Sita
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Sītā (sanscrito सीता) è nell'induismo la sposa di Rāma, settimo avatāra di Śrī Viṣṇu, e secondo alcune interpretazioni incarnazione di Lakṣmī, eterna consorte del dio.
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[modifica] Ramayana
Per approfondire, vedi la voce Ramayana. |
Sītā è una dei protagonisti dell'epica induista Rāmāyaṇa, che narra per l'appunto le gesta di suo marito Rāma. Secondo la versione più nota del poema, Sītā fu trovata nel solco di un campo arato, ed è pertanto ritenuta figlia di Bhumi, devi della terra; fu trovata da Janaka, re di Mithila, che la portò alla moglie Sunayana decidendo di adottarla. Quanto Sītā raggiunse la maggiore età, il re indì un torneo swayamwara promettendola in sposa a chi fosse riuscito a scagliare una freccia dal possente arco di Śiva, in suo possesso; l'unico che riuscì nell'impresa fu Rāma, principe di Ayodhya, grazie alla sua natura divina in quanto avatar di Viṣṇu.
[modifica] Esilio e rapimento
Non molto tempo dopo il matrimonio, la situazione nel regno di Ayodhya diventa tale che Rāma è costretto a trascorrere un periodo di esilio nelle foreste di Dandakaranya; Sītā, per amore e ritenendolo suo dovere, rinuncia agli agi del palazzo reale per seguire il marito nel suo esilio, adattandosi a vivere nella foresta, dove però viene rapita da Ravana, re di Lanka, uno dei pretendenti alla sua mano nel torneo organizzato dal padre, mentre Rāma è a caccia. Jatayu, re degli avvoltoi, interviene in suo soccorso ma viene sconfitto da Ravana, che gli strappa le ali, ma sopravvive abbastanza a lungo da riferire a Rāma l'accaduto.
Ravana la tiene prigioniera nella sua lontana isola per tutta la durata dello scontro con gli eroi radunati da Rāma; durante la sua prigionia ella respinge più volte le attenzioni del suo potente rapitore, e non vacilla mai nella sua determinazione di pensare all'onore di suo marito sopra ogni cosa. La guerra si conclude infine con la vittoria di Rāma dopo una tremenda battaglia, e Sītā può tornare con lui al suo regno, essendo nel frattempo finito il periodo di esilio. La coppia viene accolta con grandi feste, e nella cerimonia di incoronazione tutti gli eroi che hanno partecipato alla battaglia vengono ampiamente ricompensati con doni regali o divini.
[modifica] Dopo il rapimento
Quest'ultima parte dell'epica, Luv-Kush kanda, è molto dibattuta, e diversi studiosi sostengono che sia stata scritta successivamente all'opera originale di Valmiki; molte organizzazioni induiste moderne la disconoscono completamente.
Sebbene l'amore e la fiducia di Rāma nei suoi confronti non vengono mai a mancare, parte del popolo di Ayodhya trova difficile credere che nella sua lunga prigionia Sītā non abbia mai ceduto alle lusinghe di Ravana. Un popolano, infuriato con la moglie infedele, esclama di non essere come il pusillanime Rāma, e che non avrebbe accettato di riprendere con sé una moglie che aveva vissuto nella casa di un altro uomo: questa circostanza viene riferita a Rāma, che non dubita della fedeltà di Sītā.
Tuttavia, egli capisce che la sua posizione come sovrano è minata da questa possibilità di calunnia sul suo regno e sulla sua dinastia, perciò arriva a desiderare l'allontanamento di Sītā dal palazzo reale; Sītā quindi è costretta ad affrontare un nuovo esilio, e stavolta è anche incinta, e trova rifugio nell'eremo del saggio Valmiki, dove partorisce e cresce i gemelli Lava e Kusha, che diventano valorosi e saggi, e una volta cresciuti vengono riaccolti dal padre nella dinastia reale. Avendo potuto assistere a questo evento, Sītā prega sua madre, la devi della terra Bhumi, di liberarla dalla vita che le aveva donato così pochi momenti di felicità, così la terra si apre sotto i suoi piedi e Bhumi, manifestandosi a lei, la conduce in un mondo migliore.
