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Metodo socratico - Wikipedia

Metodo socratico

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Il metodo socratico è un metodo dialettico d’indagine filosofica basato sul dialogo, descritto per la prima volta da Platone nei Dialoghi. Per la sua intrinseca natura è anche chiamato metodo “maieutico”.

Indice

[modifica] Maieutica

Il termine maieutica viene dal greco maieutiké (sottinteso: téchne). Letteralmente, sta per "l'arte della levatrice" (o "dell'ostetricia"), ma l'espressione designa il metodo socratico così come è esposto da Platone nel Teeteto. L'arte dialettica, cioè, viene paragonata da Socrate a quella della levatrice: come quest'ultima, il filosofo di Atene intendeva "tirar fuori" all'allievo pensieri assolutamente personali, al contrario di quanti volevano imporre le proprie vedute agli altri con la retorica e l'arte della persuasione (Socrate, e attraverso di lui Platone, si riferiscono in questo senso ai Sofisti). Parte integrante di questo metodo è il ricorso a battute brevi e taglienti in opposizione ai lunghi discorsi degli altri - ovvero la brachilogia - e la rinomata ironia socratica.

Nel racconto dello stesso Socrate, l'ispirazione per questo tipo di dialettica derivava proprio dall'esempio che il filosofo aveva tratto da sua madre, la levatrice Fenarete.

Si trovano spunti e rielaborazioni del termine nello stesso Platone, durante tutto il Rinascimento e altrove.

C'è da aggiungere che la maieutica comincia solo dopo le fasi del rapporto maestro-discepolo e dell'ironia. Il rapporto tra adulto e ragazzo (Socrate-discepolo) in Grecia, era una cosa lecita anche dal punto di vista erotico (quello che si ammirava in una persona erano l'intelligenza, la raffinatezza spirituale e non l'aspetto fisico). Socrate però non arrivava all'atto sessuale. Il discepolo a quel punto era libero di scegliere se continuare il rapporto da un punto di vista ideologico oppure andarsene. Continuando questo rapporto subentrava la fase dell'ironia (finzione). Socrate fingeva infatti di abbassarsi al livello culturale del discepolo ponendogli domande e rendendolo partecipe delle proprie. Solo in questo modo e attraverso il dialogo, Socrate riusciva a fare il lavoro della levatrice. Come la levatrice porta alla luce il bambino, Socrate portava alla luce le piccole verità dal discepolo.La maieutica è l'arte dell'insegnare un concetto. Socrate tuttavia non inculcava nei suoi interlocutori le proprie idee ma aiutava i "discepoli" a "partorire la loro verità".

[modifica] Metodo

Il metodo socratico, basato su domande e risposte tra Socrate e l’interlocutore di turno, procede per confutazione, ossia per eliminazione successiva delle ipotesi contraddittorie o infondate. Esso consiste nel portare gradualmente alla luce l’infondatezza di tutte quelle convinzioni personali che siamo abituati a considerare come scontate, come vere, e che invece rivelano, ad un attento esame, la loro natura di “opinioni”. Tale metodo è detto “maieutico” (ostetrico) in quanto è fondato non sul tentativo di vincere l’interlocutore con una propria verità, così come facevano i sofisti, ma su quello di condurre per mano l’interlocutore con una serie di brevi domande e risposte per arrivare a portare l'interlocutore a dichiarare la propria ignoranza: a riconoscere, cioè l'impossibilità di avere verità definitive. Aristotele ha attribuito a Socrate la scoperta del concetto e del metodo induttivo, visti come l’essenza del metodo scientifico, sostenendo però al contempo la loro inadeguatezza al trattamento dei problemi dell’etica. In realtà il dialogo socratico ha un profondo valore morale basato sul rispetto dell'interlocutore.

[modifica] In pratica

Il metodo può essere utilizzato da un professore capace per insegnare agli studenti non un certo insieme di nozioni, ma a pensare con la loro testa. Ecco alcuni fondamenti di questo metodo di insegnamento:

  • L’insegnante e gli allievi devono essere d’accordo sull’argomento da trattare.
  • Gli studenti devono accettare di rispondere puntualmente alle domande dell’insegnante.
  • L’insegnante e gli allievi devono convenire sul fatto che il procedimento razionale in questione debba avere almeno la stessa importanza dei fatti veri e propri (da cui il ragionamento prende le mosse, ma nei quali non deve esaurirsi, se il fine è veramente quello di oltrepassare gli angusti limiti dell’opinione per aspirare a delle conclusioni più “generali”).
  • L’insegnante dovrà mostrare agli allievi la maniera di evitare errori nel ragionamento; soprattutto, dovrà mostrare quanto radicata sia la tendenza a proporre le proprie convinzioni personali come verità ovvie ed immediatamente, condivisibili su un piano universale. (Questo richiede ovviamente un grande talento da parte del docente ed una grande rapidità nel valutare le risposte e nel formulare le domande che siano maggiormente in grado di portare avanti fruttuosamente il dialogo; il che non esclude che egli possa esser ripreso dagli allievi, ove questi individuino errori da parte sua).

