano della prima e della seconda guerra di indipendenza nonché dell'Assedio di Gaeta, medaglia d'argento a San Martino ed alla liberazione di Ancona.
Ma come fermare Garibaldi: un uomo che tanto aveva fatto per la Nazione e che godeva dell'illimitata stima dell'opinione pubblica italiana e liberale nel mondo?
[modifica] Lo sbarco in Calabria
A Catania Garibaldi prendeva possesso dei piroscafi Abbattucci e Dispaccio, “capitati nel porto di Catania”, e prendeva il mare nella notte. Dopo una breve navigazione notturna, alle quattro del mattino del 25 agosto 1862, sbarcava alla testa di tremila uomini in Calabria, tra Melito e Capo dell'Armi.
Una squadra della Marina Regia era di vedetta. Non si sa cosa accadde all'uscita dal porto: i capitani sostenettero di non aver avvistato le navi in uscita, ma Garibaldi, nelle Memorie, afferma il contrario. Sicuramente, appena i volontari presero terra ed imboccarono la strada del litorale verso Reggio Calabria, essi vennero bombardati da una corazzata italiana, mentre le avanguardie furono prese a fucilate da truppe uscite da Reggio. Tanto da spingere Garibaldi a deviare per il massiccio dell'Aspromonte. In ogni caso la posizione di sbarco venne segnalata e la colonna intercettata.
Dunque, o i capitani di vedetta a Catania non se la sentirono di eseguire ordini che il capitano della corazzata, al contrario, seguì alla lettera, ovvero si preferì evitare uno scontro in mare che avrebbe comportato assai più vittime garibaldine di uno scontro sulla terraferma. Nulla è certo.
In ogni caso Garibaldi non voleva uno scontro: diede ordine di non rispondere al fuoco e proseguì per la montagna, lontano dai cannoni della Marina Regia e cercando di evitare di essere agganciato. La sera del 28 agosto 1862 la colonna raggiunse una posizione ben difendibile, a pochi chilometri da Gambarie, nel territorio di Sant'Eufemia d'Aspromonte. La colonna aveva marciato per tre giorni, e si sfamò saccheggiando un campo di patate. Nel frattempo si era ridotta a circa 1 500 uomini, a causa delle diserzioni e degli arresti.
Verso mezzogiorno del 29 agosto Garibaldi fu informato dell'arrivo di una grande colonna del Regio Esercito. Ma decise di rimanere ad aspettare la truppa. Una decisione che, nelle Memorie, si rimproverò. Ma, d'altra parte, non poteva continuare una fuga infinita.
Schierò, comunque, la colonna in ordine di battaglia, sull'orlo di un bosco, in posizione dominante: la sinistra su un monte, Menotti al centro, Corrao a destra.
[modifica] Lo scontro a fuoco
I regolari presero contatto con i volontari alle quattro di pomeriggio del 29 agosto. Ben 3 500 uomini. Ben disposti, i volontari osservavano la veloce marcia d'avvicinamento dei Bersaglieri, guidati da Pallavicini.
Giunti a lungo tiro di fucile, Pallavicini dispose la truppa a catena, bersaglieri davanti, ed avanzò risolutamente sui volontari “a fuoco avanzando”.
A quel punto il generale corse di fronte alla propria linea e prese ad urlare di cessare il fuoco: “No, fermi. Non fate fuoco. Sono nostri fratelli”. Fu ubbidito dal grosso dei volontari, sinché il centro del Menotti prese a rispondere, anzi caricò i bersaglieri e li respinse.
Garibaldi sostenne che si trattava di “poca gioventù bollente” che reagì per la insostenibile tensione. Sicuramente avevano contravvenuto ad un suo ordine esplicito.
Negli altri settori, gli assalitori, non trovando resistenza, continuavano a salire sparando ed accadde l'inevitabile: Garibaldi, in piedi allo scoperto fra le due linee, ricevette due palle di carabina, all'anca sinistra e piede sinistro. Nel contempo veniva ferito al polpaccio sinistro anche Menotti.
Caduto il generale, i volontari si ritrassero nella foresta retrostante, mentre i loro ufficiali correvano attorno al ferito. Anche i bersaglieri cessarono gli spari.
Lo scontro era durato una decina di minuti, abbastanza per causare la morte di sette garibaldini e cinque regolari e il ferimento di venti garibaldini e quattordici regolari: se i volontari si fossero difesi, tenuto conto della loro forte posizione, la sproporzione delle vittime sarebbe stata fortemente a sfavore dei regolari.
