Lo sport a Roma
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Lo sport presso gli antichi Romani era considerato in modo molto differente rispetto alla civiltà ellenica, pur attribuendole uguale importanza.
Innanzitutto i Romani non tolleravano la nudità degli atleti greci e ritenevano le loro esibizioni prive di finalità pratiche, come l'addestramento militare. Inoltre lo sport presso i Romani veniva interpretato in forma cruenta e spettacolare; questo si evince con la famosa espressione "panem et circenses": il pane e gli spettacoli erano gli elementi che tenevano quieta la "folla" dell’età romana. Se da una parte i poveri chiedevano da magiare e, quindi, pane, dall’altra gli spettacoli (feste, giochi, celebrazioni…) servivano a vincere la noia del popolo e a soffocare eventuali rivolte contro l’impero. In generale con il termine ludi vengono indicate le differenti competizioni sportive praticate nell’antica Roma. C’erano i ludi gladiatorii, i ludi circenses, i ludi scenici, i ludi Troiani e i ludi delle naumachie, accompagnati da altre tipologie di sport minori. I ludi gladiatorii, detti anche munera ( dal lat. “munus, eris” combattimento ma anche dono, ricompensa), erano di gran lunga i preferiti e consistevano nel combattimento uomo contro uomo. I combattimenti tra gladiatori erano già diffusi in Grecia, Egitto e Mesopotamia, dove non avevano funzione di spettacolo come a Roma, ma perlopiù unno sfondo sacro: durante i funerali di un personaggio illustre o eroico venivano tradizionalmente organizzati scontri tra uomini, che spesso collimavano con il sacrificio umano. Questo rito venne poi tramandato in Italia dagli Etruschi e comparve per la prima volta nell’Urbe intorno al 105 a.C., inizialmente come rituale funerario, poi, con Cesare, tale usanza degenerò e divenne spettacolo. Alla morte dello stesso imperatore, i munera cominciano ad essere praticati negli anfiteatri (dal gr. amphithéatron, da amphí, intorno, da ambedue le parti e théatron, teatro), un vasto edificio dalla pianta circolare, il cui esempio più valido è il Colosseo, detto anche anfiteatro flavio. In epoca romana i gladiatori venivano reclutati tra i condannati a morte o tra i prigionieri di guerra resi schiavi, come Spartaco (il quale attuò una rivolta di gladiatori tra il 73 e il 71 a.C.). In seguito partecipavano ai munera anche uomini liberi che facevano i gladiatori per professione; il loro scopo era il guadagno. Pur tuttavia si ricorda che la vita di un gladiatore, in media, non durava più di cinque anni. Ogni combattente veniva addestrato in alcune scuole speciali e dormiva in una cella sorvegliata da guardie. Si dedicava particolare attenzione alla loro efficienza fisica e alla loro alimentazione, basata su vegetali, carne e altri cibi, in prevalenza molto vitaminici; riguardo a questo, Seneca scrisse: “Mangiano e devono ciò che poi dovranno restituire col sangue”. Il combattimento si svolgeva secondo precise consuetudini. Dopo un corteo accompagnato dai suoni di vari strumenti, come la tromba, e dopo aver rivolto il tradizionale saluto all’imperatore che spesso presiedeva gli spettacoli (“Ave imperator, morituri te salutant”, che vuol dire “Salve imperatore, coloro che si apprestano alla morte ti salutano”) i gladiatori “scendevano in campo” ed iniziavano il combattimento. Lo scontro avveniva tra gladiatori dotati delle stesse armi o, in alcuni casi, di armi differenti l'uno dall’altro, per rendere lo spettacolo coinvolgente e il suo esito stesso più incerto. Potevano combattere con la spada corta (il glaudio, da cui presero il nome) o con una rete ed un tridente (in tal caso erano detti reziari), ma non si escludevano altre tipologie di armi e modalità di scontro, alcune vole piuttosto fantasiose. Alla fine dello scontro, il gladiatore sconfitto cedeva le armi e chiedeva la grazia al popolo-spettatore, sollevando la mano sinistra. Se tutti agitavano un fazzoletto o rivolgevano il pollice della mano all’insù, gridando “missum” (libero), la grazia era accordata. Ma qualora gli spettatori mostravano il pollice all’ingiù, veniva decretata la morte del combattente sconfitto, che offriva la sua gola alla spada del vincitore. I cadaveri erano portati via da degli incaricati in costume, uno vestito da Caronte e l’altro da Mercurio Psicopompo ( voce gr. psychopompós, guida delle anime, epiteto specialmente di Ermete e di Caronte, ma anche di altre divinità, con particolare riferimento al loro compito di guida delle anime dei morti all'oltretomba) che verificavano l’effettiva morte e, se era il caso, davano il colpo di grazia. Il gladiatore schiavo poteva essere affrancato, ossia liberato, solo in seguito a dieci vittorie, le quali venivano segnalate su un collare di metallo. Non tanto diffusi erano anche i combattimenti tra donne che, essendo piuttosto rari ed inusuali, scaturivano un particolare coinvolgimento da parte del pubblico. Cicerone, pur non approvando i