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Alfredo Graziani - Wikipedia

Alfredo Graziani

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Alfredo Graziani (Tempio Pausania2 gennaio 1892 – 8 agosto 1950) è stato un militare italiano. Partecipò alla prima e alla seconda guerra mondiale, alla campagna d'Etiopia ed alla guerra civile spagnola. Fu uno dei personaggi più celebri fra i sardi che combatterono la prima guerra mondiale ed è noto soprattutto nella storia della Brigata Sassari.

Indice

[modifica] La formazione

Nacque a Tempio Pausania il 2 gennaio 1892 da Carlo e Battistina Morla. La famiglia apparteneva all’alta borghesia cittadina: il nonno paterno Giovanni (nato a Cagliari il 9 febbraio 1812 e morto a Tempio Pausania il 26 febbraio 1882) era stato Consigliere di Corte d’Appello ed il nonno materno Francesco Morla (nato a Bortigali il 28 dicembre 1825 e morto a Tempio il 14 marzo 1890) Cancelliere di Pretura.

Alfredo trascorse l’infanzia e frequentò le prime scuole a Tempio; studiò poi al ginnasio in parte nel capoluogo gallurese (fino alla seconda ginnasio) e in parte a Livorno dove per pochi anni si era trasferita la famiglia (una fotografia del 1908 lo ritrae nella scuola di Livorno). Svolse il servizio di leva in cavalleria frequentando la scuola allievi-ufficiali di Pinerolo, da cui si congedò nel 1914; quindi il 30 ottobre si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza presso l’Università di Pisa.

[modifica] La grande guerra

Con la partecipazione dell’Italia alla prima guerra mondiale (dopo un anno di neutralità, nel 1915), fu richiamato alle armi nel XVIII reggimento di cavalleria «Piacenza», come ufficiale d’ordinanza del generale comandante della brigata. Non era però uomo da retrovie, e infatti ottenne di far parte dei corpi combattenti sin dai primi giorni di guerra.

Come racconta Emilio Lussu nel suo celeberrimo Un anno sull’altipiano dove Graziani rivive nella figura del tenente Grisoni, accadde che, morto il generale, «in seguito ad una ferita di granata», egli era voluto rimanere nella brigata e prestava servizio nel suo battaglione. «Come ufficiale di cavalleria, non poteva essere assegnato ad un reparto di fanteria, ma il comandante generale della cavalleria gli aveva accordato un’autorizzazione speciale, con il diritto di conservare ordinanza e cavallo». Gli fu affidato il comando della XII compagnia e divenne conosciuto in tutta la brigata.

Subito dopo l’arrivo in trincea fu praticamente lui ad inaugurare, il 21 agosto 1915, la tradizione tipicamente “sassarina” delle “azioni ardite”. La sua fu — disse Lussu — un’azione «di una audacia estrema»: «comandante di un plotone di volontari uscì dai reticolati tra Bosco Lancia e Bosco Triangolare con un reparto di 30 uomini — così recita la motivazione della medaglia al valore assegnatagli —, «attaccò con slancio singolare il nemico, continuò claudicante nell’azione che ebbe per risultato l’occupazione del trinceramento avversario e la cattura di 87 nemici, fra cui due ufficiali, e una mitragliatrice». L’impresa cosiddetta del «dente del groviglio» (solida trincea avanzata, difesa da un battaglione di ungheresi) gli valse la medaglia di bronzo al valore militare.

«Animo generoso e ardimentoso» lo ricorda Giuseppe Tommasi, «spirito entusiasta e generosissimo che fece tutta la guerra fra i sardi e fu ferito varie volte», «quadrato e massiccio uomo di azione e di cuore», «un nobile esempio per i soldati, che lo seguivano ammirati ed entusiasti», Leonardo Motzo. In un suo stato di servizio del 1915 Lussu dice che i «suoi uomini» addirittura lo idolatravano.