[modifica] L'arresto di Garibaldi
Garibaldi era appoggiato ad un pino (ancor oggi esistente) con in bocca un mezzo toscano. Veniva soccorso da tre chirurghi (Ripari, Basile e Albanese), aggregati ai volontari.
Sopraggiunse dalle linee del Regio Esercito il tenente Rotondo a cavallo: senza salutare intimò a Garibaldi la resa. Il Generale lo rimproverò e lo fece disarmare.
Intervenne allora il comandante colonnello Pallavicini che ripeté la richiesta, ma dopo essere sceso da cavallo, parlandogli all'orecchio e con la dovuta cortesia.
Tra i bersaglieri Garibaldi riconobbe soldati ed ufficiali che erano stati con lui in campagne precedenti: li vide rattristati e contriti. E v'è da crederlo.
Il generale venne adagiato su una barella di fortuna, e trasportato a braccia in direzione di Scilla. A tarda sera venne ricoverato nella capanna di un pastore di nome Vincenzo, bevve brodo di capra e dormì su un letto improvvisato fatto dei cappotti offerti dagli ufficiali del suo Stato Maggiore. All'alba riprese la marcia e il generale venne riparato dal sole con un improvvisato ombrello di rami d'alloro. Giunto al mare, pare che il municipio di Scilla, evidentemente non del tutto conscio delle circostanze, proponesse di offrire un rinfresco di saluto, ottenendone un prevedibile rifiuto.
Garibaldi chiese di essere imbarcato su una nave inglese. Tuttavia era prigioniero e, ovviamente, il permesso gli venne rifiutato. Venne invece imbarcato sulla pirofregata Duca di Genova, insieme a Menotti, una decina di ufficiali ed i tre medici.
Assisteva, dalla tolda della Stella d'Italia, il generale Cialdini incaricato straordinario per la direzione politica e militare della Sicilia e che il 26 agosto, incontrando a Napoli La Marmora si era riservato anche il comando della zona dove operava Garibaldi. Cialdini non si degnò neppure di salutare il vinto. Episodio che testimonia l'ostilità con la quale l'avventura era stata accolta dai moderati.
[modifica] La permanenza del Garibaldi in fortezza
Sbarcato il 2 settembre nel porto militare della Spezia, il generale fu destinato al Varignano, un ex-lazzaretto convertito in stabilimento penitenziario, che allora ospitava 250 condannati ai lavori forzati. Venne alloggiato in una ala della palazzina del comandante del carcere, una stanza per sé e cinque per familiari e visitatori.
La ferita più insidiosa era quella al piede destro. La prima relazione medica recitava: “La palla è penetrata a tre linee al di sopra e al davanti del malleolo interno: la ferita ha una figura triangolare a lembi lacerocontusi del diametro di mezzo pollice circa. Alla parte opposta, mezzo pollice circa al davanti del malleolo esterno, si avverte un gonfiore che sotto il tatto è resistente...”. Proprio il gonfiore dovuto all'artrite (che da anni perseguitava il generale) rese difficile verificare la posizione della pallottola. Né si era certi della sua reale presenza. Essa venne accertata solo a fine ottobre alla Spezia, e l'estrazione avvenne solo il 23 novembre a Pisa, ad opera del professor Ferdinando Zanetti.
Dei circa 3 000 volontari guidati da Garibaldi, solo alcune centinaia riuscirono a fuggire. Vennero arrestati 1 909 garibaldini, riaccompagnati alle loro dimore 232 minorenni, mentre i militi che avevano abbandonati i loro reparti regolari per unirsi a Garibalidi, vennero rinchiusi nelle antiche fortezze sarde (Alessandria, Vinadio, Bard, Fenestrelle, Exilles, Genova). Essi (e lo stesso Garibaldi) vennero amnistiati alla prima occasione possibile: il matrimonio di Maria Pia di Savoia, figlia di Vittorio Emanuele II con il re del Portogallo il 5 ottobre 1862.
Dopo l'amnistia e l'estrazione della pallottola, Garibaldi rientrò a Caprera, da dove non si mosse per i successivi due anni (sino al trionfale viaggio in Inghilterra). Rientrò in combattimento solo per la terza guerra di indipendenza guidando una brillante campagna nel Trentino culminata nella vittoria di Bezzecca.
