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Reato omissivo improprio - Wikipedia

Reato omissivo improprio

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Il reato omissivo improprio deriva dalla traslazione in ipotesi omissiva di una fattispecie commissiva di parte (o di legislazione) speciale, operazione resa possibile dalla previsione di cui all'art. 40 ultimo comma, del Codice penale italiano. Tale norma precisa che "non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo". Ebbene, tale previsione svolge una importantissima funzione nel nostro ordinamento penale, poiché, come intuibile, equipara la posizione di colui che commette attivamente un reato, cioè tramite un'azione concreta, a quella di colui che commette il medesimo reato, ma non attraverso un'azione, bensì una omissione. L'omissione è qui intesa come un "non fare", cioè un rimanere inerti di fronte ad un certo evento che è in fase di svolgimento, un evento nel quale l'agente si pone alla stregua di un "passivo osservatore". Detto ciò, va anche detto che l'importanza di questa equiparazione tra il compiere attivamente un'azione e l'ometterla, deriva dal fatto che, in caso contrario, l'unica forma di responsabilità penale ipotizzabile, sarebbe rimasta quella attiva, tranne per gli sporadici casi di ipotesi in cui il reato mediante omissione non è già codificato dal Legislatore in una espressa norma incriminatrice, si pensi ad esempio al 593 c.p., che incrimina l'omissione di soccorso. In questi casi si parla di reati omissivi propri, in quanto espressamente previsti come tali da una precisa fattispecie di parte (o di legislazione) speciale. La ratio della norma di cui al 40 u.c., è da rinvenire nelle esigenze solidaristiche di cui il Codice Penale del '30 (anche detto "Codice Rocco", dal nome del Ministro Guardasigilli in carica al momento dell'approvazione del Codice stesso), sebbene saldamente imperniato sui principi autoritativi ed assolutistici propri dell'epoca in cui venne alla luce, già in parte iniziava a farsi carico. Le esigenze solidaristiche, tipiche di un Ordinamento in cui la convivenza sociale si evolve fino a pretendere dai propri cittadini non più il mero adempimento di obblighi a contenuto negativo, cioè di non fare determinate cose (e scaturenti in fattispecie di reato di natura chiaramente commissiva in funzione della violazione di quell'obbligo) ma più pregnanti obblighi a contenuto positivo, cioè di agire, di compiere delle azioni in tutela o aiuto di terzi che versano in stato di pericolo o di bisogno. Questo profondo mutamento socio culturale si inizia a riflettere anche in ambito penalistico trovando la sua più evidente forma di manifestazione nella norma di cui al capoverso dell'art. 40 c.p. Si iniziano cioè a punire anche condotte di pura inerzia, che contravvengono a specifici obblighi di agire, cioè di attivarsi al fine di impedire che certi eventi trovino verificazione. Ma la clausola di cui all'art. 40 c.p. si applica a chiunque resta inerte di fronte alla verificazione di un fatto di reato? Ovviamente no, se così fosse si finirebbe per allargare indiscriminatamente l'ambito delle condotte penalmente rilevanti, con evidente rischio di violazione dei principi di legalità (25 Cost. e 1 c.p.), tassatività e determinatezza della fattispecie penale. La risposta al quesito è in realtà insita nello stesso dettato normativo già richiamato. L'art. 40 cpv. infatti pretende il comportamento attivo in determinati casi non da parte di qualsivoglia soggetto, bensì solo da parte di colui o coloro che sono titolari di un preciso "obbligo giuridico di impedire l'evento". Il nesso che lega l'ambito di applicazione del 40 cpv alla condotta omissiva di un certo soggetto, rendendola penalmente rilevante, è dunque dato dalla esistenza di questo "obbligo giuridico". Trattare il tema del contenuto di questo concetto giuridico, equivale a trattare la problematica delle c.d. "posizioni di garanzia".{{|portale|diritto}}


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