[modifica] Altre tradizioni
Si raccontano altre due versioni della storia di Sītā, notevoli in quanto vanno contro l'interpretazione comune di Sītā come avatar di Lakṣmī.
[modifica] Vedavati
In alcune versioni del Rāmāyaṇa, il rishi Agastya racconta a Rāma che Sītā è la reincarnazione di una fanciulla di nome Vedavati.
Il saggio Kushadhwaja era un pio studioso delle scritture che viveva in un eremo. Sua figlia Vedavati divenne una ardente devota di Viṣṇu, e decise sin dall'infanzia che non avrebbe sposato nessun altro che Viṣṇu, rifiutando le proposte di potenti re e esseri celesti, tra cui Sambhu, potente re Daitya. Infuriato per il rifiuto, questi uccise i genitori di Vedavati in una notte senza luna.
Vedavati continuò a vivere nell'eremo dei genitori e meditare su Viṣṇu; Ravana, re di Lanka, la vide meditare e fu colpito dalla sua bellezza, così chiese la sua mano, ottenendo un rifiuto. Infuriato, la insultò e infine molestò, così che la fanciulla, perduta la speranza di essere scelta dal dio si immolò su una pira, esprimendo il giuramento di tornare per segnare la rovina di Ravana.
Vedavati così rinasce come Sītā, sposa di Rāma, e diviene la causa diretta della fine di Ravana; al contempo, ella ottiene ciò a cui aspirava, cioè essere la moglie di Viṣṇu, essendo Rāma un suo avatar.
[modifica] Figlia di Ravana
In alcune parti dello stato indiano di Kerala si racconta un'altra versione della storia di Sītā, basata sulla precedente e sull'antica tradizione indiana per cui i propri nemici saranno reincarnati come propri figli in seguito al karma prodotto dalle proprie azioni malvagie.
Mandodari, moglie di Ravana, trova impossibile perdonare al marito la sua arroganza e i suoi misfatti, in particolare nei confronti di Vedavati; quando scopre di essere incinta, temendo che il voto di vendetta di Vedavati possa estendersi anche al bambino, va via dall'isola e si reca dal padre, poi si avventura in una serie di pellegrinaggi, al fine di impedire a Ravana e ai suoi fedeli di scoprire il suo stato, e cercare al contempo una casa sicura per il bambino, lontana dal padre. Durante il suo viaggio scopre che Janaka, pio re di Mithila, uomo di animo nobile e nobile discendenza, vuole celebrare uno yagya per chiedere agli dei la grazia di un figlio. Poco dopo a Mandodari nasce una figlia femmina, e poco prima che Janaka cominci ad arare un campo per preparare il rituale riesce a nascondere in esso la bambina; così il re Janaka la trova e l'adotta, dandole il nome Sītā. Soddisfatta, Mandodari torna da suo marito e riprende la sua solita vita nascondendo per sempre al marito quanto accaduto.
[modifica] Etimologia del nome
La parola "sītā" indica in sanscrito il solco tracciato dall'aratro, e nel Rig Veda è citata una dea con questo nome, protettrice dei campi coltivati e dei buoni raccolti. Nella più antica cultura indiana, dove l'agricoltura era la principale fonte di sostentamento, il nome era simbolo di prosperità e benedizione divina.
[modifica] Bibliografia
- Maharishi Valmiki, "Ramayana", Edizioni Vidyananda
- R. K. Narayan, "Il Ramayana raccontato da R.K. Narayan", Biblioteca della Fenice
- (EN) David Kinsley, "Hindu Goddesses: Vision of the Divine Feminine in the Hindu Religious traditions", ISBN 81-208-0379-5
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