Le autorità militari in Sicilia, cercando di farsi perdonare la eccessiva tolleranza dell'agosto, attuarono una vera e propria “caccia al garibaldino”, che portò al massacro di sette volontari nella provincia di Messina (eccidio di Fantina).
[modifica] Le accuse a Rattazzi e al Re
Restava il fatto che Garibaldi avesse potuto traversare l'intera Sicilia senza essere fermato. Rattazzi venne quindi accusato di averlo incoraggiato, o perlomeno di aver intrattenuto rapporti ambigui, sicuramente di non averne rifiutato le intenzioni con sufficiente decisione.
I sospetti si indirizzarono anche sul Re, che aveva la tendenza a condurre una politica personale, separata da quella del governo.
L'accusa (es.: Denis Mack Smith) è che uno dei due, o entrambe, abbiano illuso Garibaldi circa la realizzabilità dell'impresa. Salvo abbandonarlo quando la marcia aveva già avuto avvio.
Tali commenti, in effetti, riprendono le accuse lanciate già nel 1862 dagli ambienti garibaldini e mazzininiani ma, a smentirle, basterebbero gli interventi degli antichi commilitoni di Garibaldi, come Cucchi e Türr, o di Medici che, inviandogli il proclama del Re, lo scongiurava di evitare la guerra civile. A Regalbuto, prima di imbarcarsi per la Calabria, il generale fu raggiunto da una delegazione di deputati della Sinistra, latrice di una missiva firmata anche da Crispi di simile tenore. Ed egualmente infruttuosa.
L'unico elemento certo è che nel marzo 1862 Garibaldi era a Torino e vi incontrava più volte il Re, e Rattazzi. Ma mai nessun documento è giunto a corroborare le tesi “cospirative”.
Certamente il desiderio di vedere liberate Venezia e Roma era autenticamente popolare e restavano obiettivi fortemente condivisi dai governi. Ma ciò non basta ad accusare di un simile errore politico. Semmai dimostra il coraggio ed il senso dello Stato di chi si oppose.
La tesi che Rattazzi abbia davvero pensato di convincere Napoleone III a lasciargli prendere Roma, per impedire ai radicali di conquistarla con la forza, appare, quindi, il retaggio di una antica tesi propagandistica di parte mazziniana.
Rattazzi era, invece, certamente responsabile di avere, in una prima fase, temporeggiato e fu costretto alle dimissioni nel novembre 1862.
[modifica] Conseguenze
[modifica] La leggenda nera del governo italiano
Il ferimento di Garibaldi ebbe grande risonanza: a Londra 100 000 persone si radunarono a Hyde Park per manifestare la loro solidarietà. Lord Palmerston offrì un letto speciale per la convalescenza dell'eroe.
Il partito mazziniano fece, in particolare, leva sull'episodio, per dichiarare tradito l'accordo tacito fra i repubblicani e la monarchia. Mentre semmai erano stati i mazziniani a tradire gli interessi della Nazione.
Il governo venne accusato di aver combattuto “per il papa”. Di aver tradito la rivoluzione italiana.
I mazziniani non si fermarono di fronte a nulla: lo stesso Garibaldi (normalmente assai generoso) accusava, nelle Memorie, Pallavicini di aver comandato ai suoi soldati lo “esterminio” dei volontari. Nonostante l'evidenza dimostrasse il contrario.
E tali posizioni ebbero tale risonanza da essere ripetute ancor oggi da molti storici (es.: Dennis Mack Smith). Dimenticando la generale avversione con cui l'avventura dell'Aspromonte era stata accolta dai contemporanei in Italia, che ne comprendevano l'inattuabilità.
[modifica] La convenzione franco-italiana
Dimessosi Rattazzi, dopo un brevissimo governo guidato da Farini, nel 1863 il Re incaricò il moderato bolognese Marco Minghetti.
Facendosi forte della decisa azione italiana contro l'eroe nazionale, Minghetti fu in grado di negoziare un favorevole accordo con la potenza protettrice del Papa, la Francia: con la convenzione franco-italiana del 15 settembre 1864, il Regno d'Italia si impegnava a rispettare l'indipendenza del residuo “Patrimonio di San Pietro” e di difenderla, anche con la forza, da ogni attacco dall'esterno (ma non dall'interno); Napoleone III a ritirare le sue truppe entro due anni, in modo da lasciare all'esercito pontificio il tempo di organizzarsi in una credibile forza di combattimento.