Graziani «era una figura caratteristica nella Brigata col suo bavero verde di cavalleggero», ricorda Motzo. Caratteristica non solo per l’audacia guerriera ma anche per un certo star fuori dalle rigide regole della disciplina militare. Oltre che per le imprese militari egli infatti divenne celebre per altre gesta che di militare non avevano proprio nulla. Racconta Lussu: «Una sera, mentre stavamo a riposo, dopo aver bevuto e frammischiato, senza eccessiva misura, alcuni vini di Piemonte, a cavallo, era penetrato, ugualmente di sorpresa, nella sala di mensa, in cui pranzava il colonnello con gli ufficiali del comando del reggimento. Egli non aveva pronunciato una sola parola, ma il cavallo, che sembrava conoscere perfettamente le gerarchie militari, aveva lungamente caracollato e nitrito attorno al colonnello. Per questo fatto diversamente apprezzato, poco era mancato che non fosse rimandato alla sua Arma».

Sempre lui, Graziani, fu poi a capo della fanfara fatta dal I plotone del battaglione con improvvisati strumenti (al posto della tromba una grande caffettiera di latta, per clarini e flauti pugni chiusi da cui levando ora un dito ora l’altro fuoriuscivano soffi d’aria e quindi suoni variamente modulati, e poi coperchi di gavetta, vecchi recipienti di cuoio o di tela) nella piazza del municipio del paese di Ajello dinanzi al comandante della brigata, il comandante del reggimento e le autorità civili della città. È sempre Lussu che racconta: «La compagnia di testa, per quattro, marciava, marziale. I soldati erano infangati, ma quella tenuta da trincea rendeva più solenne la parata. Arrivato all’altezza delle autorità, il tenente Grisoni (cioè Graziani) si drizzò sulle staffe e, rivolto alla compagnia, comandò: - Attenti a sinistra! Era il saluto al comandante di brigata. Ma era anche il segnale convenuto perché il I plotone entrasse in azione. Immediatamente, si svelò tutta una fanfara accuratamente organizzata. [...] . Ne risultava un insieme mirabile di musicata allegria di guerra. Il comandante di brigata s’accigliò, ma infine sorrise».

E ancora anticonformista e “di fegato” Graziani fu in occasione d’una festa d’accoglienza al reggimento organizzata dal sindaco di quel paese, dove i soldati si erano acquartierati: accadde che il discorso del primo cittadino, non propriamente felice e augurale alle orecchie dei soldati, fu da lui stigmatizzato con ironia in alcuni dei passaggi più infelici. Lussu racconta infatti che mentre il sindaco indugiava sulle «belle attrattive» della guerra, «il tenente di cavalleria salutò, facendo tintinnare gli speroni, come se il complimento fosse rivolto particolarmente a lui». E quando il sindaco inneggiò «Viva il nostro glorioso re di stirpe guerriera!», Graziani, che era «il più vicino ad una grande tavola coperta di coppe di spumante», rapidamente «ne afferrò una ancora piena, la levò in alto e gridò: Viva il re di coppe!». Nel gioco delle carte il re di coppe è quello che vale meno, e per il colonnello «fu un colpo in pieno petto. Guardò il tenente stupito, come se non credesse ai suoi occhi e alle sue orecchie. Guardò gli ufficiali, per fare appello alla loro testimonianza, e disse, più desolato che severo: Tenente Grisoni, anche oggi lei ha bevuto troppo. Favorisca abbandonare la sala e attendere i miei ordini. Il tenente batté gli speroni, s’irrigidì sull’attenti, fece un passo indietro e salutò: Signor sí! E uscì, con il frustino sotto il braccio, visibilmente soddisfatto».

