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Effetto fotoelettrico - Wikipedia

Effetto fotoelettrico

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Schema che illustra l'emissione di elettroni da una piastra di metallo
Schema che illustra l'emissione di elettroni da una piastra di metallo

L'effetto fotoelettrico rappresenta l'emissione di cariche elettriche negative da una superficie, solitamente metallica, quando questa viene colpita da una radiazione elettromagnetica.

Tale effetto, oggetto di studi da parte di molti fisici, è stato fondamentale per comprendere la natura quantistica della luce.

Indice

[modifica] Storia

La scoperta dell'effetto fotoelettrico va fatta risalire alla seconda metà del XIX secolo e ai tentativi di spiegare la conduzione nei liquidi e nei gas.

Nel 1880 Hertz, riprendendo e sviluppando gli studi di Schuster sulla scarica dei conduttori elettrizzati stimolata da una scintilla elettrica nelle vicinanze, si accorse che tale fenomeno è più intenso se gli elettrodi vengono illuminati con luce ultravioletta.

Nello stesso anno Eilhard Ernst Gustav Wiedemann e Hermann Ebert stabilirono che la sede dell'azione di scarica è l'elettrodo negativo e Wilhem Hallwachs trovò che la dispersione delle cariche elettriche negative è accelerata se i conduttori vengono illuminati con luce ultravioletta.

Nei primi mesi del 1888 il fisico italiano Augusto Righi, nel tentativo di spiegare i fenomeni osservati, scoprì un fatto nuovo: una lastra metallica conduttrice investita da una radiazione UV si carica positivamente. Righi introdusse, per primo, il termine fotoelettrico per descrivere il fenomeno.

Hallwachs, che aveva sospettato ma non accertato il fenomeno qualche mese prima di Righi, dopo qualche mese dimostrava, indipendentemente dall'italiano, che non si trattava di trasporto, ma di vera e propria produzione di elettricità.

Sulla priorità della scoperta tra i due scienziati si accese una disputa, riportata sulle pagine de Il Nuovo Cimento. La comunità scientifica tagliò corto e risolse la controversia chiamando il fenomeno effetto Hertz-Hallwachs.

Fu poi Einstein nel 1905 a darne l'interpretazione corretta, per la quale ricevette il Premio Nobel per la fisica nel 1921.

[modifica] L'esperimento di Lenard

Apparato sperimentale di Lenard
Apparato sperimentale di Lenard

L'effetto fotoelettrico fu rivelato da Hertz nel 1887 nell'esperimento che egli fece per generare e rivelare onde elettromagnetiche; in quell'esperimento, Hertz usò uno spinterometro in un circuito accordato per generare onde e un altro circuito simile per rivelarle. Nel 1900 Lenard studiò tale effetto, trovando che la luce incidente su una superficie metallica ne fa uscire elettroni, la cui energia non dipende dall'intensità della luce. I suoi risultati furono pubblicati sul vol. 8 di Annalen der Physik.

Quando la luce colpisce una superficie metallica pulita (il catodo C) vengono emessi elettroni. Se alcuni di questi colpiscono l'anodo A, si misura della corrente nel circuito esterno. Il numero di elettroni emessi che raggiungono l'anodo può essere aumentato o diminuito rendendo l'anodo positivo o negativo rispetto al catodo.

Detta V la differenza di potenziale tra A e C, si può vedere che solo da un certo potenziale in poi (detto potenziale d'arresto) la corrente inizia a circolare, aumentando fino a raggiungere un valore massimo, che rimane costante. Questo massimo valore è, come scoprì Lenard, direttamente proporzionale all'intensità della luce incidente. Il potenziale d'arresto è legato all'energia cinetica massima degli elettroni emessi dalla relazione

\left ( \frac {1}{2} m_e v^2 \right )_{max} = e V_0

dove me è la massa dell'elettrone, v la sua velocità, e la sua carica.

Ora, la relazione che lega le due grandezze è proprio quella indicata perché se V è negativo, gli elettroni vengono respinti dall'anodo, tranne se l'energia cinetica consente loro, comunque, di arrivare su quest'ultimo. D'altra parte si notò che il potenziale d'arresto non dipendeva dall'intensità della luce incidente, sorprendendo lo sperimentatore, che si aspettava il contrario. Infatti, classicamente, il campo elettrico portato dalla radiazione avrebbe dovuto mettere in vibrazione gli elettroni dello strato superficiale fino a strapparli al metallo. Usciti, la loro energia cinetica sarebbe dovuta essere proporzionale all'intensità della luce incidente e non alla sua frequenza, come sembrava sperimentalmente.