Ovviamente si tratta di un metodo di “formazione” più che di “informazione” (come ha sottolineato Pierre Hadot), che rivela i suoi limiti all’interno di un’istituzione scolastica volta a valutare gli studenti e a consegnare titoli di riconoscimento. Certamente è innegabile la sua ricchezza dal punto di vista squisitamente pedagogico, soprattutto in quanto incoraggia un atteggiamento attivo nei confronti della conoscenza piuttosto che un atteggiamento passivo di ricorso all’autorità.

[modifica] Applicazione

Socrate ha spesso utilizzato il suo metodo ai fini della definizione di concetti morali quali la virtù, la pietà, la saggezza, la temperanza, il coraggio e la giustizia. Socrate non prende mai posizione a favore o contro una certa opinione (egli stesso dichiara a monte la sua ignoranza – caratteristica per la quale si narra che l’oracolo di Delfi l’avesse dichiarato l’uomo più saggio della Grecia, proprio per la consapevolezza della sua ignoranza della verità, mentre saggio non è chi, pieno delle sue personali convinzioni, non si rende conto della sua stessa incapacità di attingere alla verità), ma si sforza di condurre l’interlocutore a riconoscere che le sue non sono altro che congetture. Socrate ritiene infatti che non si possa accedere alla verità se non ci si libera prima delle “false opinioni” (ed in questo ricorda l’aneddoto di quel maestro zen che, dietro richiesta del visitatore di spiegargli lo zen, invitò costui a prendere il tè, riempiendogli la tazza fino a farne tracimare la bevanda. Allo stupore del visitatore il maestro rispose: “Sei come questa tazza, pieno dei tuoi preconcetti. Se non ti svuoti prima, come puoi apprendere lo zen?”).

[modifica] La confutazione nel dialogo socratico

Socrate dichiara il proprio "non sapere", perciò nessuna delle confutazioni che egli opera potrà essere basata sulla contrapposizione di una verità, che Socrate conosce, all’errore dell’interlocutore. Di conseguenza, Socrate si impone un metodo di discussione che faccia affidamento solo su ciò che l’interlocutore afferma, accetta e riconosce da sé.
Come si può dimostrare falsa un’affermazione senza contrapporgliene direttamente una vera? La risposta è: esaminando le conseguenze di tale affermazione. Dopo aver chiesto all’interlocutore di pronunciarsi esplicitamente e chiaramente su ciò che ritiene vero attorno ad un certo tema, Socrate procede derivando, da quello che l’interlocutore ha fissato come punto d’avvio, delle conseguenze, delle quali l’interlocutore non era chiaramente consapevole. Questa è la “messa alla prova” delle credenze dell’interlocutore.

La confutazione può avvenire in diversi modi, dotati di diverso grado di forza argomentativa.

  • Il modo più forte è quello della “reductio ad absurdum”, ben noto e brillantemente applicato nella matematica, ma anche nelle argomentazioni ontologiche e fisiche di Parmenide, Zenone di Elea e Democrito. In questo caso, dall’ipotesi esaminata derivano delle conseguenze che la contraddicono o che si contraddicono fra loro e l’ipotesi deve, perciò, essere scartata. L’applicazione nei dialoghi socratici di questa modalità non è, però, continua né esclusiva e neppure molto frequente.
  • Il secondo modo è la riduzione al falso: rispetto all’ipotesi o alle sue conseguenze vengono presentati degli esempi tratti dall’esperienza che non possono essere inquadrati entro l’ipotesi e perciò la contraddicono (chiamiamoli “controesempi”). Pur senza essere impossibile, l’ipotesi risulta - così - non vera; le cose non vanno come l’ipotesi prevede.
  • Una terza modalità, più debole, è il derivare, da una delle ipotesi sostenute dall’interlocutore, delle conseguenze che contraddicono altre convinzioni dell’interlocutore. A rigore, così, non si dimostra che l’ipotesi in questione sia falsa, ma solo che l’interlocutore sostiene diverse tesi che non possono essere tutte vere; almeno una di esse dovrà essere falsa, anche se non sappiamo quale. La discussione mette in risalto le contraddizioni che l’interlocutore portava con sé senza esserne consapevole.

