Palinodia
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Palinodia è il termine che indica ogni componimento poetico che si configura come una ritrattazione di parole o idee precedentemente espresse. La parola deriva dal greco: secondo la definizione del lessico Suda,
(GRC)
« Παλινῳδία δὲ ἐναντία ᾠδή, ἢ τὀ τὰ ἐναντία εἰπεῖν τοῖς προτέροις »
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(IT)
« Palinodia: Canto opposto, o dire il contrario di quanto detto prima »
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(Suda, lettera Π, 100)
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La parola è composta infatti dell'avverbio πάλιν (pálin, sia "di nuovo" che "all'indietro") e dal sostantivo ᾠδή (ōdé, "canto").
[modifica] Nella letteratura greca
Le più antiche attestazioni della parola sono nell'Elogio di Elena di Isocrate e nel Fedro di Platone, ed entrambe riportano che questo era il titolo di una elegia del poeta Stesicoro.
Questi infatti, in una delle sue elegie ispirata alla versione omerica della guerra di Troia, aveva insultato Elena attribuendole le cause del conflitto, e come conseguenza avrebbe perso la vista a causa di una maledizione infertagli dai Dioscuri o da Era.
Capito l'errore commesso, si affrettò a cercare il perdono e a ritirare quanto affermato, componendo la Palinodìa di cui si conosce solo il seguente frammento:
(GRC)
« Οὐκ ἔστ'ἔτυμος λόγος οὗτος
οὐδ'ἔβας ἐν νηυσὶν εὐσέλμοις οὐδ'ἵκεο Πέργαμα Τροίας » |
(IT)
« In tutta questa storia, non c'è nulla di vero:
tu non andasti mai sulle navi compatte, agli spalti di Troia tu non giungesti mai. » |
(trad. di F.M. Pontani, in I lirici greci, Einaudi, 1969, Torino)
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Questa teoria si basa su una variante della leggenda per cui non sarebbe stata Elena ad andare a Troia con Paride, bensì una sua immagine (εἴδωλον). Secondo questa teoria, che ritroviamo proposta da Euripide nella sua Elena, la protagonista del mito sarebbe stata trasportata in Egitto, alla corte di Proteo, per essere tenuta al sicuro durante la guerra di Troia.
[modifica] Nella letteratura latina
Lo scoliaste Pomponio Porfirione nel suo commento all'opera di Orazio mette in evidenza come l'Epodo n. 17 si configura come una palinodia: in esso la strega Canidia strappa al poeta parole di supplica perché lo lasci in pace; i versi 36-41 recitano
(LA)
« Quae finis aut quod me manet stipendium
Effare; iussas cum fide poenas luam, paratus expiare: seu poposceris centum iuvencos; sive mendaci lyra voles sonare: "Tu pudica, tu proba! Perambulabis astra sidus aureum!" » |
(IT)
« Qual fine o quale punizione mi rimane?
Sentenzia; sconterò lealmente le pene da te ordinate pronto all'espiazione: sia che tu abbia chiesto cento giovenche, sia che tu voglia farmi suonare su lira bugiarda: "Tu pudica, tu onesta! Percorrerai le vie astrali tu stella dorata! » |
(Orazio, Epodi XVII, 36-41)
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Il commentatore collega questo passo all'episodio stesicoreo, ma rileva l'intenzione antifrastica del passaggio: la lode sperticata non sarebbe altro che una palese presa in giro. La ritrattazione dunque si configura qui come una dimostrazione per assurdo di quanto precedentemente affermato.
Questa particolare strategia retorica sarà in seguito riproposta dagli autori più avveduti delle letterature successive.
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