[modifica] Emissione di raggi catodici tramite esposizione di corpi solidi

Einstein, nel lavoro del 1905 che gli fruttò il Premio Nobel per la fisica nel 1922, fornisce una spiegazione dei fatti sperimentali partendo dal principio che la radiazione incidente possiede energia quantizzata. Infatti i fotoni che arrivano sul metallo cedono energia agli elettroni dello strato superficiale del solido; gli elettroni acquisiscono così l'energia necessaria per rompere il legame: in questo senso l'ipotesi più semplice è che il quantone cede all'elettrone tutta l'energia in suo possesso. A questo punto l'elettrone spenderà energia per arrivare in superficie e per abbandonare il solido: da qui si può capire che saranno gli elettroni eccitati più vicini alla superficie ad avere la massima velocità normale alla stessa. Per questi, posto P il lavoro (che varia da sostanza a sostanza) utile all'elettrone per uscire, si avrà che l'energia cinetica è pari a:

\frac {R}{N} \beta \nu - P

A questo punto detta ε la carica dell'elettrone e Π il potenziale positivo del corpo e tale da impedire perdita di elettricità allo stesso (il potenziale di arresto), si può scrivere:

\varepsilon \Pi = \frac {R}{N} \beta \nu - P

oppure, con i simboli consueti

e V0= h ν - P

che diventa

Π È = R β ν - P'

dove E è la carica di un grammo-equivalente' di uno ione monovalente e P il potenziale di questa quantità.

Ponendo, poi, E = 9,6 · 103, Π · 10-8 rappresenterà il potenziale in volt del corpo in caso di irradiazione nel vuoto.

Ora, ponendo P' = 0, ν = 1,03·1015 (limite dello spettro solare dalla parte ultravioletta), β = 4,866·10-11, si ottiene Π·107 = 4,3V: il risultato trovato è così in accordo, per quanto riguarda gli ordini di grandezza, con quanto trovato da Lenard.

Si può concludere che:

  1. l'energia degli elettroni uscenti sarà indipendente dall'intensità della luce emettente e anzi dipenderà dalla sua frequenza;
  2. sarà il numero di elettroni uscenti a dipendere dall'intensità della radiazione.

I risultati matematici cambiano se si rifiuta l'ipotesi di partenza (energia trasmessa totalmente)

Π E + P'R β ν

che diventa

Π E + P'R β ν

per la fotoluminescenza, che è il processo inverso.

Se poi la formula è corretta, Π(ν) riportata sugli assi cartesiani risulterà una retta con pendenza indipendente dalla sostanza. Nel 1916 Millikan esegue la verifica sperimentale di tale fatto, misurando il potenziale d'arresto e trovando che questo è una retta di ν con pendenza h/e, come previsto.

[modifica] Perché con elettroni legati

Quando un fotone colpisce la superficie del metallo, questi viene assorbito mentre l'elettrone sfugge alla superficie stessa del metallo. È interessante, ora, toccare con mano quali sono i motivi per cui un fotone non può essere assorbito da un elettrone libero.

Per l'energia dell'elettrone si può scrivere:

\hbar \omega = \frac {1}{2} m_e v_e^2 = \frac {p_e^2}{2 m_e}

da cui si ottiene il modulo dell'impulso dell'elettrone:

p_e = \sqrt {2 m_e \hbar \omega}

dove ħ è la costante di Planck, ω è detta pulsazione ed è pari a 2·π per la frequenza dell'onda incidente.

Oltre questa bisogna tener conto anche della conservazione del momento:

pγ = pe

dove pγ è l'impulso del fotone.

Il sistema è incompatibile, in quanto si hanno due equazioni e un'incognita (l'impulso dell'elettrone). Supponendo, però, di poterlo comunque risolvere, bisogna ricordare che:

p_\gamma = \frac {\hbar \omega}{c}

dove c è la velocità della luce. Eguagliando le varie equazioni si ottiene:

\hbar \omega = \frac {\hbar^2 \omega^2}{2 m_e c^2}

da cui

h ω = 2 me c2

ovvero l'elettrone riceve un impulso pari a tre volte la sua massa (in energia); infatti la conservazione dell'energia può essere scritta come:

\hbar \omega = E_f = \sqrt {m^2 c^4 + p_e^2 c^2}

dove l'energia finale (quella dell'elettrone) è scritta in modo relativistico.

Sempre utilizzando equazioni relativistiche, si può vedere ancora meglio come il processo di assorbimento della radiazione sia impossibile con un elettrone libero. Si possono scrivere i quadri-impulsi iniziale e finale

p_i^\mu = \left ( m_e , \vec p_\gamma \right )
p_f^\mu = \left ( E_e , \vec p_e \right )

Per la conservazione dei quadri-impulsi e per l'invarianza delle loro norme si ottiene

me2c4 - pγc2 = Ee2 - pγ2c2 da cui me2c4 = Ee2

ovvero l'energia totale dell'elettrone è rimasta invariata: come dire che il fotone è scomparso e l'elettrone non ne ha risentito.

[modifica] Bibliografia

  • Albert Einstein, Emissione e trasformazione della luce, da un punto di vista euristico, tratto da Teoria dei quanti di Luce, Edizioni Newton Compton
  • Paul A.Tipler, Invito alla fisica, Edizioni Zanichelli
  • Mario Gliozzi, Storia della fisica, Edizioni Bollati Boringhieri

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