Dimessi i panni del soldato intemerato e un po’ sfrontato, Graziani era un giovane distinto e soprattutto un dongiovanni, se è vero che Camillo Bellieni, uno dei fondatori del Partito Sardo d'Azione, anche lui nella Brigata, ricordando come Lussu fosse stato «uno degli ufficiali più eleganti e fortunati» in fatto di donne, precisò che poteva «ricever dei punti solo da Alfredo Graziani, che nella sua qualità di cavalleggero e d'ordinanza del Generale godeva fama di rubacuori irresistibile». Come nello stile del tempo, portava folti baffi, che le annotazioni riportate in una sua tessera militare di riconoscimento del luglio 1917 indicavano di colore castano così come i capelli e gli occhi. Inoltre era bruno di carnagione e abbastanza alto per l’altezza media dei sardi del tempo, 1.73. Nelle fotografie che lo ritraggono egli appare spesso con la sigaretta in bocca. Era, e sarebbe rimasto, infatti, un accanito fumatore: diceva di fumare «una sola sigaretta al giorno», perché con la cicca ormai da buttare ne accendeva subito un’altra, ha detto il figlio Francesco.

Il 27 settembre 1916 fu ferito gravemente ad un piede dallo scoppio di una bomba e anche in quell’occasione si mostrò ardimentoso e intrepido come sempre: «E lui — annotò Tommasi — se ne è andato via in barella, ridendo e salutando tutti, come se niente fosse, caro il nostro cavalleggero di Piacenza!». Rientrò in trincea il 10 aprile 1917, «forzando i tempi di una guarigione che in realtà non sarà mai completa» e che gli comporterà continue visite e ricoveri in ospedali: «dolori atroci sopiti a sua insaputa con dosi massicce di morfina lo segneranno profondamente». Per lui occorreva essere con i suoi fanti, anche se per camminare dovette servirsi a lungo dell’appoggio di un bastone: quando non si poteva «portare sulle linee del fuoco» l’aiuto della propria validità fisica, era di grande importanza dare il proprio sostegno morale. A fine ottobre, dopo circa tre anni, cedette al capitano Mariani il comando della dodicesima compagnia per assumere quello della seconda compagnia. Ma ormai la sua guerra era finita.

Lasciò il fronte nel marzo 1918 con una licenza per 45 giorni di convalescenza impostagli dai medici, e ritornò a Tempio. In Sardegna, invece, il tribunale sanitario lo dichiarò inabile per altri sei mesi: li trascorse dedicandosi «con tutta l’anima, alla preparazione, soprattutto morale dei partenti al fronte», ma sempre col rimpianto e il senso di colpa per essere lontano dal fronte, impossibilitato a partecipare alle drammatiche ma esaltanti giornate del Piave e all’ultimo balzo verso Vittorio Veneto, a non poter riscattare i tanti morti, tra cui suo fratello Francesco morto in prigionia per malattia il 4 marzo 1918, e a lui molto affezionato.

[modifica] Il dopoguerra

Nel dopoguerra, nel 1919, con Diego Pinna e Gavino Gabriel, fu uno dei capi della sezione tempiese dell’Associazione nazionale combattenti che fornì i quadri sia alla locale sezione del Partito sardo d’azione (la prima in Sardegna), sia a quella del Fascio dei combattenti (anche questo il primo in Sardegna). Sembrava destinato a svolgere un ruolo importante nelle vicende politiche della Sardegna di quegli anni: infatti, in seguito al primo congresso regionale del Psd’Az (Oristano, 16-17 aprile 1921) venne eletto nel direttivo provinciale di Sassari insieme con personaggi del calibro di Luigi Battista Puggioni e Luigi Oggiano (anche se, a dire il vero, la sua nomina sembra quasi una cooptazione a spese di Diego Pinna che fu fin dal principio il vero leader del partito a Tempio e in Gallura: influì sicuramente in tale elezione la notorietà ottenuta sul fronte, anche se non è da escludere qualche indicazione agli elettori in suo favore da parte di Lussu e Camillo Bellieni — il teorico del sardismo — suoi amici).