Spieghiamo meglio queste tre modalità attraverso esempi e chiarimenti, vedendole, però, in ordine inverso: dalla più debole alla più forte.

[modifica] Il conflitto delle credenze nella mente dell’interlocutore

Questa più debole forma di confutazione è molto frequente nei dialoghi socratici e spesso prende l’aspetto più interessante ed affascinante. È soprattutto attraverso questa frequente modalità che l’insegnamento di Socrate si rivolge direttamente alla persona che egli “interroga” e ne svela i conflitti interni, svolgendo così una “terapia dell’anima”.
Presa di per sé, la si può chiamare confutazione solo in un senso improprio, perché, a regola, non sappiamo mai, da essa sola, quale delle tesi che si contraddicono sia da considerare confutata. Se le tesi in conflitto sono due, sappiamo solo che non possono essere entrambe vere, ma le altre possibilità rimangono tutte: può essere falsa l’una, o l’altra, o entrambe.

Prendiamo un esempio dall’Eutifrone. In un primo passaggio Socrate chiede ad Eutifrone se siano vere le storie mitologiche sugli dei e sui loro conflitti e sulle inimicizie intercorrenti fra loro. Eutifrone risponde affermativamente: la credenza in tale mitologia è una componente profonda della sua personalità e delle sue convinzioni. Poco dopo, però, Eutifrone - che si proclama esperto della santità (ossia di tutto ciò che riguarda il rapporto fra gli uomini e gli dei) - afferma che “pio” (o “santo”) è ciò che è “caro agli dei”. In sostanza egli sta sostenendo che esista un sapere attorno a ciò che è “caro agli dei” e che sulla base di tale sapere gli uomini (guidati da esperti, quali Eutifrone) possano regolarsi in pratica nei loro rapporti con essi. A questo punto Socrate fa notare l’incompatibilità fra la credenza nei miti sul conflitto fra gli dei (se questi ultimi sono in conflitto, ciò implica che gradiscano cose diverse) e la pretesa di conoscere ciò che è caro agli dei con la sicurezza che Eutifrone ostenta. Ciò che è caro agli dei sarà controverso (un dio amerà ciò che un altro odia) e – di conseguenza – il sapere compatto e sicuro attorno a tale soggetto, sarà impossibile.

Proviamo ora, a chiarire meglio questa particolare mossa del dialogo socratico. Uscendo per un attimo fuori dal contenuto letterale del testo, cerchiamo di immaginare alcune conseguenze estreme ed esemplari che si sarebbero potute trarre dalla difficoltà, se solo Eutifrone ne fosse stato più consapevole.[1] I tipi di esito sono tre:

  • si lascia cadere la credenza nei miti e si salva la convinzione che si possa avere un sapere attorno alla divinità. In questo caso la divinità si concepisce come qualcosa che non possa essere descritto con i racconti tradizionali, ma che è in sé razionale (conoscibile con l’indagine) e coerente. Il santo e l’empio saranno così derivabili senza rischio di contraddizioni da tale nozione della divinità. Questa è la soluzione che, senza che lo pronunci qui apertamente (è Eutifrone e non è lui, a dover sbrogliare la matassa!), Socrate mostra di preferire;
  • si conservano le credenze nel conflitto degli dei e si rinuncia a trovare una regola, comprensibile all’uomo e da lui applicabile in pratica, attorno a come rendersi graditi agli dei (la “scienza” del santo e dell’empio). La visione che ne deriva è quella di un universo “tragico”, nel quale coltivare ciò che è caro ad una divinità può metterci in balia dell’odio di un’altra, come in effetti accade a molti degli eroi epici e tragici raffigurati nella poesia greca: di fronte alle immani forze in conflitto del divino, sono inutili tutti gli espedienti della previdenza e del sapere dell’uomo;
  • si lasciano cadere entrambe le credenze. Per esempio con una posizione ateistica, oppure con una tesi simile a quella che sosterrà Epicuro (III sec. a.C.): gli dei, perfetti e beati, non hanno passioni negative (non è possibile pensarli in conflitto), ma, poiché sono perfetti, beati ed autosufficienti, sono anche indifferenti a ciò che fanno gli uomini e nulla di umano potrà essere loro odioso né gradito.

Come si vede, dalla confutazione che Socrate rivolge ad Eutifrone, non possiamo concludere nulla su quale delle due tesi sia da considerare falsa. Sappiamo solo che non si può pretendere di affermarle entrambe. In questo consiste la “debolezza” di questa modalità di confutazione.