combattimenti tra gladiatori, attribuiva loro un forte valore educativo per la sopportazione del dolore, mentre Seneca senz'altro li condannò e il cristianesimo vi si oppose decisamente ritenendoli spettacoli sanguinari e disumani. Proibiti da Costantino nella parte orientale dell'Impero nel 325, i ludi gladiatori vennero definitivamente soppressi da Onorio nel 404. Altre modalità di combattimento adibiti a spettacolo erano le venationes, in cui uomini variamente armati affrontavano belve di diverso genere: tigri, pantere, leoni, orsi, tori, bufali e persino elefanti. In tali occasioni, però, al combattente non veniva sempre concessa la possibilità di difendersi: a volte poteva capitare che malfattori e condannati a morte venivano pubblicamente gettati in pasto alle fiere (“ad fieras”). Un episodio del genere accadde proprio in occasione dell’inaugurazione del Colosseo: per rievocare il mito di Lareolus, che, dopo aver compiuto innumerevoli delitti, subì il supplizio della “crux”, un uomo venne realmente crocifisso e contro di lui fu mandato un orso che lo dilaniò in modo tale che “delle sue membra non si scorgeva più sembianza umana”. Altri esempi di giochi violenti erano il pugilato e la lotta e, in particolare, il pancrazio ( nome di origine graca: pancration, tutta forza, da pas, tutto, e cratos, forza). Si trattava di una gara atletica consistente in un combattimento misto di lotta e pugilato, in cui i contendenti si affrontavano a pugni nudi, senza cesto, su un terreno molle e sdrucciolevole. Era una sfida senza esclusione di colpi, il cui unico divieto era quello di mordersi. C’erano anche i cosiddetti ludi circenses, corse di cavalli o carri che avvenivano nel circo. I circhi furono numerosi a Roma: il più antico era il Circo Massimo, che misurava 670 × 215 m e in epoca imperiale poteva contenere fino a 385.000 persone. Altri erano il Circo Flaminio, il circo di Gaio (Caligola), il circo di Massenzio. Nelle province, i Romani ne costruirono in quasi tutte le città più importanti. Presentavano tutti la stessa pianta: la pista (arena) era divisa nel senso della lunghezza da un basamento (spina), ornato di statue, obelischi e fontane, ed era contornata dalla cavea con la loggia imperiale. Attorno alla spina correvano i carri, tirati da due, da quattro o anche da più cavalli, e compivano sette giri completi. In questi spettacoli era frequente che la gente scommettesse sui vari colori che contraddistinguevano le fazioni sfidanti. I ludi Troiani erano attività riservate ai figli dei nobili, che esercitavano attività equestre basate sullo scontro a cavallo. Avevano spade in legno ma non era previsto uno scontro cruento. I nobili gareggiavano tra loro per dimostrare il loro coraggio e il loro valore nel gestire e nel domare il cavallo. I ludi scenici erano rappresentazioni teatrali in cui si raccontavano miti e storie legate agli Dei oppure battaglie nelle quali i Romani erano stati vittoriosi. Il concetto di verosimilità era molto importante: spesso, infatti, si facevano recitare schiavi che, durante la riproduzione, venivano realmente uccisi. Venivano eseguiti anche molte danze e balletti. I ludi delle naumachie erano simulazioni di combattimenti navali con cui i Romani avevano sconfitto i popoli avversari. Venivano realizzati in specchi d’acqua naturali, come fiumi o laghi, o in appositi bacini progettati da ingegneri. Le navi non erano veri e propri galeoni, ma piccole imbarcazioni come triremi e quadriremi. Spesso gli schiavi venivano utilizzati per mettere in scena le battaglie e veniva dato loro il ruolo dei perdenti e non solo morivano nel “copione”, ma anche nella realtà. Era pratica comune anche la ginnastica nelle palestre annesse alle terme. La palestra era solitamente circondata da portici, aveva stanze adibite a bagni, spogliatoi, esedre con sedili. In seguito la sua funzione si estese e divenne sede di conversazioni e di scuola. Nelle terme i Romani erano soliti fare anche giochi con la palla che impegnavano il corpo in un salutare sforzo fisico. Si giocava a palla in locali appositi (sphaeristeria) per favorire la traspirazione e apprezzare poi ancor più gli effetti ristoratori del bagno. La palla era fatta con pelli di animali disseccate e riempite di lana o piume e anche, ma in modo assai rudimentale, d'aria. Tra i bambini erano diffusi giochi di origine grecoromana come il ludus latrunculorum (“gioco dei ladruncoli”) e il ludus duodecim scriptorum (“gioco dei dodici scrittori”), o il gioco dei dadi, degli astragali, delle biglie, delle bambole, della morra e della palla. A Roma, le gare atletiche vennero in auge soltanto negli ultimi due secoli della Repubblica, ma i migliori atleti professionisti furono ancora in gran parte greci o asiatici. Nel 393, alla loro 294ª edizione, l'imperatore Teodosio il Grande proibì la celebrazione dei giochi olimpici, che non ebbero mai la stesse grandezza come invece avvenne nella civiltà greca.