Poi, invece, il suo nome si eclissa e non lo troviamo più né come uno dei capi del Psd’Az (già dall’anno successivo, il 1922, non fa più parte del direttorio) né del Partito fascista, restando così al di fuori delle roventi vicende del cosiddetto sardo-fascismo, il movimento politico che vide gran parte dei dirigenti e dei quadri del Psd’Az confluire nel partito fascista e assumervi un importante ruolo di guida (a Tempio è il caso di Diego Pinna, che ebbe tuttavia per alcuni anni qualche difficoltà ad imporre la sua leadership a causa della tardiva adesione al regime rispetto ad altri sardisti).

È possibile che in questo suo abbandono della scena politica avessero influito sia la sua poca propensione al “mestiere”, sia motivazioni più contingenti come quella di portare a termine gli studi universitari, interrotti a causa della guerra, per conseguire la laurea in Giurisprudenza a Sassari, probabilmente nel 1922. Nel settembre di quell’anno si iscrisse infatti all’albo dei procuratori legali, intraprendendo così la carriera forense.

Nel 1923 sposò Maria Corda, figlia di Pietro Corda e Caterina Azzena, contraendo così parentela con altre due famiglie che avrebbero avuto grande peso nella gestione politica e amministrativa della città e del territorio durante il fascismo. Dal matrimonio ebbe tre figli, Carlo, nel 1925, Francesco nel 1928 e Caterina nel 1937.

Nel 1926 fu tra i candidati del listone fascista per le elezioni comunali. L’adesione al fascismo, però, dovette maturare un po’ tardivamente, tra il 1924 e il 1926 (nel frattempo, infatti, si era concretizzato il passaggio di gran parte dei capi e dirigenti del Psd’Az al partito fascista): difficile credere, diversamente, che un uomo severo e intransigente come Camillo Bellieni l’avrebbe citato — come si è riportato sopra — nel suo libro su Emilio Lussu del 1924, scritto in un momento in cui occorreva tenere alta e popolare fra le masse l’immagine del parlamentare sardista (immagine un po’ compromessa dopo le sue trattative col prefetto Asclepia Gandolfo riguardanti la confluenza al regime del Psd’Az).

È assai probabile che Graziani, come accadde alla maggioranza degli ex combattenti, sia stato a lungo indeciso da quale parte schierarsi; e che poi aderì al regime una volta constatato come anche la gran parte dei dirigenti e quadri del Psd’Az aveva compiuto la medesima scelta.

La sua presenza nella lista fascista per le elezioni comunali del 1926 non significò però l’ambizione di voler svolgere davvero un qualche ruolo politico di rilievo (e d’altronde gli mancavano alcune caratteristiche del “perfetto fascista”: parate, cerimonie e tutto il contorno della retorica fascista non si addicevano al suo carattere anticonformista e “sopra le righe”). Negli anni del consolidamento del regime e del consenso (tra il 1926 e il 1938) egli non ebbe infatti incarichi politici. Non ne ebbe nemmeno dopo aver pubblicato nel 1934 Fanterie sarde all’ombra del Tricolore, in cui egli “gioca” sulla — come direbbero i bibliotecari — “paternità intellettuale” dell’opera, facendo seguire al titolo la seguente dizione: «del Tenente Scopa, a cura dell’avv. Alfredo Graziani, con prefazione di S. E. Cesare Maria De Vecchi conte di Val Cismon» (che fu, con Mussolini e Emilio De Bono, uno dei quadrumviri della marcia su Roma del 1922).

[modifica] Fanterie sarde all'ombra del tricolore

Il libro ottenne il plauso del mondo culturale e meritò segnalazioni e recensioni su giornali sardi e della Penisola. Nell’archivio di famiglia sono conservate due lettere di Remo Branca, in cui il celebrato scrittore e artista (xilografo) — una delle figure più rappresentative della cultura sarda del Novecento —, gli esprime, appena letto il libro, i suoi complimenti e la sua emozione.