Con la convenzione, senza pregiudicare le aspirazioni italiane su Roma, si otteneva l'importante risultato di eliminare dalla penisola ogni presenza militare francese. Si trattava di un obiettivo importante: lo stesso Garibaldi, all'inizio della spedizione dell'Aspromonte, aveva dichiarato inammissibile tollerare ulteriormente la presenza di truppe straniere in Italia.
Si otteneva, inoltre, il non intervento francese in caso che il potere temporale fosse stato rovesciato da un movimento popolare interno: il caso non si verificò ma, per comprendere l'importanza della concessione francese, occorre ricordare che Pio IX era stato cacciato già una volta dal popolo romano, appena 15 anni prima, nel 1849 (Repubblica Romana).
[modifica] Il trasferimento della capitale a Firenze
La convenzione includeva anche una clausola segreta, la vera contropartita italiana: il trasferimento della capitale da Torino a Firenze. Per manifestare il proprio disappunto (moti di Torino), il Re si disse non informato: licenziò Minghetti con un telegramma e, il 28 settembre 1864, lo sostituì con La Marmora. Quest'ultimo completò il trasferimento della capitale a Firenze in tempo record (3 febbraio 1865).
[modifica] La continuazione delle tensioni per Roma capitale
L'obiettivo dell'annessione di Roma rimaneva, comunque, assai popolare, né il regno d'Italia rinunciò al proposito di fare della città la sua nuova capitale, come sancito, a suo tempo, da Cavour in persona.
Solo cinque anni dopo, profittando della immensa popolarità derivatagli dalla vittoria di Bezzecca, Garibaldi avrebbe ritentato l'impresa (battaglia di Mentana).
Era di nuovo al potere Rattazzi, che, questa volta, agì preventivamente facendo arrestare Garibaldi. Ma quando il generale sfuggì rocambolescamente da Caprera e sbarcò in Toscana, Rattazzi fu costretto dal Re a rassegnare nuovamente le dimissioni (19 ottobre 1867), e terminò la sua carriera politica.
La questione romana venne risolta solo il 20 settembre 1870 quando, sconfitto Napoleone III dai Prussiani nella battaglia di Sedan e proclamata in Francia la repubblica, il governo di Giovanni Lanza fu, finalmente, libero di inviare un corpo d'armata al comando di Cadorna che entrava a Roma attraverso la Breccia di Porta Pia.
Da segnalare che a Cadorna vennero affiancati, come generali di divisione, due ex-garibaldini: Bixio e Cosenz.
[modifica] Ricordi
Per le operazioni in Aspromonte venne conferita la medaglia di bronzo alla 6^ ed alla 25^ brigata. Medaglia d'oro al valore individuale per grave ferita al tenente Luigi Ferrari.
La famosa canzoncina «Garibaldi fu ferito, fu ferito ad una gamba...» è rimasta, dal quel lontanissimo 1862, ancora assai popolare.
La pallottola estratta dal piede del Garibaldi è oggi esposta al Museo del Risorgimento di Roma, al Vittoriano.
Il punto dove fu ferito Garibaldi è oggi ricordato da un cippo: Cippo Garibaldi. Ancora sopravvive il pino al quale il generale, ferito, si era appoggiato.
Ancor oggi, quando taluno vuole accusare un governo italiano di tradire le aspettative popolari o di tradire la Nazione, cita la giornata dell'Aspromonte: nel primo caso a proposito, nel secondo certamente no.
[modifica] Note
- ^ Guarnieri a Crispi, da Palermo, 1 luglio 1862.
- ^ Quello, per sintetizzare, degli ex-mazziniani, in parte repubblicani, all'opposizione rispetto alla maggioranza moderata al Parlamento Italiano, favorevoli alla continuazione di una politica rivoluzionaria rispetto alla questione di Venezia e Roma e, dunque, ostili alla alleanza con il Secondo Impero di Napoleone III.
- ^ Bezzi a Castiglioni, 13 luglio 1883.
(4): a proposito della ferita al piede sinistro vedi lettera dell'agosto 1876 dalle terme della antica Querciolaia ". i bagni mi hanno tolto un resto di incomodo al piede sinistro".
[modifica] Bibliografia
- Eva Cecchinato, Camicie rosse - I garibaldini dall'Unità alla Grande Guerra, Laterza, 2007.