[modifica] Controesempi e falsificazione

Questa modalità è di carattere oggettivo, poiché – a differenza della precedente - non si riferisce all’insieme delle credenze che sono nella mente di una persona ed alla loro compatibilità, ma alla verità di ciascuna di esse, a prescindere da chi le sostenga. In questo senso la possiamo dire “più forte”: se applicata correttamente, infatti, è tale da mostrare falsa la tesi a cui si rivolge. Per il chiarimento e per un esempio riportiamo un breve passo dalla Storia della logica dei coniugi Kneale,[2] nel quale tale modalità viene paragonata alla “reductio ad absurdum”: "Socrate aveva adattato ai propri fini il metodo di Zenone.[3] È difficile arrivare a qualcosa di certo sulla dottrina del Socrate storico, ma quei passi platonici che, per la loro drammaticità, sembrano la testimonianza più attendibile al riguardo, fanno pensare che Socrate non fosse meramente un amatore della conversazione filosofica, ma un uomo che praticava una ben definita tecnica di confutazione delle ipotesi: mostrare che esse comportassero delle conseguenze incompatibili o inaccettabili. [...] Ma si noti che la confutazione socratica differisce da quella zenoniana in questo: non v'è bisogno che le conseguenze tratte dalle ipotesi siano autocontraddittorie; in certi casi esse possono essere semplicemente false". Il caso delle conseguenze “semplicemente false” è esemplificato dai Kneale con un passo del Menone: nell'esame dell'ipotesi dell'insegnabilità della virtù, se ne deriva la conseguenza che, se la virtù fosse insegnabile, allora gli uomini più virtuosi l'avrebbero trasmessa ai loro figli; ma alcuni casi clamorosi di insuccesso di genitori illustri e virtuosi (Temistocle, Pericle...), i cui figli risultarono inetti, falsificano l'ipotesi. Qui l'ipotesi è smentita da un dato di fatto incompatibile con essa.

[modifica] Reductio ad absurdum

Veniamo ora alla più forte delle modalità di confutazione praticate da Socrate. Un esempio piuttosto elaborato di reductio ad absurdum applicato da Socrate lo troviamo nel dialogo intitolato Ippia minore . Alla conclusione del dialogo, Socrate porta l’interlocutore ad ammettere la tesi paradossale e urtante,[4] secondo la quale chi faccia il male volontariamente sia migliore di chi lo faccia involontariamente e – detto ancora più chiaramente – solo un uomo buono può fare il male volontariamente: "Dunque chi volontariamente erri e di propria volontà si comporti vergognosamente e ingiustamente, un simile uomo, sempre che esista, non può essere altro che l’uomo buono". La conclusione è contraddittoria e ciò è evidente se sostituiamo l’espressione finale l’uomo buono con la sua equivalente colui che non fa il male. E' questo il punto d’arrivo al quale il lettore del dialogo deve perciò giungere,[5] cioè che tale uomo non esista, ossia che nessuno faccia il male volontariamente.[6] Il Taylor riassume così il senso dell’argomentazione: "L’uomo che conosce veramente il bene ma sceglie qualcos’altro non può esistere, come non può esistere un quadrato rotondo ed è appunto perché tale persona non esiste che si possano asserire a proposito di lui i paradossi più audaci".[7]

[modifica] Note

  1. ^ In effetti, nel dialogo, di fronte alla difficoltà, egli si limita a dare una versione “mitigata” della propria duplice credenza: rivede la definizione del “santo” trasformandola in “santo è ciò che tutti gli dei amano, empio ciò che tutti gli dei odiano”, mentre non sarà né santo né empio ciò che alcuni dei amano e altri no.
  2. ^ W. C. e M. Kneale Storia della logica, a cura di A. Conte, Einaudi, Torino 1972, pag. 15
  3. ^ Il metodo di Zenone di Elea è la confutazione per “reductio ad absurdum”.
  4. ^ "Urtante" perché sembra, a prima vista, affermare che un malfattore volontario sia moralmente migliore di chi sbagli in un momento di debolezza; ma, come vedremo subito, non è questa la vera conclusione dell’argomentazione di Socrate.
  5. ^ Come si vede, ciò è suggerito, nella frase citata, dalla limitazione “un simile uomo, sempre che esista”.
  6. ^ Il risultato è una delle più caratteristiche tesi dell’etica socratica, alla quale ci si riferisce col termine intellettualismo socratico.
  7. ^ Alfred Edward Taylor Platone. L'uomo e l'opera, trad. it. di M. Corsi, La nuova Italia, Firenze, 1976, pag. 64.

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