A conferma dell’importanza, l’opera è stata ripubblicata in anni a noi più vicini, nel 1987, dalla stessa casa editrice Gallizzi, con un’introduzione di Giuseppina Fois (autrice anche di Storia della Brigata Sassari, Gallizzi 1981), ma senza più la prefazione di De Vecchi, ed ha vantato note positive anche da parte di Manlio Brigaglia in un articolo scritto sull’«Unione Sarda» il 30 settembre 1988. Nei loro scritti i due storici hanno giustamente sottolineato le affinità tra questo libro e quello assai più famoso di Lussu (Un anno sull’altipiano).

Scrive la Fois: «Sarà comunque Graziani, il fascista Graziani, l’unico tra tutti i memorialisti a descrivere per esteso e senza censure di sorta gli episodi più drammatici e “scandalosi” raccontati anche da Lussu. Non si può certo trovare in Graziani l’impostazione lucidamente antimilitaristica [...] di Un anno sull’Altipiano, eppure l’analogia tra i due libri, nella successione degli episodi e persino in una certa vena amaramente ironica che li attraversa entrambi, è a tratti impressionante». Questa osservazione della Fois aiuta in qualche modo anche a capire il forte legame che univa sul fronte Graziani e Lussu: come quell’amicizia fosse cementata da una sostanziale affinità e condivisione di valori.

Fanterie sarde all’ombra del Tricolore è quindi un’opera assai pregevole per capire cosa significò quella terribile guerra e con quale spirito eroico e di sacrificio e quale amor di patria i sardi la combatterono (ma vi è evidenziata anche l’impreparazione degli alti comandi, spesso lontani dal comprendere le esigenze della truppa), oltre ad essere di piacevole lettura sotto il profilo squisitamente letterario («Questo libro è ben scritto — scrisse per primo giustamente De Vecchi concludendo la sua prefazione, in cui alterna opportune e condivisibili osservazioni a qualche sprazzo di retorica fascista — e si fa leggere più facilmente di un romanzo. […]. Leggetelo, e vi piacerà»).

Sembra, inoltre, che Fanterie Sarde all’ombra del Tricolore possa essere utile anche per trarre alcune indicazioni (se non altro per formulare probabili ipotesi) sul suo autore. Intendo dire che il forte, continuo e personale coinvolgimento di Graziani nelle vicende da lui descritte fa sospettare (alla luce delle nuove “avventure” militari da lui intraprese dopo la pubblicazione del libro) che gli anni della grande guerra avessero lasciato nel suo animo un solco, e forse un vuoto profondo e lacerante. Infatti, sembra che egli, mentre scrive, riviva (letteralmente, senza metafore) quella “sua” guerra, condivisa con i sassarini sia nelle trincee, invischiati nella infernale roulette quotidiana della morte — dove ogni attimo, ogni secondo vissuto, poteva essere anche l’ultimo —, sia nelle poche giornate di licenza in cui si tornava a godere e assaporare la vita (ma con lo stesso sentimento con cui si stava al fronte, con la consapevolezza cioè che poteva essere anche l’ultima volta): ore di libertà vissute intensamente, fino al midollo, durante le quali egli si dedicava con lo stesso ardore messo in battaglia, e con maggior successo — come si è detto sopra —, a conquistare altre trincee, i cuori femminili, cui poi doveva il soprannome che lo rese celebre sul fronte: «Scopa».

[modifica] Le altre guerre di Graziani

Insomma, è azzardato dire che Graziani finì per restare profondamente condizionato dalle esperienze vissute nella prima guerra mondiale (la vita in trincea come nelle ore di licenza), e che con le memorie di guerra, oltre che illustrare il contributo dei sardi della Brigata Sassari, egli intendesse anche soddisfare una propria e intima esigenza dello spirito, forse colmare un personale e intimo vuoto?

Se questa è però un’ipotesi, certo è che la guerra dichiarata dall’Italia nell’ottobre 1935 contro l’Etiopia ridestò i suoi sentimenti patriottici ed egli subito partì volontario: come poteva un “cantore” dell’ardimento dei sardi in guerra e dell’amor patrio esimersi da dare il buon esempio e non essere laddove la patria chiamava? (È poi da escludersi che il libro pubblicato, invece di esorcizzare il passato, avesse rinnovato in lui, insieme con un ritorno di celebrità, il desiderio di tornare ad essere protagonista?).

Certo è che egli non si recò volontario in Etiopia con lo spirito con cui vi andarono diversi ministri e gerarchi e politici di regime: per acquistarsi facilmente, magari stando nelle retrovie, benemerenze presso il Duce e nuove mostrine di Stato da esibire per ottenere nuovi posti di potere. L’onorificenza ottenuta nell’ottobre 1935 a Cavaliere della Corona d’Italia dietro proposta dell’Associazione Nazionale Combattenti (forse influì anche la pubblicazione del libro), contò per lui come un riconoscimento e basta. Pagò anche nella Campagna d’Africa, infatti, il dazio di essere un combattente e non uno in cerca di stellette: andò sul fronte nei pressi di Damas in Eritrea, col grado di primo capitano nel XXIII gruppo Cammelli, combatté davvero, e fu ferito alla testa.

Finita la guerra d’Etiopia con la proclamazione dell’Impero (maggio 1936), Alfredo Graziani ebbe appena il tempo di riambientarsi alla tranquilla (per lui probabilmente troppo) vita di paese che un nuovo evento militare lo precipitò lontano da casa.

Nel 1937, infatti, partì volontario per la campagna di Spagna in cui l’Italia si trovò impegnata a sostenere con la Germania di Hitler le armate del generale Francisco Franco contro quelle dei repubblicani, appoggiate dalla Russia e dai volontari comunisti, anarchici e d’orientamento social-liberale di tutta Europa. Per questo suo impegno poté fregiarsi, a partire dal 19 dicembre 1937, del titolo di primo centurione del Corpo Volontari, ma anche in questa occasione egli pagò il suo prezzo: fu ferito al ginocchio al quale fu impiantato un bel pezzo di filo di ferro.

Viene spontaneo chiedersi il perché di questa partecipazione volontaria ad un’impresa militare così marcatamente di carattere politico, dove non erano in gioco direttamente gli interessi della Patria e da cui poteva tranquillamente astenersene, visto che era — per età — libero da obblighi di leva, aveva già combattuto due guerre nelle quali era stato ferito, che non era più giovane e aveva moglie, due figli piccoli, e un terzo in arrivo (Caterina, che morì all’età di circa 18 mesi). La considerazione che egli, pur non essendo un fervente fascista fosse un fiero e acceso anticomunista, non sembra sufficiente e del tutto convincente.

Proprio alla luce della Campagna di Spagna viene da pensare invece che Alfredo Graziani, nelle due guerre combattute negli anni Trenta, avesse colto anche l’occasione per “liberare” il suo temperamento intrepido (la guerra vissuta come il luogo dove, nello sprezzo della morte, si rinnova ardente l’amore per la vita) e, in qualche modo, ritrovare se stesso: forse il vecchio tenente «Scopa» idolatrato dai suoi uomini; non è poi improbabile che in quelle guerre egli vedesse quasi il mezzo per evadere dall’ambiente paesano in cui viveva e in cui si sentiva come “ingabbiato”. Smessi definitivamente i panni del soldato con la breve partecipazione alla Campagna di Grecia nella seconda guerra mondiale (questa volta come richiamato), negli ultimi dieci anni di vita riprese ad esercitare la sua professione “borghese” di avvocato a Tempio e ad Iglesias. Morì a Tempio l’8 agosto 1950 a 58 anni. La notizia della morte, insieme con un breve ricordo della sua persona, pubblicata tre giorni dopo, l’11 agosto, da «La Nuova Sardegna», a firma di Eugenio Chirico, fu un giusto tributo alla sua figura di sassarino e di scrittore, ad uno dei tempiesi più famosi nella storia sarda del Novecento.

[modifica] Collegamenti esterni

[modifica] Bibliografia

  • Guido Rombi, Il tenente "scopa" e l'amico Emilio Lussu, «Almanacco Gallurese», 2002-2003, pp. 229-239.


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